TITOLO ORIGINALE: Barbie
USCITA ITALIA: 20 luglio 2023
USCITA USA: 21 luglio 2023
REGIA: Greta Gerwig
SCENEGGIATURA: Greta Gerwig, Noah Baumbach
CON: Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Kate McKinnon, Emma Mackey, Dua Lipa, John Cena, Kingsley Ben-Adir, Simu Liu, Will Ferrell
GENERE: commedia, fantastico, avventura, sentimentale
DURATA: 114 min
Dopo un esordio fulgido e brillante ed un adattamento onesto, elegante e modernissimo di un classico della letteratura ottocentesca, Greta Gerwig torna sul grande schermo "in combo" col marito e co-sceneggiatore Noah Baumbach per raccontare Barbie in lungo e in largo, una delle più grandi rivoluzioni ad aver scosso il panorama culturale americano ed occidentale, e l’immaginario collettivo negli ultimi 50, 60, forse addirittura 70 anni. Il risultato è un incrocio più interessante e fenomenico, che completo e complesso, tra l'esempio di blockbuster più merceologico, griffato e plateale, e il cinema d'autore dalle nobili finalità, socialmente e politicamente impegnato, e dal gusto e dallo spirito irrimediabilmente cinefilo. Un compromesso a regola d'arte.
Un compromesso. È quello che si raggiunge nel finale di Piccole donne di Greta Gerwig, nel quale Jo, la protagonista (del libro e, ovviamente, di questo ennesimo adattamento), aspirante scrittrice, acconsente a regalare all’eroina del proprio libro (che è poi il suo alter ego) un finale diverso, un finale di fatto contraddittorio rispetto a quello che aveva in mente quando ha iniziato a comporlo, ma, ancor prima, rispetto al proprio pensiero, al proprio sentire e sentirsi donna, al proprio modo d'essere, di intendere la vita ed insieme la condizione femminile; affinché lo scritto possa essere pubblicato e dar vita, grazie al potere dell’arte e della scrittura di “rendere rilevante” le cose, una piccola, grande rivoluzione culturale e sociale presso le giovani e le future generazioni.
Un compromesso con cui Gerwig smentisce un assunto pronunciato ad inizio film, ossia che “la morale non vende oggigiorno”. Un compromesso che questa meravigliosa attrice emersa (insieme a quello che poi sarebbe diventato suo marito, Noah Baumbach) nell’esuberante contesto, indie e tipicamente newyorkese, del mumblecore, poi passata dietro la macchina da presa - con due tentativi (Lady Bird e il già citato adattamento del capolavoro letterario di Louise May Alcott) che l’hanno presto resa una delle voci più interessanti del nuovo cinema americano - descrive, espone, rivela e mette in scena con grande onestà intellettuale, intuito, eleganza, animo e cuore.
È da quella stessa rivoluzione o, meglio, dai suoi primi baluginii, da quell’accordo e da quella onestà, ché prende il là il suo terzo, chiacchieratissimo ed attesissimo, lungometraggio. Barbie (la bambola) è, d’altronde, una delle più grandi rivoluzioni ad aver scosso il panorama culturale americano ed occidentale e l’immaginario collettivo negli ultimi 50, 60, forse addirittura 70 anni.
Chi o cosa meglio di Barbie è la prova provata che la morale, le idee non solo "rimangono per sempre", ma vendono? Quale compromesso è più rappresentativo e lampante di quello che ha definito i decenni di nuovi modelli, nuove strategie, nuove e più attuali variazioni sul tema, che ha sfornato il brand di Barbie e, più concretamente, la Mattel, sua unica e sola casa di produzione? Come ricorda bene Giorgio Viaro, il mondo plasticoso nato dall’idea e dall’immaginazione di Ruth Handler a fine anni '50 è diventato al contempo “l’apoteosi del kitsch e un’utopia progressista, o se vogliamo il pink mirror della società patriarcale che l’ha creato”.
Tutto ciò che è ed è sempre stato Barbie è pertanto un equilibrio, una negoziazione di passato e presente, intenti, propositi e fini, simboli e rappresentazioni, contraddizioni ed ipocrisie. Così anche il film dedicatole, che pare ed è, in fondo, a sua volta, un altro, l’ennesimo compromesso: quello tra un blockbuster estivo a prova di box-office, completamente in funzione della marca, dell’iconologia ed iconografia su cui si appoggia e da cui desidera e punta a generare profitto, ed un cinema d’autore dalle nobili finalità, socialmente e politicamente impegnato, e dal gusto e dallo spirito irrimediabilmente cinefilo (come confermato dalla stessa cineasta, c’è davvero di tutto: da 2001: Odissea nello spazio per raccontare proprio quello shock culturale di cui sopra legato all’arrivo sulla Terra, quasi fosse un’idea platoniana, di Barbie, ad Un americano a Parigi, da Il padrino a Grease, da The Truman Show a Matrix, con l’ennesima rivisitazione del mito della caverna e la scelta tra “pillola rossa o pillola blu”, così come The Lego Movie, fino ad arrivare addirittura a Les Parapluies de Cherbourg, E la nave va, Il paradiso può attendere e a Play Time, che ha evidentemente ispirato gli interni della Mattel).
