TITOLO ORIGINALE: Everything Everywhere All at Once
USCITA ITALIA: 6 ottobre 2022
USCITA USA: 25 marzo 2022
REGIA: Daniel Kwan, Daniel Scheinert
SCENEGGIATURA: Daniel Kwan, Daniel Scheinert
GENERE: commedia, fantastico, azione
Videoclippers di pregio, già registi di Swiss Army Man, Daniel Kwan e Daniel Scheinert, in arte i Daniels, firmano Everything Everywhere All at Once, progetto made in A24 dichiaratamente low budget e pressoché homemade, che approda nelle sale italiane mesi dopo l’inaspettato successo al botteghino statunitense, sfidando l'istituzione dei cinecomics sul suo stesso terreno, con il suo stesso ricettario estetico e narrativo e attraverso qualche stilettata all’interscambiabilità e all’omologazione degli immaginari che propongono e che propone, più generalmente, il cinema mainstream. Un classico melò familiare si concede agli orizzonti fantascientifici e spettacolari di un multiverso esistenziale. Ma il gioco vale davvero la candela?
Cosa sono oggi l’originalità, la singolarità, l’unicità? E cosa, nel mondo in cui viviamo: uno dove sembra essersi dissolto il brivido, la vertigine, il prurito dell’insondato, dell’ignoto, dello straordinario, nel quale continuiamo ad essere navigatori, ma non di caravelle alla scoperta di nuovi territori, quanto piuttosto di percorsi, piste, iter, che sperimentiamo e scopriamo per procura, perché qualcosa o qualcun’altro li ha già tracciati prima di noi; si può dire realmente nuovo?
Sono domande che ricorrono con sempre maggior frequenza, specie fra coloro che hanno a che fare con l’immaginazione e in quelli che, questi immaginari, li vivono (o giudicano, nel caso di chi scrive); e per cui probabilmente non esiste risposta. Ciò nonostante, mai come oggi la vera novità e, perciò, la genialità risiedono forse nella banalità - a suo modo traumatica - di un intuito che scombina e ricombina, in modo semplice, logico e naturale, elementi precostituiti, strumenti già dati e confini già visti, più che nel fabbisogno e nella strenua, inderogabile e quasi definitiva creazione di cose mai viste, di nuove stravaganze, di bizzarrie gargantuesche, di illusioni traumatizzanti. Non è pertanto ciò che di chimerico e fantasmagorico si vede, a definire oggi l’originalità e l’inventiva, ma piuttosto la prospettiva da cui si considera e riscopre un qualcosa di assodato.
Ebbene, la pellicola che, suo malgrado, conferma, più e meglio di tante altre, questo assunto è Everything Everywhere All at Once, progetto made in A24 dichiaratamente low budget e pressoché homemade, che approda nelle sale italiane mesi dopo l’inaspettato successo al botteghino statunitense (che lo ha reso il più grande successo dello studio e il primo grande indie post-pandemico a riportare persone in sala); e seconda tappa, dopo il (per chi scrive) sopravvalutato, irritante, prolisso e scoordinato Swiss Army Man, dell’incursione cinematografica di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, in arte i Daniels, duo registico conosciuto principalmente per il loro sostanziale contributo al mondo dei videoclip.
Una pellicola, che è sostanzialmente il racconto di una famiglia di immigrati sino-americani, i Wang, proprietaria di una lavanderia a gettoni - che è pure la loro casa - e dei problemi ordinari che si ritrovano a dover fronteggiare. E quindi i debiti, le scadenze, la burocrazia soffocante e le difficoltà ad integrarsi come si deve, il cercare di non lasciarsi sopraffare da una routine frenetica, caotica, estenuante, frammentaria, in sostanza, il miraggio di un Sogno Americano impossibile e le gabbie di un mondo e di un presente che corrono instancabilmente, senza preoccuparsi di chi non riesce ad adattarsi, a stare al passo o a seguirne le regole; combinati alle più proverbiali disfunzioni relazionali, quali un divorzio alle porte e il dramma di una figlia che non si sente compresa ed accettata da una madre troppo presa dal proprio lavoro, assorta nei propri pensieri, rimpianti e preoccupazioni.
