TITOLO ORIGINALE: The Shining
USCITA ITALIA: 22 dicembre 1980
USCITA USA: 23 maggio 1980
REGIA: Stanley Kubrick
SCENEGGIATURA: Stanley Kubrick, Diane Johnson
GENERE: horror, thriller
Un aspirante scrittore viene assunto come custode invernale di un hotel sperduto tra le montagne del Colorado e passato ospite di una tragedia di sangue. Qui trasferitosi con la moglie e il figlio e vittima di inquietanti visioni, l’uomo cadrà ben presto in un esaurimento nervoso, decidendo di fare a pezzi la propria famiglia. Stanley Kubrick firma un capolavoro immortale che ha fatto e continua a fare scuola. Parodiato, copiato, citato, ricordato, il film è la prova vivente di uno stile registico e cifra autoriale mutevole, qui alle prese con il genere horror. Un concentrato di tecnica, grandi interpretazioni e momenti memorabili che infestano ancora la mente di molti spettatori. Arte cinematografica nella sua essenza più limpida e manifesta.
Overlook Hotel, Colorado. L’aspirante scrittore Jack Torrance (Jack Nicholson), ex insegnante disoccupato e con evidenti problemi di alcolismo, si propone come custode invernale dell’albergo. Il direttore lo avverte: l’impiego non è certo faticoso, tuttavia, cinque mesi in un hotel che, d’inverno, diventa un luogo solitario e isolato, potrebbero piegare anche il più ostinato degli uomini. Uomini come Delbert Grady, il quale, qualche anno prima, alterato da questo stato di completo abbandono, decise di uccidere a colpi di accetta moglie e figlie, per poi suicidarsi. Nonostante gli avvertimenti, Jack non è affatto spaventato o sconfortato: crede infatti che questi mesi di pace e tranquillità lo aiuteranno a trovare l’ispirazione e completare, una volta per tutte, il proprio lavoro di scrittura. Così, ben motivato, carica le valigie in macchina e si trasferisce all’Overlook Hotel con la moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlio Danny (Danny Lloyd). Sfortunatamente, non tutto andrà per il meglio: la scrittura infruttuosa e distratta, il tempo passato con la famiglia nell’albergo ed alcune visioni inquietanti faranno cadere Jack in un profondo esaurimento nervoso che si convertirà ben presto in squilibrio mentale e furia omicida.
Alzi la mano chi non hai mai sentito parlare di Shining, capolavoro immortale, non solo del genere thriller/horror, ma, anche e soprattutto, dell’intera storia del cinema, firmato Stanley Kubrick. Alzi la mano chi non ha mai sentito queste citazioni, divenute ormai patrimonio collettivo: “[...] Sono il lupo cattivo!”, “Ciao, Danny. Vieni a giocare con noi? [...] Per sempre…” o, ancora, “Redrum”. Se la vostra risposta è no, fatevi un regalo e recuperatelo al più presto, perché Shining, oltre ad essere uno dei punti più alti della blasonata filmografia del cineasta newyorchese, è uno dei film più importanti per comprendere il cinema di ieri e di oggi.
Rivincita personale del regista in seguito al flop commerciale di Barry Lyndon (1975), l’opera è una delle tappe fondamentali del viaggio kubrickiano di appropriazione-sperimentazione dei generi e “trasposizione” dell’omonimo romanzo di Stephen King - uno degli autori americani più prolifici, nonché padre moderno della letteratura horror. Ed è proprio Shining a segnare un punto di non ritorno nella carriera del cineasta, per quanto riguarda fedeltà e rispetto del testo originale. Kubrick si impossessa infatti del racconto di King, cambiandone liberamente situazioni, dialoghi, snodi narrativi e finale e stravolgendone completamente significato, natura ed intenzioni - azione che provocherà le ire e l’indignazione dello stesso autore e di tutto il suo seguito. Malgrado ciò, questo è uno dei rari casi in cui la “celluloide” supera la carta: il romanzo viene liberato da ogni fronzolo gravante ed opprimente, guadagnando nuova linfa vitale e suggestioni visive che ancora infestano gli incubi di molti spettatori.
L’abilità tecnica di Kubrick, già dimostrata in pellicole del calibro di 2001: Odissea nello spazio (1968), Arancia Meccanica (1971) e del sopracitato Barry Lyndon, con Shining raggiunge la sua quintessenza. Regia, fotografia, ritmo e costruzione dell’inquadratura: tutto è pensato e concretizzato in modo meticoloso e maniacale, senza alcuna sbavatura di sorta - merito di sessioni di riprese estenuanti (a volte, anche di 13 ore) per troupe e attori, dovute, in particolare, al metodo scrupoloso e pedante del regista nella preparazione e realizzazione della scena. Shelley Duvall si trovava spesso a discutere pesantemente con questi riguardo alle battute e alla propria recitazione (al punto da perdere i capelli), mentre Scatman Crothers - interprete di Dick Halloran - arrivò quasi ad abbandonare definitivamente il progetto. Difatti, mai come in Shining, Kubrick dimostra di essere un grandissimo regista di attori, piegandoli e plasmandoli a proprio piacimento, al fine di ottenere un risultato visivo ed emotivo quanto più soddisfacente e suggestivo - alcune delle sequenze più memorabili della pellicola sono il risultato dell’improvvisazione degli stessi interpreti.
