TITOLO ORIGINALE: Turning Red
USCITA ITALIA: 11 marzo 2022
USCITA USA: 11 marzo 2022
REGIA: Domee Shi
SCENEGGIATURA: Domee Shi, Julia Cho
GENERE: animazione, fantastico, commedia, avventura
PIATTAFORMA: Disney+
25° lungometraggio firmato Pixar Animation Studios, Red di Domee Shi è il gemello diverso di Luca di Enrico Casarosa: un racconto limitato ad un luogo ben circoscritto, diretto da un'esordiente che, nel pensarlo, si rifà più o meno espressamente ad un corto da lei firmato e, in egual misura, a memorie d’infanzia, concernente tematiche (come sempre) mature che qui riabbracciano però una valenza puramente moralistica e pedagogizzante, caratterizzato inoltre da una gestione drammaturgica più semplice e prevedibile, una coesione essenziale di elemento realistico e magico-fantastico, ed un’attenzione maggiore agli elementi più infantili e bambineschi. Un film che, proprio come Luca, parla di un'adolescente la cui crescita, pubertà e cambiamento vengono raccontati attraverso un cambiamento fisico di tipo magico, fantastico, mistico. Un film imperfetto e meno riuscito rispetto a quello di Casarosa, con lo sguardo rivolto al futuro e al domani ed un sorriso malinconico e agrodolce sulle labbra.
C’era una volta un castello in una landa fatata, fatta di principesse e principi, regine e re, streghe e stregoni, nani lavoratori, animali parlanti ed avventure oltre i limiti dell'immaginabile. Un castello in cui, qualora un incantesimo maligno avesse trasformato un principe in una bestia spaventosa, arcigna, seppur dal cuore puro e gentile, quest’ultimo doveva solitamente tornare bello, umano, “normale”, prima dello scorrere dei titoli di coda. In questa reggia infatti, la mostruosità, la bestialità, persino l’elemento fantastico più eclatante ed eccellente - resi uno sfondo, un’atmosfera, un mero ecosistema o una necessaria conditio sine qua non asservita agli scopi del racconto - dovevano essere sempre e comunque ricondotti ad un qualcosa di riconoscibilmente e perfettamente umano (o, al limite, umanoide).
Esiste invece un presente in cui l’ultimo nato di una delle province, dei valvassori, dei portabandiera (chiamatela come volete) di quello stesso castello, ribadisce (e non è l’unico a farlo) che non serve essere perfetti, che non è più d'obbligo nascondere, spezzare o risolvere la propria bestialità, i propri difetti, le proprie macchie personali, i propri lati negativi. Anzi, con questi lati bui ci si può convivere; questi lati bui li si possono accettare e riconoscere come parte integrante ed essenziale di ciò che siamo, di ciò che ci anima davvero. (E, prima che proseguiate, sia chiaro: qui non si sta cercando di condannare, esecrare o addirittura censurare ciò che è stato e ciò che è venuto prima, bensì contestualizzarlo nel puro e semplice fine di definire e delineare una linea di evoluzione e cambiamento.)
Ebbene, il castello è chiaramente quello della Walt Disney Pictures, la provincia è quella Pixar proverbialmente ed incessantemente rinomata per essere una delle realtà produttive più animose, creative ed ambiziose del panorama cinematografico statunitense e questo suo ultimo nato è Red, l’esordio al lungometraggio della regista e sceneggiatrice cino-canadese Domee Shi - già vincitrice del premio Oscar per Bao, il corto che precedeva il sempre pixariano Gli Incredibili 2.
Tralasciando per qualche riga tutti i discorsi relativi alla metafora che la pellicola non si vergogna certo dal dissimulare, con Red possiamo notare un principio o quantomeno un’avvisaglia della strada che lo studio ha intrapreso a partire dal precedente Luca dell’italiano Enrico Casarosa, che, come molti hanno già ben evidenziato, condivide con il film della Shi ben più di un punto di contatto.
Infatti, dopo Soul del geniale Pete Docter [che chi scrive considera non solo uno dei picchi assoluti, ma soprattutto uno shock, uno spartiacque all’interno del mondo dell’animazione occidentale e della stessa Pixar, la quale, in qualche modo, compie lì un atto di maturità estrema ed inebriante, dando forma ad una summa poetica e artistica di eccezionale complessità], è impossibile non riconoscere la piega intima, privata, ristretta, familiare, semi-autobiografica, per alcuni erroneamente più disneyana, nonché specificatamente esigua (nelle ambizioni, nelle citazioni, nella sofisticatezza) rispetto al profluvio e all’orgasmo creativo che era ed è appunto il capolavoro di Pete Docter, imboccata dal team, se non proprio da Onward (che, di questo duo, è uno sgangherato e scordato prodromo), a partire dal racconto estivo (dal sottotesto evidentemente omosessuale) di Casarosa.
Dunque, produzioni più piccole, racconti circoscritti ad una cittadina sul mare o ad un quartiere di Toronto, diretti da esordienti che, nel pensarli, si rifanno più o meno espressamente a corti e, in egual misura, a memorie d’infanzia, concernenti tematiche (come sempre) mature che qui riabbracciano però una valenza puramente moralistica e pedagogizzante, caratterizzati inoltre da una gestione drammaturgica più semplice e prevedibile, una coesione essenziale di elemento realistico e magico-fantastico, ed un’attenzione maggiore agli elementi più infantili e bambineschi, a (parziale) discapito invece di quelli implicitamente più adulti: questi gli aspetti caratteristici di due film che forse non rappresentano o rappresenteranno una piega incontrovertibile nella produzione dello studio, quanto piuttosto un dolce intermezzo coerente con una distribuzione su piccolo schermo, prima del ritorno nelle sale(?) col prossimo Lightyear.
