TITOLO ORIGINALE: Men
USCITA ITALIA: 25 agosto 2022
USCITA USA: 20 maggio 2022
REGIA: Alex Garland
SCENEGGIATURA: Alex Garland
GENERE: drammatico, fantascienza, orrore
Dopo l'esordio esplosivo con Ex Machina e l'interessante Annientamento, Alex Garland torna dietro la macchina da presa, allontanandosi dai territori registici a lui familiari e dandosi all'horror high-concept, in pieno stile A24. Nulla di nuovo sotto il sole: così come la quasi totalità dell'ultima produzione/distribuzione della casa indie per eccellenza, Men è un film troppo autocompiaciuto ed innamorato di sé stesso, delle proprie idee, delle proprie scelte, delle proprie pallide convinzioni, del proprio messaggio smunto ed esangue, della propria autoreferenziale e manichea idea di cinema, tanto da dimenticarsi di dover piacere anche a qualcun altro. Troppo concentrato nel voler essere il nuovo Scappa - Get Out, oltre che l'alternativa al cinema blockbuster e più commerciale, da ignorare principi e regole e sottovalutare i molteplici rischi insiti nella trattazione del genere. Un film caotico di riferimenti ed ispirazioni che finisce per incarnare ciò che lui stesso cerca, in tutti i modi, di contestare.
Troppo. Men è troppo. Troppo ricamato per mettere a disagio chi guarda e risultare così inquietante e minaccioso. Troppo autocompiaciuto ed innamorato di sé stesso, delle proprie idee, delle proprie scelte, delle proprie pallide convinzioni, del proprio messaggio smunto ed esangue, della propria autoreferenziale e manichea idea di cinema, tanto da dimenticarsi di dover piacere anche a qualcun altro. Troppo puerile e parossistico quando cerca di essere contorto, intricato, cerebrale, simbolico. Troppo enfatico e manifesto quando invece rivela a scena aperta le proprie intenzioni discorsive, artistiche, politiche, ideologiche. Troppo concentrato nel voler essere - non solo strutturalmente, ma anche in termini di ricezione, contingenza ed intercettazione dei “tremori dell’oggi” - il nuovo Scappa - Get Out, da ignorare principi e regole e sottovalutare i molteplici rischi insiti nella trattazione di un genere come l’horror, costantemente in bilico tra il terrore reale - quello che inquieta, turba, avvolge, disarma lo spettatore, ponendolo di fronte per davvero alla sua natura più fragile, corrotta, ipocrita, bestiale - e il comico involontario.
Banalmente, troppo vacuo, inconcludente, inerte, maldestro per essere la terza regia di Alex Garland, regista del bello Ex Machina e dell’interessantissimo Annientamento, già sceneggiatore prodigio di uno dei migliori film di Danny Boyle (28 giorni dopo).
E dire che, quantomeno sulla carta, Men avrebbe potuto avere tutte le carte in regola per poter concorrere allo status di opera se non altro interessante, curiosa, singolare, per non dire memorabile.
Questo, a partire da una produzione estremamente minimalista, che tenta di riferirsi ad un tema e ad una realtà più grande e collettiva - quella del maschilismo, della misoginia, del fallocentrismo del nostro tessuto sociale, chiamatela come volete - e rappresentare un urlo di disperazione e sofferenza, ma anche di disubbidienza e cambiamento, attraverso l’esiguità di elementi e risorse.
Per non parlare poi della scelta di far interpretare (quasi) tutti i personaggi maschili della pellicola a Rory Kinnear, figlio d'arte britannico e attore versatilissimo, dotato di un vastissimo repertorio espressivo, noto perlopiù agli spettatori televisivi per le sue apparizioni in Black Mirror e Penny Dreadful, oppure per la sua florida carriera teatrale di formazione shakespeariana, tuttavia mai assurto a volto riconoscibile, principale, se non addirittura perturbante del grande schermo.
Infine, è praticamente impossibile pensare o addirittura prefigurarsi Men, senza rimanere folgorati dal mistero quasi magico, seduttivo, esoterico legato al volto di Jessie Buckley, anch’essa grande attrice di televisione che, solo di recente, ha iniziato a farsi strada nel mondo del cinema, regalandogli (e regalandoci) una delle interpretazioni più complete, cerebrali e stimolanti degli ultimi tempi in Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman.