Un Jack Nicholson mai più così bravo ed intenso, una Shelley Duvall - come anticipato sopra - spinta al limite della sopportazione ed un Danny Lloyd talentuoso e in parte (alla sua prima e ultima interpretazione cinematografica) sono gli elementi di svolta di un lungometraggio indubbiamente affidato ad una tecnica magniloquente, ma che, in quanto horror, deve e può contare su un comparto emotivo-viscerale di egual fattura. A tal proposito e col fine di sorprendere un’audience abituata a slasher - caratterizzati da movimenti di macchina nervosi e scattanti - come Non aprite quella porta (1974), Halloween (1978) e Venerdì 13 (1980), Kubrick decide, per contro, di adottare uno stile più stabile e nitido nell’uso della macchina da presa e in fase di post-produzione. Così facendo, le due istanze tecniche preponderanti nella composizione del piano - per l’appunto, regia e montaggio - contrastano in modo eclatante con il fattore interpretativo-attoriale, caratterizzato invece da un’espressività spesso esasperata ed innervosita. Fondamentali in questo approccio alla ripresa, l’uso innovativo ed esauriente di attrezzature come la steadycam a mano - fondamentale nell’esecuzione dei celebri piani-sequenza con il triciclo e degli svariati carrelli, presenti soprattutto nelle fasi finali - che, unito ad ambientazioni “domiciliarmente vaste” e turbanti e ad una colonna sonora angosciante e ululante, evidenzia ancor più quel carattere labirintico e quell’effetto spaesante dei corridoi dell’Overlook e dello stesso labirinto di siepi. Tra le innovazioni principali, inoltre è bene citare l’impiego sapiente ed efficace, sempre ai fini della tensione e del thrilling, che Kubrick fa del montaggio - inframmezzando rappresentazione e narrazione con visioni di sangue, violenza e morte - e delle dissolvenze. Quadri simmetrici, un continuo scambio di punti di vista e gioco tra soggettiva e oggettiva - da qui, l’importanza vitale degli specchi nella mise-en-scène - e zoom improvvisi ed ansiogeni (figli di quella stessa scuola slasher) sono gli ingredienti fondanti una visione registica che ha fatto e continua a fare scuola.
«C'è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella personalità umana. C'è una parte malvagia. Una delle cose che le storie horror possono fare è mostrare gli archetipi dell'inconscio; possiamo vedere la parte malvagia senza doverci confrontare con essa in modo diretto». Queste le parole dello stesso Kubrick, in merito alla tematica principale del film che, come forse avrete già dedotto, è l’irrazionalità, l’impulsività e la brutalità della mente umana; una conversione profonda al male assoluto e cieco. Alla sceneggiatura insieme a Diane Johnson, il cineasta firma un sacrificio di Isacco terribilmente sanguinario e malato, in cui l’entità soprannaturale (nel caso di Abramo Dio, in quello di Jack gli spiriti dell’hotel) non invia un messaggero a fermare la mano del padre dall’uccisione del figlio, ma, al contrario, è la mandante originaria di cotanta efferatezza. Ciò nonostante e a differenza di quello che si potrebbe pensare, Shining non è soltanto una semplice storia horror - che si basa non tanto sugli spaventi, quanto su di una tensione crescente che conduce ad un climax esplosivo e dall’elevato tasso di violenza -, quanto piuttosto racconto e rappresentazione delle reazioni di una normalissima famiglia medio-borghese (concreta, materiale e disfunzionale) all'incontro e contatto con una realtà e avvenimenti, viceversa, arcani e paranormali. Una dimensione, quella soprannaturale, che, all’insaputa dei genitori, sussiste già all’interno del nucleo familiare. Più specificatamente, nel piccolo Danny e nella sua “luccicanza” (o shining), potere telepatico e di preveggenza che questi soprannomina “colui che sta dentro la mia bocca”. Tale potere, oltre a contestualizzare immediatamente la narrazione su lidi misteriosi ed intriganti, si rivela essere anche un perfetto escamotage anticipatore che instilla, fin da subito, inquietudine e timore nello spettatore. Il tutto è completato da una critica e ragionamento appena accennati sulla televisione e i suoi contenuti - a volte quasi peggiori di un film horror, poiché reali - e da dialoghi taglienti e affilati (come l’ascia con cui Jack si aggira per i corridoi dell’hotel nelle sequenze finali), in cui si riserva un ruolo centrale alla parola - la quale può essere simultaneamente metafora, indicazione, constatazione e premonizione - e al suo peso.
Un film che vive di inquadrature divenute storia e leggenda. Un ottovolante di emozioni e terrore che non lascia mai andare lo spettatore. Un intreccio di suggestioni visivo-sensoriali che riescono a colpire e lasciare interdetto il pubblico ancora, a 40 anni di distanza dall’uscita originale. Un’opera composta non solo da evidenze fattuali, ma anche da altrettante dicerie e aneddoti bizzarri e inquietanti. La prova vivente della flessibilità e capacità di adattamento di uno stile registico e cifra autoriale imprevedibile e mutevole che, ad ogni film, registrava un cambiamento di atmosfere e genere. Un capolavoro indiscusso della cinematografia mondiale. Un’esperienza filmica che non stanca mai, mostrandosi fresca ed originale ad ogni nuova visione. Parodiato, esteso, copiato, citato, ricordato: Shining di Stanley Kubrick è arte cinematografica nella sua essenza più limpida e manifesta, quasi lapalissiana.