Due film che, oltre ad essere firmati da due registi che lavorano senz’altro meglio sulla breve distanza, parlano ambedue di adolescenti la cui crescita, pubertà e cambiamento vengono raccontati attraverso un cambiamento fisico di tipo magico, fantastico, per non dire mistico. Due film con lo sguardo rivolto al futuro e al domani ed un sorriso malinconico e agrodolce sulle labbra. Quasi proiezioni infantili e giovanili delle epifanie altrettanto nostalgiche ed elegiache di Joe, direttore musicale di mezza età e pianista jazz, protagonista del già (ampiamente) citato Soul.
Nel caso di Red, Domee Shi segue "le orme” e racconta (riportando alla mente - lo ricordiamo - i propri ricordi d’infanzia) la storia della tredicenne Meilin "Mei" Lee, intrepida, astuta ed intelligente ragazzina di origini cinesi che vive nella Toronto del 2002, figlia di una famiglia apprensiva, oppressiva e repressiva, profondamente devota al culto dei propri antenati, proprietaria e curatrice del tempio più antico della città dedicato allo spirito mistico ed antichissimo del panda rosso.
Una famiglia materno-centrica, in cui apprensiva, oppressiva e repressiva non è pertanto la figura paterna (anzi defilata, evitata, ma inaspettatamente calorosa), ma appunto quella della madre Ming, in costante e tesissima preoccupazione per il benestare, il rendimento scolastico, le compagnie e frequentazioni della figlia, di cui desidera solo il meglio, da cui esige l'assoluta perfezione, ma che non riesce quasi mai a comprendere a dovere, mettendola di frequente in grande imbarazzo davanti a compagni e amici (o meglio tre “amiche per la pelle” affettuosissime, accomunate dall’amore per la musica pop e la boy band 4* Town).
L’equilibrio delicato, soffocante, psicologicamente spinoso e problematico, che regola le interazioni familiari e la vita quotidiana della stessa Mei viene però sconquassato quando quest’ultima si trasforma, senza alcun preavviso, in quello stesso panda rosso gigante che da sempre accompagna e veglia sulla sua famiglia.
Il primo ciclo mestruale [in questo, il titolo originale, Turning Red, è quanto di più eloquente], il cambiamento del proprio corpo e tutto ciò che ne consegue a livello emotivo, fisico e relazionale, ma anche l’uscita, per non dire la fuga dal nido familiare, i bollori dell’adolescenza, le irrequietudini di un periodo della vita fatto di ansie sociali, pulsioni incontrollabili ed incertezze diffuse: di tutto questo (e non solo) parla o, meglio, vorrebbe parlare Red, che, con allusioni neanche troppo vaghe o mimetizzate a tutto un universo femminile fatto di assorbenti e deodoranti, unitamente a tematiche sempre delicate come la droga, si propone fin da subito come uno dei testi, se non più maturi, quantomeno più ambiziosi, coraggiosi e complessi della recente produzione pixariana.
E, in questo, non ci sarebbe nulla di sbagliato od inappropriato, non fosse per i modi con cui questi stessi argomenti vengono inseriti e sviluppati dal racconto di Julia Cho e della stessa Shi. Difatti, ad un inizio frizzante, nervoso, frenetico, travolgente e turbolento, come il suo stile grafico (un matrimonio interessantissimo ed originale tra l'iper-espressività, la tensione e il feticismo orientali ed una resa tecnica indiscutibilmente occidentale) e la sua protagonista (che gioca con l’istanza narrante, rivolgendosi al pubblico con proverbiali rotture della quarta parete, così presentando la stessa maschera di sé che offre ogni giorno anche alle amiche), Red fa seguire uno sviluppo la cui debolezza non risiede tanto in un intreccio classico, macchinoso, facile nella crescente comodità e semplicità con cui Mei cambia forma, prevedibilmente fondato su equivoci ogni volta più imbarazzanti e catastrofici, quanto piuttosto nella percettibile mancanza di idee forti e sostanziose a sostenere le pretese e il ritmo di un tale racconto.
Fortunatamente, più ci si avvicina al finale, più il film sembra ristabilirsi su toni più lieti e convincenti, convertendosi in kaiju movie, mettendo in scena una lotta tra spiriti su due piani spaziali diversi e cimentandosi in scene madri che commuovono il giusto ed educano gli spettatori più piccoli senza mai risultare stucchevoli o retoriche (una dote che la Pixar ha senz'altro saputo maneggiare meglio in lavori precedenti).
Al di là della struttura, della composizione e della qualità dell’avventura - di per sé innegabilmente godibile e deliziosa -, ciò che rende perplesso chi scrive è però una particolare scelta compiuta dalla protagonista che la pellicola non problematizza affatto, anzi finisce per esaltare in una delle sue sequenze più emotive e umane. Nulla, né la carineria del character design, né tantomeno la simpatia per il personaggio di Mei, ci distoglie e ci distoglierà infatti dal pensare che, ad un certo punto di Red, quest'ultima decida volontariamente e letteralmente di capitalizzare e “vendere sé stessa" per comprare (per sé e le amiche) i biglietti di un concerto.
E la cosa più inquietante è che tutto questo succederà, anzi sta già accadendo mentre scriviamo queste righe, con migliaia, per non dire milioni di panda rossi già smerciati a bambini di tutto il mondo. Solo un'altra faccia (buia) del capitalismo con cui, come ci ricorda lo stesso Red, dobbiamo convivere. Nel bene e nel male.
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