TITOLO ORIGINALE: X
USCITA ITALIA: 14 luglio 2022
USCITA USA: 18 marzo 2022
REGIA: Ti West
SCENEGGIATURA: Ti West
GENERE: horror
Nonostante una lunga militanza nel genere, Ti West pare travisare ovvietà intrinseche e connaturate al filone horrorifico per epifanie personali da brevettare, condividere, dimostrare, in X: A Sexy Horror Story, che, sulla falsariga del new wave horror inaugurata da Eggers, Peele e Aster, si appropria delle regole, dei luoghi comuni e delle atmosfere del genere, per farne qualcosa di idealmente più ricercato, sofisticato, autoriale. Purtroppo, malgrado un utilizzo curioso del make-up, un interessante, ma irresoluto gioco meta-cinematografico di scatole cinesi, riflessi, parallelismi ed una gestione inizialmente pregevole degli attori, X si rivela essere un film che, ancor prima di pagare lo scotto di tutti i titoli a cui fa più o meno esplicito riferimento, è così confuso ed incerto su ciò che vuole essere, ché finisce per farne un tratto caratteriale dei suoi personaggi ed una cifra (in)volontaria del proprio intreccio, cadendo ben presto nel baratro dell'anonimato e del mero esercizio di stile.
C’è un genere che più di tutti vive e ha sempre vissuto di sottotesti, di non detti, di trasfigurazioni, di impliciti, di allegorie, di simboli, di icone, di sintomi, di verità recondite, profonde, oscure, talora addirittura fortuite od involontarie.
Specie a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80, l'horror è stato infatti il tacito termometro dei malesseri, delle ossessioni, dei mali, delle deviazioni di nazioni (non solo gli Stati Uniti) e relative società; il tipo di racconto e la tradizione che, più di tutti gli altri, hanno periodicamente riconfermato, rinegoziato, rimesso in discussione, riletto e rilanciato alcune salde relazioni di significato.
Si pensi, per esempio, al sodalizio metatestuale quasi congenito del racconto orrorifico con lo sguardo (quasi sempre di tipo voyeuristico), l’atto del vedere e, di conseguenza, lo stesso mestiere del regista, l’atto fondante la pratica cinematografica, il linguaggio imprescindibile del mezzo-cinema. Oppure alla correlazione tra cinema e sesso, secondo cui, specie nello slasher, la stessa azione dell'accoltellamento o di ciò che ne fa le veci da parte del maniac ai danni della malcapitata di turno altro non è che una figurativizzazione della penetrazione o, in altre parole, della necessità di primeggiare, dominare, vincere dell’ideale machista, maschilista e fallocentrico su un femminile che, ciononostante, riesce a scamparla e ad averla vinta nelle fattezze di final girls vergini e pure, al loro primo contatto ravvicinato con la disonestà, la corruzione, la cattiveria, il vizio del mondo che le e ci circonda. Oppure ancora alla natura profondamente socio-politica che l’horror, così come il western, ha sempre abbracciato più o meno indirettamente, partendo da Don Siegel, passando per Romero, fino ad arrivare a Carpenter.
Ciò detto, vi starete chiedendo quale sia il senso di questa lunga e cattedratica premessa e cosa c’entri tutto questo con una “semplice” recensione del nuovo horror targato A24 (e Little Lamb e Mad Solar Productions), X: A Sexy Horror Story. Ebbene, innanzitutto perché è sempre bene avere presente da dove si viene, prima di parlare di dove si va. Poi, perché, una volta arrivati ai titoli di coda, si ha come l’impressione che, nonostante la sua lunga militanza nel genere (recuperate The Sacrament), Ti West abbia travisato queste ovvietà (o pseudo-tali) intrinseche e connaturate, per epifanie personali da brevettare, condividere, dimostrare.
Tuttavia, per inquadrare al meglio X: A Sexy Horror Story bisogna anche rintracciarne le discendenze poetiche, politiche e produttive più dirette e, pertanto, soffermarsi un attimo sulla rivoluzione che pellicole come The VVitch di Robert Eggers, Scappa - Get Out di Jordan Peele, (Hereditary e poi) Midsommar di Ari Aster hanno apportato al genere. Queste ultime, invero, non hanno fatto altro che prendere quei sottotesti, quei non detti, quei sintomi di cui sopra e farne testo, intenti dichiarati, discorsi ufficiali. Il tutto, nel segno di una necessità autoriale che affonda le proprie radici direttamente nella Francia della politique des auteurs e della Nouvelle Vague e, al contempo, di urgenze socio-politiche legate alla contemporaneità e al bisogno di intercettare, rappresentare, raffigurare il proprio zeitgeist, con le sue inquietudini e le sue trasformazioni.