Parte quindi come il più classico dei melodrammi, Everything Everywhere All at Once, come l’ultimo arrivato di una cinematografia votata ad una maggiore rappresentatività e centratura di coloro che sono sempre stati tenuti ai margini dell’inquadratura (leggasi Minari o Red); fino a quando Evelyn - questo il nome della signora Wang - non viene contattata dalla variante di suo marito Waymond proveniente da un altro universo, il quale le chiede disperatamente un aiuto per sconfiggere Jobu Tupaki, un’entità misteriosa, malvagia e nichilista, secondo cui “nulla ha davvero importanza”, che intende distruggere l’equilibrio del multiverso.
L’intimità e la sobrietà del melò familiare si concede e viene dunque scompaginata da un turbinoso, folle, sconsiderato, incontrollabile andirivieni tra una realtà parallela e l’altra; dalle ambizioni spettacolari del blockbuster puro, allargando a dismisura i propri orizzonti narrativi e tendendo la propria visione verso proporzioni fantascientifiche e straordinarie. Il film dei Daniels arriva pertanto a confrontarsi a viso aperto col cinecomics, in particolare, con i suoi migliori alfieri, i Marvel movies; e lo fa sul loro stesso terreno, appropriandosi del loro stesso ricettario estetico e narrativo (il multiverso, le varianti, i salti) e lanciando pure qualche stilettata all’interscambiabilità e all’omologazione degli immaginari che propongono e che propone, più generalmente, il cinema mainstream (ragion per cui Rocket Raccoon può sostituire Ratatouille, e viceversa).
E tanto basta, per rendere godibile e fluido tutto il primo capitolo (dei tre complessivi lungo i quali si snoda la vicenda). Basta il recupero che i Daniels compiono rispetto alle illusioni, ai trucchi e alle peculiarità fondative e primordiali del mezzo cinematografico (su tutte, il montaggio vorticoso e precisissimo di Paul Rogers). Basta l’uso consapevole, intelligentissimo, stupefacente, proteiforme dei propri attori - specialmente, di una magnifica, agonistica e sempre credibile Michelle Yeoh, di un riscoperto e delizioso Jonathan Ke Quan (già Short Round in Indiana Jones e il tempio maledetto e Data de I Goonies) e di una Jamie Lee Curtis insieme spassosa ed inquietante, merito di un personaggio davvero affascinante ed iper-dettagliato.
Basta, insomma, assistere e divertirsi con, e di, una Evelyn naturalmente disorientata e fuori luogo, al suo primo contatto ravvicinato con il multiverso e le sue regole (vedasi i bizzarri e fantasiosi metodi con cui accedere al viaggio trans-dimensionale e, dunque, alle altre versioni di sé). Oppure, a scanso di qualche didascalismo di troppo, il brivido di vedere dispiegata di fronte ai nostri occhi una vera, nuova strada nella mitologia attualissima ed urgente della multidimensionalità - che è poi una delle migliori trasfigurazioni del caos, del disordine, della frammentarietà del nostro presente iperconnesso, del bombardamento di immagini e stimoli che sperimentiamo ogni giorno, della centrifuga multimediale che ci promette soluzioni facili a tutti i nostri problemi, ma che al contempo ci aliena e anestetizza.
Una filosofia di multiverso, quella varata dai Daniels, basata, visivamente, su un taglia e cuci post-moderno, caleidoscopico, fluviale, enciclopedico di generi (il film di arti marziali, la commedia demenziale, il melò), tecniche (animazione) ed estetiche (l’eclettismo pop di Edgar Wright, l’assurdo assoluto di Quentin Dupieux, il romanticismo temporale di Wong Kar-wai), e su un trionfo dello sforzo produttivo, dei mestieri e dell'artigianalità della macchina cinematografica, che, vista la ristrettezza produttiva di cui sopra, è forse ancor più sorprendente ed interessante di tutto ciò che ci viene proposto su schermo; invece, narrativamente, non tanto - come avviene, ad esempio in casa Marvel - su qualcosa di puramente ed incondizionatamente fantascientifico, che sfugge dunque al nostro controllo, quanto piuttosto sul nostro libero arbitrio, sui percorsi di vita che abbiamo o meno scelto di intraprendere in momenti cruciali della vita, sui successi e sui fallimenti in cui ci crogioliamo o annientiamo.
