TITOLO ORIGINALE: The Texas Chain Saw Massacre
USCITA ITALIA: giugno 1975
USCITA USA: 1º ottobre 1974
REGIA: Tobe Hooper
SCENEGGIATURA: Kim Henkel, Tobe Hooper
GENERE: orrore
Un gruppo di cinque ragazzi, in viaggio senza meta, cadono vittima di una famiglia texana di cannibali, facendo inoltre la conoscenza dell’iconico Leatherface, serial killer affetto da un profondo ritardo mentale che uccide e scuoia le proprie vittime. Amato, odiato, denunciato, criticato, censurato, bandito, Non aprite quella porta di Tobe Hooper è il primo capitolo dell’omonima e longeva saga che ha rivoluzionato per sempre la storia del cinema. Non solo racconto horror inquietante ed esplicito, ma anche rappresentazione distorta dell’american way of life, pamphlet a favore di vegetarianismo e animalismo, film d’exploitation della figura e del corpo femminili; la pellicola mette in campo una vicenda dal ritmo frenetico e dai numerosi risvolti truci e disgustanti. Un film sulla carne che fa dell’inganno visivo e narrativo il proprio fondamento costitutivo.
“Deplorevole”. “Un regista più interessato a creare un’atmosfera realistica che a girare un buon film, visto il copione di plastica”. “Splatter eccessivo”. “Troppo estrema la violenza e molto poco originale”. Questi sono solo alcuni degli estratti degli articoli che, nell’ottobre 1974, popolavano le pagine di grandi testate giornalistiche come Variety, il Los Angeles Times e la Harper's Magazine. Cosa stavano attaccando? Come avrete già desunto dal titolo, Non aprite quella porta, horror-slasher indipendente e low budget per la regia di Tobe Hooper. Primo capitolo di un longevo e altalenante franchise - che conta prequel, sequel, remake, reboot, fumetti e videogiochi -, la pellicola segue le orme di un gruppo di cinque ragazzi originari del Texas che, in viaggio verso una meta ignota, finiscono nelle grinfie di una famiglia di sadici e violenti cannibali che li uccide e fa a pezzi uno ad uno. Tra i componenti di questa simpatica famigliola, troviamo Leatherface, uomo grande e grosso, affetto da un profondo ritardo mentale che non gli permette di esprimersi, traviando la sua visione dell’omicidio e della morte. Infatti, questi non uccide le sue vittime per puro giovamento personale, quanto per proteggere i suoi familiari e la sua proprietà da ogni agente esterno. Nonostante questi tratti rivoluzionari, sono piuttosto il look e la caratterizzazione estetica del personaggio a decretarne successo ed incisività. Difatti, come suggerito dal nome, Leatherface (tradotto faccia di cuoio) è solito vestire la pelle delle sue vittime a mò di maschera, dopo averle squartate con la sua motosega. Maschere che rappresentano, a tutti gli effetti, lo stato d’animo e la personalità (assassino, madre o ragazza dolce) adottata dal killer in quel dato momento.
Facciamo però qualche passo indietro e ripercorriamo quella che è la genesi del progetto. Inizialmente concepito da Hooper come storia fantasy, Non aprite quella porta è il parto delle menti di quest’ultimo e Kim Henkel, il quale gli consigliò di traslare il tutto ad un’ambientazione e a toni più horrorifici. La vicenda trae ispirazione dalla figura e dai crimini di Ed Gein, serial killer che, tra il ‘47 e il ‘57, terrorizzò le città di La Crosse e Plainfield (Wisconsin), commettendo atti di squartamento, necrofilia e disseppellimento di cadaveri da cimiteri della zona. Le peculiarità del suo modus operandi e della sua mente traviata si sono convertite in una letterale gallina dalle uova d’oro per Hollywood, ispirando, oltre a quella di Leatherface, la creazione di personaggi come Norman Bates di Psycho (1960), Ezra Cobb, il Macellaio di Woodsideun, di Deranged - Il folle (1974) e Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti (1991). L’idea della motosega invece fu dello stesso Hooper, mentre si trovava in un supermercato gremito e, vedendo una motosega nel reparto ferramenta, pensò che, in quella situazione, gli avrebbe fatto comodo per farsi largo tra tutte quelle persone.