Come si dice in uno dei primissimi segmenti della pellicola, Barbie può essere tutto, tutto può essere Barbie. E Barbie, il film, è fatto per piacere a tutti (o quasi). Sia che la sia ami, sia che la si detesti, per citare una delle frasi utilizzate in sede di campagna marketing.
Tuttavia, quello che molti potrebbero intendere come un’ipocrisia, una fallacia etica o addirittura un errore della pellicola viene messo in scena e dichiarato in maniera così plateale, schietta e coerente (tanto internamente, quanto nell’interezza della curiosa parabola ed ancora quantitativamente esigua opera gerwighiana), ché alla fine questo compromesso appare quale il solo e l’unico modo per far nascere qualcosa da un simile soggetto. Quasi fosse il male minore, la proverbiale pillola amara da mandare giù obbligatoriamente, l’unico mezzo per giungere ad un fine ben preciso. Per infondere nelle giovani generazioni, ma anche nei più grandicelli, un discorso ancor prima che contingente ed attuale, assolutamente giusto.
Una morale che diventa (e non può che diventare) perciò, nel bene e nel male, una merce prestigiosissima, un’unità di misura della filiera hollywoodiana, se non l’oggetto di una campagna pubblicitaria tra le più grandiose, persistenti, pervasive ed ispirate che la storia del cinema (che - lo ricordiamo ai più romantici - è anche una delle industrie più proficue al mondo) abbia mai scorto. Ciò detto, per chi scrive, non basta la giustezza, la conformità, la rispettabilità e anche l’inattaccabilità di un ossimoro, di un compromesso, per soprassedere su quello che appare, da un punto di vista più cinico e disilluso, come un blando e spiacevole tentativo di brand-washing da parte della stessa Mattel, a seguito delle cadute di stile e dei fallimenti commerciali dell’ultimo periodo, sia attraverso una celebrazione leggermente autocritica del retaggio, degli errori, ma anche dei successi e dei primati dell’azienda, sia tramite un montaggio patetico, dall’estetica abbastanza dozzinale e discutibile, che sembra quasi voler rassicurare i genitori-spettatori della bontà umana e dell’amabilità del marchio e dei suoi prodotti.
Non basta inoltre un altro bollino, quello (di qualità) di Greta Gerwig e del marito e collega Noah Baumbach, per distoglierci dalla facilità di alcune soluzioni narrative - laddove entrambi le hanno sempre rifuggite o comunque sfumate, puntando (chi più, chi meno) ad un cinema libero, inclassificabile, peculiare, legato a doppia mandata con la propria personalità, sensibilità ed intelligenza -, la banalità, il didascalismo e la ridondanza di alcuni motivi ed espedienti comici, la sensazione che non si sia (o, meglio, non si sia intrinsecamente potuto - di nuovo, il compromesso) andato fino in fondo alle potenzialità, ai risvolti logici e alle naturali conseguenze verso cui sembrano tendere tanto il soggetto, quanto il copione nelle sue prime mosse.
Il che va poi a discapito e smonta tutto ciò che di valido, incantevole ed eccezionale si è riusciti a creare e portare sul grande schermo. Parliamo allora della ricostruzione filologica e maniacale che si riversa irrimediabilmente nel world-building e nella creazione di un mondo diegetico quanto più profondo ed approfondito. Dell’ideazione e composizione materiale di una vera e propria ode al rosa (“che va con tutto”) in tutti i sensi possibili, di un baccanale stravagante, caleidoscopico, straripante di stimoli visivi, spunti, dettagli presenti, seppur perlopiù impercettibili, di un’attraente festa per gli occhi che, del tutto congruamente, recupera l’effetto tattile, ludico e plasticoso di tutto ciò che è ed è stato Barbie, innescando i processi di immersione ed una lieta malinconia fanciullesca. Una festa, quest'ultima, di cui si vorrebbe godere senza interventi od obblighi narrativi. Di scenografie, costumi ed oggetti di scena che si aggiudicheranno senza troppa fatica alcuni tra i riconoscimenti più importanti nel corso della prossima stagione dei premi.
A risentirne, di questa indulgenza, abulia e ridondanza compositiva generale e generalizzata, è inoltre un casting al solito inappuntabile e precisissimo, unito alla riconferma di un lavoro con gli attori già consono e proprio di una grande personalità registica. Non ci sarà, né ci potrà essere altra Barbie al di fuori di Margot Robbie: la sua (in)credibile perfezione, il suo sorriso, il suo fisic du role, la sua completa dedizione al ruolo (da lei tanto agognato e che probabilmente ne segnerà per sempre la carriera) sono già scolpiti nel firmamento hollywoodiano e nell’immaginario di tutti.