Peccato soltanto che, superata questa soglia, Everything Everywhere All at Once si incarti su sé stesso, sulla necessità di far quadrare tutto, sulla complessità del proprio mondo, e non riesca, d’altro canto, a giustificare una durata esosa, finendo, in primis, per incorrere in una ridondanza e in una ripetizione autodistruttive di dinamiche e situazioni, e dimostrando, specie negli ultimi trenta, quaranta minuti, una disarmante incapacità di sintesi (un semplice scambio di battute tra una madre e una figlia viene invero allungato e riempito a dismisura, fino all’eccesso, fino al punto di non ritorno).
Presi come sono, infatti, dall’aprire una nuova strada all’interno di un cinema blockbuster che praticano ma, come altri casi indie, amano e comprendono solo tangenzialmente, i Daniels si dimenticano di omologare e costruire, al contempo, una sostanziosità discorsiva e contenutistica, che è, in fin dei conti, l’unica cosa che resta davvero, al di là dell’esaltazione e dell’ebbrezza totalmente immediata, transitoria ed epidermica di una corsa trans-dimensionale (in cui, a dirla tutta, gli unici elementi veramente originali sono poco più che capricci puerili, dettagli weird a margine, come, ad esempio, i cosiddetti “tappeti elastici” per connettersi agli altri sé).
Lo stesso ingrediente che avrebbe potuto fare di Everything Everywhere All at Once il nuovo Matrix. Una pellicola, quest'ultima, che, guarda caso, ha avuto un impatto e forti ripercussioni sul corso della futura e odierna storia del cinema e dell’industria dell’audiovisivo - fin proprio a questo punto, al film in oggetto - proprio per il modo in cui, come anticipato in apertura, guardava, ridefiniva con genialità ed originalità, apriva nuovi orizzonti su qualcosa di già dato (si pensi al mito della caverna platonica, alla letteratura di William Gibson, Bruce Sterling e Philip K. Dick, all’ipotesi del genio maligno di Cartesio, alle inquietudini di una società e di un mondo sempre più eterei, alienati, dipendenti dalla tecnologia e dalle macchine), ponendo perciò concetti (non trucchi di prestigio!) rudimentali al servizio e a beneficio di un mondo ancora oggi affascinante e rivelatorio per merito appunto di queste solide fondamenta; di questo forte mix concettuale ed ideologico.
Al contrario, quello da cui prende il via il film dei Daniels è un movimento di segno e direzione opposti: il multiverso diventa una dimensione perfettamente intercambiabile, al servizio dello stesso melò dell’inizio, il quale ricompare, tutt’altro che ispirato od innovativo nella sua costruzione drammaturgica e patetica, nell’epilogo. Al servizio della storia tripartita di una presa di consapevolezza, di un consolidamento, della scoperta che l’unica cosa che conta - che equivale all’unico universo possibile - in questo caotico vorticare di alternative e diametralmente paralleli è quello che abbiamo sempre avuto di fronte agli occhi. Ossia la famiglia; quei legami unici e quell’equilibrio che ci prevengono dal cadere nell’oblio di un bagel oscuro, mesmerizzante, annichilente. Un concetto, quest’ultimo, affermato fin dalla primissima inquadratura e ribadito, senza sorprese, nell’ultima, interminabile mezz’ora.
Così facendo, Everything Everywhere All at Once cade però negli stessi errori, nei medesimi tranelli e nelle stesse contraddizioni che attribuisce e denuncia ai colleghi blockbuster (gli stessi, di cui si professa alternativa più sofisticata ed inventiva), sminuendo innanzitutto lo sforzo produttivo e riducendolo, di conseguenza, ad un detour inutilmente complesso e complicante. Ad un altro multiverso della follia, solo più artigianale, appariscente, zen, cinefilo. Ma il gioco vale la candela?
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