TITOLO ORIGINALE: Beau Is Afraid
USCITA ITALIA: 27 aprile 2023
USCITA USA: 21 aprile 2023
REGIA: Ari Aster
SCENEGGIATURA: Ari Aster
GENERE: drammatico, grottesco, orrore, commedia
DURATA: 179 min
Dopo aver ottenuto il plauso di critica e pubblico e aver imposto una visione ben definita dell'horror (quello di possessioni e il folk horror) con Hereditary e Midsommar, Ari Aster torna al cinema con Beau ha paura, una pellicola più dalle parti della commedia grottesca e del weird movie, che dell'horror duro e puro. Un Joaquin Phoenix al riciclo e risparmio interpreta un uomo solo, paranoico, nevrotico, disturbato, impaurito da tutto quanto si trovi al di là o al di qua della porta di casa, e caratterizzato da un rapporto speciale ed esclusivo con la madre. Quello che attende lo spettatore per tre ore è l'apice esasperato ed esasperante della formula, della poetica e dell'estetica di A24. Una masturbazione persistente, languidissima, stiracchiata fino all’autodistruzione. Il nulla architettato e premeditato per sembrare viceversa più sofisticato, geniale, stravagante e provocatorio di quello che realmente è o può ambire ad essere.
Di nome fa Beau, il suono onomatopeico più vicino a quello comunemente riferito allo spavento o alla derisione, allo scherno. Di cognome Wassermann, che potremmo suddividere in due parole e tradurre con “Uomo dell’Acqua”, oppure tradurre nella sua interezza, ovvero “piscina”. E l’acqua, simbolicamente intesa come l’origine della vita: in un liquido, quello amniotico, passiamo i mesi prima di venire al mondo; torna molto nella vita (e non-vita) di Beau Wassermann.
Wassermann era però anche il cognome del medico che, nel 1906, scoprì il metodo biologico per la diagnosi della sifilide, poi divenuto di uso universale col nome di reazione di Wassermann. Non solo, se la W (di Wassermann) la si sostituisce con la B (di Beau), si ottiene il cognome di Alfred Bassermann, critico letterario ottocentesco e traduttore tedesco noto per l'opera di traduzione poetica della Divina Commedia e per lo studio della geografia dantesca Dantes Spuren in Italien.
Insomma: già nel nome e nel cognome di Beau Wassermann è possibile ritrovare un’enorme quantità di indizi e coincidenze (volute) che dicono molto, forse tutto, di lui e del film di cui è protagonista, Beau ha paura - in originale Beau is Afraid. Titolo, quest’ultimo, che a sua volta conserva l’indizio rivelatore, quello più importante ai fini del significato dell’opera. B is A: un partire dal punto d’arrivo (geograficamente e comunemente indicato con la B) per tornare all’inizio (la A).
Ebbene, tutto questo disseminare indizi, renderli disponibili ancor prima di aver visto la pellicola, porli sotto gli occhi di tutti eppure visibili solo per coloro che realmente intendono cercarli, la dice lunga su ciò che è Beau ha paura. Ché, oltre ad essere tutto quello che abbiamo scritto fin qui (su cui torneremo tra qualche riga), è anche e soprattutto il nuovo (e terzo) lungometraggio di Ari Aster, giovane promessa dell’horror contemporaneo ed una delle voci rappresentative di quel modo di intendere autorialmente, elegantemente, sovversivamente il genere.
Dopo aver riletto e ribaltato, col favore di critica e pubblico, il film di fantasmi e di possessioni con Hereditary e il folk horror alla The Wicker Man in Midsommar, egli si discosta, in un certo senso, dall’horror duro e puro, a favore di una commedia dai toni grotteschi e bizzarri, un weird movie che ciononostante mantiene ben saldi i legami di parentela e discendenza(!) con le due opere che lo hanno preceduto. Tra questi, vi sono senz’altro ed innanzitutto la configurazione profondamente drammatica delle storie che Aster sceglie di portare sullo schermo - trasfigurate poi attraverso le meccaniche del genere -, così come torna l’idea del lutto come forza centripeta, come fattore scatenante dell’azione.