Come lo è il Ken di Ryan Gosling, in aperta, svagata, affabile e poliedrica competizione (per chi scrive, vincente) con la co-star, mattatore assoluto, nonché protagonista, insieme agli altri Ken, di alcune delle più fulgide e straordinarie sequenze - come la loro piccola guerra civile combattuta attraverso la danza e le citazioni più disparate al filone musical, dall’abbigliamento total black di Gene Kelly alla scenografia di Cantando sotto la pioggia, passando all’idea del ballo come ad un gesto cinematografico in sostituzione della violenza à la West Side Story, fino ad arrivare alla coreografia in sé e per sé, che pare riprendere i passi caratteristici e l’atletismo di John Travolta, tra Staying Alive, La febbre del sabato sera e il già citato Grease.
E poi ci sono America Ferrera, Kate McKinnon, Emma Mackey, Connor Swindells, Michael Cera, Dua Lipa, John Cena, Kingsley Ben-Adir, Simu Liu, Ncuti Gatwa, Emerald Fennell e Will Ferrell, i quali, pur dovendo cedere spesso i riflettori a quelli che, in fin dei conti, sono i volti, gli ovvi rappresentanti della dialettica e del conflitto ideale ed ideologico alla base della composizione di Gerwig e Baumbach; riescono (di nuovo, chi più, chi meno) a lasciare un segno, un’impronta, un ricordo in chi guarda, soprattutto apportando al film tutta una serie di interessanti sottotesti che ci permettono, ad ogni nuovo risvolto, di attestare la presenza di un’autrice, di una voce registica ben definita alla guida.
Si pensi per esempio alla scelta di affidare alla Ferrera, interprete della nota Ugly Betty, un personaggio figlio di una visione fallocentrica e maschilista dei concetti di bellezza e femminilità, il monologo ispirazionale ed aspirazionale, quasi uno sfogo catartico di decenni, se non proprio secoli di frustrazioni, malesseri, timori, paure, vessazioni, privazioni e discriminazioni, che risveglierà le Barbie dal torpore “kenergico”, dall’incantesimo di sottomissione di cui sono state vittime.
Come “troppo” torpido, incantato, confortevole ed inerte diventa il racconto e il discorso di Greta Gerwig, man mano che ci si avvicina ai titoli di coda. Con l’unica differenza che tutto torna, tutto è esattamente dove e come deve essere per non scontentare nessuno, in una costruzione un po’ ruffiana e davvero impossibile da confutare e biasimare, merito anche dell’equilibrio e dell’equa ripartizione della sceneggiatura tra una presenza maschile ed una femminile.
Appunto, se c’è una cosa su cui Barbie può contare ciecamente è la sua coerenza interna, che mantiene integra ad ogni nuovo passo e scelta intrapresa dal proprio intreccio. E quindi: nell’intuizione di dar l’idea del plasticoso e dell’artificialità che governano e contraddistinguono Barbieland - un mondo il cui grande male è più che altro l’ignoranza (di tutti, non solo dei Ken, come qualcuno ha lamentato), specchio riflesso, ingenuo, utopico del mondo reale - anche e soprattutto attraverso la parola, che segue una drammaturgia semplice e, appunto, bambinesca. Ma anche nell’idea di fondare i veri sviluppi dell'opera su una doppia epifania (sempre sottolineata e commentata, tra l’altro, dalla kubrickiana Also sprach Zarathustra). O ancora, in quella di rendere conservatrice ed insofferente al cambiamento pure la propria eroina (e di farglielo confessare a gran voce, per giunta) e il proprio percorso, che rispolvera la morale e la missione con cui nacque il primo esemplare di bambola, il suo viaggio da immatura Barbie-stereotipo a donna in tutto e per tutto. Così come nella scelta di rendere i Ken, le loro fragilità e i loro problemi nel rapporto con la controparte, e la loro, ridicola ed istintivamente sensata rivoluzione, in un certo senso, il fulcro di tutto il secondo atto.
Ecco, pure in questo caso, ci troviamo di fronte ad un compromesso inevitabile, che arriva dritto e con pochissimi, veri colpi di genio, verso l’obiettivo, fatto per piacere a chi si aspettava la bambola ed ha ottenuto una donna in carne ed ossa, e viceversa.
Eppure, quel che bisogna e bisognerebbe chiedersi è: è abbastanza? O come direbbero gli amici angloamericani, is it (k)enough? È abbastanza una pellicola che dice più cose su ciò che lo circonda, che non su ciò che avrebbe potuto essere? Lo è un film senz'altro divertente, ma più interessante e fenomenico, che propriamente completo e complesso? Un film che, meglio e più di tutti, è capace di raccontare la contemporaneità, l’oggi cinematografico e non, a partire anche solo dalla colonna sonora all-star e dalle coreografie, già pronti per essere gettati e riproposti in mille forme diverse dall’inarrestabile ed insaziabile frullatore culturale e di contenuti che è TikTok? Ci possiamo insomma accontentare della sceneggiatura forse meno brillante mai (co-)firmata da Noah Baumbach? Ci possiamo accontentare della minore delle tre regie di Greta Gerwig?
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