Anche da qui, da Eggers, Peele e Aster, prende il via gran parte dell’attuale cinema indie statunitense, di cui A24 è il mecenate più esemplare (nel bene e nel male) e il nostro Ti West uno degli ultimi discepoli. Un cinema indie che si sta appropriando con sempre maggior regolarità delle regole, dei luoghi comuni e delle atmosfere del genere, per farne, in alcuni casi, qualcosa di idealmente più ricercato, sofisticato, autoriale, “nobile”, ma ottenendo, ben più spesso, un prodotto a metà, senza un’identità ben precisa, che appare, da un lato, pretenzioso e autocompiaciuto, dall’altro svuotato di tutti gli specifici, le peculiarità, gli scopi intrinseci e imprescindibili del fu cinema di profondità - come possono essere lo spavento, il brivido, l’inquietudine, la tensione per l’horror.
Elementi, questi ultimi, quasi del tutto assenti in X: A Sexy Horror Story, film indubbiamente confacente a quest’ultima categoria, in quanto non riesce ad inventarsi una sintesi tra le sue due inclinazioni. Ossia tra 1. il nostalgia movie iper-citazionista, filologicamente impegnato, ma in fondo comodo, conformista, anacronistico (e sarebbe pure ora di dire basta all’ennesima rivisitazione dello scantinato di Psycho, dell’accetta e della Redrum di Shining, dei bifolchi American Gothic alla Non aprite quella porta, delle sdoganate soggettive hitchcockiane o del carrello storico di Sentieri selvaggi), che reimpiega, in maniera stanca e discutibile, quando non addirittura programmatica, scolastica e ridondante, tutto il ricettario dello slasher e le invenzioni dei grandi maestri (tra cui anche i nostrani Argento, Bava e Fulci); e 2. lo stereotipo dell’ultimo arthouse made in A24, dunque contraddistinto da una costruzione spesso autocompiaciuta del quadro, da una fotografia peculiare e leccatissima anche nella sporcizia, granulosità e ruvidezza con cui tenta di ricreare l’effetto vintage della pellicola, da un montaggio forzatamente capriccioso ed eccentrico (di cui fa parte, nel caso di X, uno degli usi dello split screen e del montaggio alternato più inutili, inconcludenti e puerili degli ultimi anni) e dal tentativo di parlare della contemporaneità da una prospettiva alternativa, esclusiva, soggettiva, irripetibile; ed, esaurita la prima mezz’ora, cade nel baratro di un anonimato rinfrancato e mascherato, qua e là, da qualche grandangolo, eccessi fotografici, un lavoro tensivo sulla profondità di campo, uscite ironiche e sagaci o qualche nudità, esposta, a dispetto del titolo, con estrema pudicizia.
Non bastano dunque un utilizzo curioso del make-up (che, insieme alla colonna sonora rarefatta di Tyler Bates e Chelsea Wolfe e alla presenza di Mia Goth, si rifà esplicitamente al Suspiria di Luca Guadagnino), un interessante, ma irresoluto gioco meta-cinematografico di scatole cinesi (tra rappresentazione e rappresentazione nella rappresentazione), riflessi, parallelismi, una gestione inizialmente pregevole degli attori (su cui spiccano una Mia Goth incantevole, una Jenna Ortega purtroppo sprecata, una Brittany Snow perfetta ed un Martin Henderson un po’ Matthew McConaughey), una serie di discorsi solo marginalmente abbozzati ed un paio di soluzioni visive indovinate, per rendere davvero interessante e valida una pellicola che, ancor prima di pagare lo scotto di tutti i titoli a cui fa più o meno esplicito riferimento, è così confusa ed incerta su ciò che vuole essere, che finisce per farne un tratto caratteriale dei suoi personaggi ed una cifra (in)volontaria del proprio intreccio.
Ed è in fondo questo il motivo per cui la presenza di un paio di organi genitali esposti sì e no, di alcuni timidi atti sessuali e di fiumi di sangue si attestano vieppiù come briciole di mero chiacchiericcio in un dibattito che dovrebbe approfondire e analizzare piuttosto lo stato di salute del cinema indipendente (statunitense e non). Di un cinema che, come insegna e ribadisce X: A Sexy Horror Story, sfrutta il genere, ma non sa realmente farlo. Che parla di tante cose (in questo caso, della guerra, dell’illusione del sogno americano, di un puritanesimo ed un libertinaggio accomunati dagli stessi istinti primordiali), ma che in realtà non dice davvero nulla di concreto o significativo. Che vuole distanziarsi, in forma intra- ed extra-testuale, da un cinema mainstream che svilisce e sottovalutata (ma che è spesso più eloquente, pregno e sostanzioso), per poi utilizzarne meccanismi e processi tipici. Che arriva ad inneggiare ad un potere, ad un’avanguardia, ad un predominio, che esistono e sono possibili soltanto in un mondo autoreferenziale, autosufficiente, interessato soltanto a sé stesso, ai suoi capricci, ai suoi esercizi di stile e alla soddisfazione del suo ego estetico-artistico. In un mondo che semplicemente non è il nostro.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.