Infatti, la vita del già citato Beau Wassermann, uomo solo, paranoico, nevrotico, disturbato, impaurito da tutto quanto si trovi al di là o al di qua della porta di casa, crolla di colpo quando viene a sapere che la madre - con cui condivide un rapporto che ci limiteremo a sintetizzare con gli aggettivi “speciale” ed “esclusivo” - è morta in un incidente domestico. Da qui ha inizio un’avventura, sospesa tra Dante (come profetizza il suo legame fonetico con Bassermann), Kafka, Joyce e Freud, che lo porterà a contatto con la madre - non a caso - di tutti i suoi problemi e di tutte le sue insopprimibili paure, angosce e ansie; con ciò o, meglio, colei che lo ha reso quello che è oggi, forse non è mai stato, o forse sarebbe stato se…
È allora nel rapporto, edipico e freudiano, con la maternità che Aster situa il fulcro, il centro nevralgico del significato e della verità ultima della propria pellicola, di un viaggio nel tempo e nello spazio, che inizia e finisce col pianto (ma di due persone diverse), e che, in perfetta coerenza con quell’edipismo di fondo (di amore sessuale e odio suicidico per la propria genitrice), vorrebbe tenere assieme due sentimenti solo apparentemente contrastanti: quello (per lui) più praticato dell’orrore, dello spavento, dell’inquietudine, della paura appunto, e quello, invece, (sempre per lui) inedito della risata.
Tutto molto interessante e promettente, se soltanto la realtà del film non fosse delle più insignificanti, parossistiche, autoindulgenti, trascurabili, elementari e poco ispirate la A24 ci abbia propinato in questi ultimi anni. Quella stessa A24, reduce dalla vittoria di ben nove premi all’ultima edizione degli Oscar, sulla cui poetica, politica, idea di cinema e di mercato ci siamo già dilungati in altre recensioni (di Men, The Green Knight, Everything Everywhere All at Once, C'mon C'mon, ergo non staremo a ripeterci), e che, in Beau ha paura - il suo film (ingiustificatamente) più costoso - raggiunge l’apice esasperato di ogni suo discorso estetico e produttivo, dando piena libertà creativa e decisionale al proprio autore o, meglio, al suo protetto, uno dei suoi più custoditi e riveriti protetti, e confezionando un film dall’impianto apertamente blockbuster e commerciale (si pensi anche solo alla scelta di Joaquin Phoenix), ma dalla materia e dal contenuto incondizionatamente, e per lo più rovinosamente, indie e d'autore.
Beau ha paura è allora forse pure l’assoluta deflagrazione dell’equilibrio e della contraddizione alla base della factory, trionfale nel caso del succitato film dei Daniels, qui invece potenzialmente autodistruttivo. In altre parole, la riprova dell’utilità e della necessarietà della figura del produttore all’interno di un panorama e di un’industria come quella statunitense. Una figura, nata apposta, e nei casi più virtuosi, per dare un freno, un responso, fornire una misura, porre limiti e condizioni che idealmente dovrebbero sbloccare e stimolare l’intuizione, il genio o, in alcuni frangenti, addirittura lo spirito di sopravvivenza (artistica) di registi o chi per loro, al fine di non accontentarsi in partenza e non dare per assodate le proprie idee, le proprie scelte, le proprie ambizioni.
Per tornare quindi a quanto scritto in apertura, quella di Aster è una pellicola che interiorizza e rende cifra specifica (per non dire, rimanendo in tema, maledizione congenita ed ereditaria) proprio quel bearsi, in Hereditary, di un ermetismo complesso e complicato solo nel modo di porlo e proporlo allo spettatore, mentre la sostanza era quanto di più semplice e proverbiale.
Se però, in quell'esordio, questo elemento e questa debolezza relativa venivano mitigati dall’originalità e la brillantezza della scrittura, dei ragionamenti su mezzo e linguaggio e della composizione estetico-visiva, Beau ha paura ha solo quello. Quell’idea del cinema come di un costosissimo rebus da risolvere, in cui una sola visione, interpretazione, un solo senso e significato sono consentiti (quello custodito in nome, cognome e titolo). Un rebus, per il cui scioglimento è necessario magari vedere e rivedere più volte il film, così da scovare ogni singolo indizio ed elemento nascosto ai bordi dell’inquadratura o in uno stralcio di dialogo. Cosa alquanto improbabile, resa se non altro proibitiva dalla soglia di ben tre ore di durata!