Detto ciò, purtroppo per lui (e per noi), Men, tutti questi spunti e queste potenzialità, le getta in pasto ad un modello di cinema autoriale, indipendente, hipster, dato e favorito, tra gli altri, anche dal marchio A24 che protegge, come Cerbero, le porte dell’inferno e dei deliri di Harper, una giovane vedova traumatizzata, nel bene e nel male, dal suicidio del marito, che cerca di ritrovare serenità, una nuova dimensione per sé, una propria voce (emblematica, in tal senso, la sequenza del tunnel e quella del pianoforte), in un misterioso villaggio della campagna inglese.
Prima però di addentrarci ulteriormente nella recensione, vorremmo specificare e ribadire il motivo per cui, come potete constatare, siamo così duri ed idiosincratici nei confronti di questa casa di produzione e distribuzione e di tutto un cinema americano che quest’ultima incarna alla perfezione. A24 su tutti è infatti la levatrice e sostenitrice di prodotti (e qualcuno potrebbe offendersi solo perché li abbiamo definiti tali) che sembrano pensati e confezionati secondo un unico modus operandi. Di opere, nella fattispecie, che puntano tutto sulla promessa di un soggetto alto, importante, singolare, nuovo, per poi rivelarsi in tutto il loro semplicismo, i loro capricci, il loro anacronismo, la loro pretenziosità e sommaria modestia. Opere che professano, in maniera del tutto elitaria, un’autodeterminazione ed emancipazione rispetto ad un cinema commerciale in profonda crisi creativa, ma che, a giudicare dalla loro capacità di parlare del mondo e al mondo, non sono poi così lontane, fresche o creative.
Anzi, quando non è impegnato ad appropriarsi di meccanismi tipici del grande cinema blockbuster o a fabbricare ibridi senza un preciso senso, spesso e volentieri questo cinema finisce per essere lo stereotipo di sé stesso, dimostrando, come non bastasse, la propria incapacità nel favorire il coinvolgimento e l’affabulazione dello spettatore, nel confrontarsi con il genere, o anche solo nel mostrarsi davvero implicato in ciò che racconta e mette in scena.
Ebbene, fatta questa precisazione, è alquanto difficile non abbandonarsi all’idiosincrasia facile, ad una sorta di curioso déjà vu, quando ci si trova di fronte ad una pellicola - Men, per l'appunto - che non solo condivide gli stessi (pochi) pregi e gli stessi (tanti) difetti, ma sollecita i medesimi interrogativi di un’altra, uscita giusto qualche settimana fa.
Tra queste domande, la prima è senza dubbio la più importante: dov’è l’horror? E non fraintendete, per horror non intendiamo il salto sulla poltroncina, la ricerca ossessiva del jumpscare, né tantomeno una costruzione tensiva facile, quanto piuttosto un’inquietudine onnipresente che striscia di inquadratura in inquadratura, il perturbante che pian piano affiora in superficie, intacca il profilmico e si insinua nella percezione di ciò che ci circonda, ma anche la provocazione, la denuncia, la critica sociale, che, attraverso i sotto testi, le invenzioni, le trasfigurazioni, le maschere dell’horror, riescono a farsi strada e ad interpellarci in prima persona.
Tutti aspetti che, malgrado la sceneggiatura dello stesso Garland abbia a che fare con uno degli argomenti più caldi, discussi, presenti della nostra contemporaneità e punti tutto sulla dialettica del disagio singolare che diventa disagio globale, quasi inevitabile ed epidemico, non riescono ad emergere in modo funzionale, naturale, esaltante, sensato, finanche subliminale durante la visione. Un po’ perché, come anticipato sopra, sembra che Garland non creda molto in ciò che ha scritto e che vuole comunicarci - quasi si trattasse per lui di una mera opera su commissione. Un po’, d’altro canto, perché tutto l’impianto creativo e produttivo non sembra interessato ad inventare, ad essere pruriginoso in termini visuali ed effettistici, ancor prima che discorsivi, a regalare il brivido dell’inaspettato, della vertigine, del viaggio nell’oscurità dei sentimenti, nelle pieghe dell’organizzazione e razionalizzazione mentali e nel soffocante sistema che ha regolato il mondo dalla notte dei tempi.
Men si rivela pertanto un horror inefficiente e fallimentare, macchiettistico, con un involontario gusto trash, che, a dispetto dell’attenzione che la messa in scena ripone nei gesti, nelle microespressioni, nelle linee di dialogo fuori posto, nei simboli sparsi per il mondo diegetico, così come nella costruzione di un’atmosfera straniante, bizzarra e fortemente ambigua, non riesce ad instillare la benché minima tensione ed oppressione - queste ultime preda ideale di soluzioni e risvolti oltremodo sdoganati. Un horror macchinoso, monotono, ridondante nella gestione degli spazi, nella direzione degli attori e nel modo in cui sintetizza i propri discorsi in un blando e schematico scontro e conflitto fisico tra le due parti, tra horror maniac ed una scream queen riqualificata socialmente.