Tuttavia, la cosa più disarmante della pellicola (e, in particolare, del suo essere il terzo lungometraggio di un regista talentuoso, che ha sempre avuto una sua rotondità, una sua compattezza, oltre ad un motivo e ad un’esigenza altra oltre la mera decifrabilità narrativa del testo) è la totale assenza di un elemento, un aspetto, un risvolto veramente innovativo e nuovo da mostrare o raccontare . Qualcosa che lo renda un passo in avanti rispetto ad Hereditary e Midsommar, che non riconfermi solo ed esclusivamente il talento, già riconosciuto, nella descrizione degli spazi e, soprattutto, degli interni, nella composizione visuale, nel lavoro maniacale sul sonoro e sulla profondità di campo.
Invero, oltre ai già citati Dante, Kafka, Joyce e Freud per quanto riguarda le coordinate narrative, narratologiche e tematiche del film, questo non ha davvero nulla che non si sia già visto altrove: dal cinema della mente, introspettivo, fluviale, rappresentativo, di Charlie Kaufman, passando per quello visionario e onirico (semplificando) di David Lynch e (in un segmento animato praticamente autarchico, situato a metà racconto) di Michel Gondry, fino ad arrivare all’uso che si fa di Joaquin Phoenix, qui impegnato fondamentalmente in un assolo delle solite tre faccette sconcertate, impaurite, traumatizzate, patetiche, in una ossessiva e banale riedizione, alla lunga ridondante ed estenuante, del suo essere volto per antonomasia del disagio, del trauma, del perturbante e del perturbato. Tant’è che quando, in un flashback, verrà sostituito da un attore più giovane, quest’ultimo sembrerà quasi il prodotto artificiale ed artificioso di un computer o di una AI.
Questo tipo particolarissimo di volto, Phoenix lo è fin dai tempi di The Village, per non parlare poi di The Master, Lei, Vizio di forma, Irrational Man e, ovviamente, di Joker. Quello stesso Joker di cui Beau è un po’ una versione alternativa, ovvero sempre un uomo solitario, incompreso, fragile, con un rapporto morboso con la madre ed un padre di cui non conosce volto ed identità, che però, a differenza del villain fumettistico, non ha mai la sua rivincita, non diventa il simbolo di un disagio, sociale ed esistenziale. Anzi, egli non fa che subire, dalla prima sequenza fino al momento in cui forse tornerà da dove è venuto, da dove tutti noi veniamo, per essere giudicato e permettere idealmente a noi spettatori, come si dice ad un certo punto prima di una rappresentazione teatrale (che punta ad “abbattere il confine tra pubblico e attori”), di identificarci e comprendere totalmente il suo stato d’animo.
Di provare finalmente, dopo tre ore di nulla architettato e premeditato per sembrare viceversa più sofisticato, geniale, stravagante e provocatorio di quello che realmente è o può ambire ad essere. Di un film che, passata la prima ora e trenta, entra nella più rovinosa delle cadute libere. O, più nel dettaglio, di rappresentazioni in scala domestica della tripartizione freudiana dell’apparato psichico (Es, Io e Super Io), innesti fantastici e fiabeschi, critiche all’abuso di farmaci e pillole, futuri distopici fatti di perversioni ed iperboli delle ossessioni, questioni e problemi della società americana contemporanea, triple rinascite, anticipazioni ed analessi, sacche scrotali gigantesche, eiaculazioni mortali, nascite viste in soggettiva, apparati riproduttivi che diventano mostri carpenteriani, e Mariah Carey… Insomma, di provare finalmente, dopo tutto questo, una qualche sorta di catarsi.
Eppure, le possibilità che questo possa avvenire, e che lo spettatore arrivi volentieri all’orgasmo finale di una masturbazione persistente, languidissima, stiracchiata fino all’autodistruzione, si sono dissipate già al terzo cambio di ambientazione. Unirsi al coito e rifiutare ogni supposta ragione per cui criticare e dimensionare debitamente la pellicola per abbandonarsi alla sua innocua stranezza può essere dunque una valida soluzione per sopravvivere alle paure di Beau e giungere fino ai titoli di coda. L’altra è sopravvivere. E basta. Se volete, magari fare una preghiera per il futuro di Aster, che presumibilmente uscirà segnato ed egli stesso impaurito dal primo, vero flop della sua fulgida e promettente carriera.
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