Ma anche un film caotico di riferimenti ed ispirazioni, tra cui il filone body horror, che Garland innesta per conferire quel piglio intellettualmente provocatorio e visivamente disturbante alla ricetta. Scelta che, tuttavia, si risolve nella pornografia, di per sé sterile, di una CGI che forse potrà trovare senso nella falsità del maschile espressa e messa alla berlina nel film, ma che, in termini prettamente esperienziali, è quanto di più sbagliato si possa immaginare.
Dedito infatti, per gran parte del tempo, ad astrarre, estraniare e rendere collettiva, universale, storica, la condizione esistenziale della sua protagonista, Alex Garland - e Men con lui - si trova in grande difficoltà quando, al contrario, deve riferirsi, pure in chiave allegorica, ad un elemento materico, concreto, reale, definito come il corpo umano.
Ed anzi è quasi una curiosa coincidenza che, quantomeno in Italia, questo film esca la stessa settimana dell'ultimo scritto e diretto dal pioniere del body horror in persona, David Cronenberg, che, nel suo Crimes of the Future, ritorna al corpo e, con esso, ai vecchi fasti della propria filmografia, riuscendo ciononostante a parlare di presente e futuro in modo più convincente, originale ed interessante di una pellicola - quella di Garland - che, per età e sensibilità del proprio autore, oltre che per la contingenza e attualità del tema trattato, dovrebbe farlo senza troppi scivoloni od equivoci di sorta.
Eppure - per tornare e rispondere così alla domanda posta qualche riga sopra - l’orrore in Men semplicemente non esiste. Al contrario, appare addirittura messo in secondo piano, a favore invece di una costruzione dell’immagine dagli echi bergmaniani, manierista, affettata e superficiale, portata avanti da una fotografia dai profumi muschiati e umettati, dalla vena pittorica mentre si trova all’esterno, e dal taglio gelido e distaccato quando invece inquadra gli interni, e che sembra quasi più interessata a giocare capricciosamente con il fuoco e, in maniera fin troppo banale, quando non parossistica, con la palette cromatica, che non a favorire viceversa il bisogno inquietante del testo.
Al di là di tutto questo, però, quello che, più di ogni altra cosa, colpisce di Men di Alex Garland è il suo essere un testo paradossale e in costante contraddizione con sé stesso, con ciò che dice, fa, pensa, immagina, urla, salva e sacrifica. Stiamo parlando invero di un film che, in modo pure un po’ opportunista, tenta di cavalcare l’onda #MeToo; di incarnare il grido di un femminile che sta cercando, seppur non sempre con facilità, di riconquistare i propri spazi (tra cui quelli del grande schermo) e di denunciare a gran voce le prevaricazioni, gli abusi, le violenze da parte di un mondo fallo-riferito, di un maschilismo che ancora oggi intacca ogni sfera della vita pubblica e privata, e di uomini egoisti, patetici, crudeli, vittimisti, ricattatori, spregevoli, finanche repellenti - gli stessi visti e rappresentati in un capolavoro come Repulsione di Roman Polanski, da cui la visione di Alex Garland riprende ben più di una soluzione.
Un film dunque sfacciatamente e fieramente femminista, al limite del manifesto. Una scelta politica, ideologica ed infine artistico-cinematografica, su cui chi scrive non avrebbe proprio niente in contrario, se solo, di questo femminismo, la pellicola ne avesse fatto un discorso che non si accontenta di scorciatoie facili, né tantomeno di un facile sensazionalismo.
Ma forse non c’è nemmeno bisogno di tante puntualizzazioni, dal momento che Garland è il primo a ripiombare nel maschilismo e nella svalutazione che tenta, in tutti i modi, di contestare. Come? Vi basti pensare a quanto poco profonda ed autentica è la (scrittura della) protagonista - interpretata appunto da una Jessie Buckley che Garland non capisce fino in fondo e, di conseguenza, sottoutilizza e rende tonta, isterica, sciatta - e a quanto, al contrario, è attenzionato, reso intrigante e coinvolgente, studiato il personaggio di Kinnear, quest’ultimo impegnatissimo (invano) nel cercare di salvare il film dall’oblio più totale.
Senz’altro pregevole è la voglia di sperimentare altri territori e mettersi in discussione con altri generi. Ma, se i risultati devono essere questi, meglio fare un passo indietro. Meglio preoccuparsi (solo) di un futuro ipotetico, immaginario e lontano.
L'uomo sopravvive. La donna subisce. Il cinema indie americano ristagna. L'horror piange.
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