Racimolati due spiccioli grazie a conoscenze comuni, la produzione ebbe inizio sul finire dell’estate del 1973 e fu contraddistinta da sessioni di riprese estenuanti per troupe e attori. I limiti economici infatti costrinsero i mestieranti a 16 ore di lavoro al giorno, 7 giorni su 7, tra caldo afoso, incidenti e sacrifici al limite dello scandalo: in molti casi, il sangue mostrato è degli stessi attori (poiché lo staff ebbe molta difficoltà a procurarsi del sangue finto) e gli infortuni - anche se quasi sempre evitati - erano molto frequenti. Purtroppo o per fortuna, questo rischio si convertì in un vero toccasana per la riuscita finale della pellicola che, in molti suoi passaggi, sembra mettere in scena una violenza effettiva e reale, oltre che realistica. Ed è sempre per questo motivo che, una volta distribuito, il film diede vita a ricorsi, denunce e censure sia a livello nazionale che internazionale, e a bandi in paesi come Brasile, Cile, Irlanda, Singapore, Svezia e Germania Ovest. Tuttavia, superate le orde di spettatori che uscirono disgustati dalle sale e le varie condanne di oltraggio al pudore, è tempo di parlare di Non aprite quella porta con cognizione di causa e in ottica presente, analizzando e delineando i motivi dietro la nomea di “opera chiave per il genere e la cinematografia mondiale” e capendo perché riesca a inorridirci e terrorizzarci ancora oggi, a quasi cinquant’anni dal suo rilascio.
Il film che state per vedere è un resoconto della tragedia che è capitata a cinque giovani, in particolare a Sally Hardesty e a suo fratello invalido Franklin; il fatto che fossero giovani rende tutto molto più tragico, le loro giovani vite furono stroncate da eventi così assurdi e macabri che forse neanche loro avrebbero mai pensato di vivere... Per loro un'idilliaca gita pomeridiana estiva si trasformò in tragedia. Gli avvenimenti di quella giornata portarono alla scoperta di uno dei crimini più efferati della storia americana.
Narratore (John Larroquette)
Una voce narrante dai toni freddi e lugubri informa il pubblico che tutto ciò che vedrà è tratto da fatti realmente accaduti, anticipando, per giunta, la tragica e sanguinosa piega degli eventi - culmine vero e proprio del racconto di Non aprite quella porta. Tutto questo però non è nient’altro che un escamotage narrativo e inganno cinematografico degli stessi autori che, sfruttando la tecnica del falso documentario, riescono ad acclimatare lo spettatore e accordare immediatamente le proprie sensazioni, rispetto a ciò a cui sta per assistere. Infatti, fin dalla prima apparizione del gruppo di ragazzi (vittime), questi darà quasi per scontato che tutti (o quasi tutti) perderanno la vita nel modo più atroce e doloroso possibile. Eppure, sorprendentemente, Hooper e Henkel scelgono di costruire l’incontro/scontro/carneficina della famiglia di Leatherface, in maniera graduale e, soprattutto, funzionale ai fini della suspence. Non mento, dicendo che, nell’economia della narrazione, nei primi 35 minuti non succede assolutamente nulla di rilevante - eccezion fatta per un episodio inquietante e malato con un autostoppista e per la visita, da parte dei giovani viaggiatori, ad un cimitero in cui sono stati disseppelliti dei corpi durante la notte. Ciò nonostante, questa prima porzione di pellicola risulta comunque efficace nella presentazione indiretta ed invisibile dei killer e nell’instaurazione e mantenimento - mediante piccoli dettagli, discorsi alla radio, stralci di dialogo ed un approccio registico che esploreremo tra poco - di una tensione che esplode successivamente in un climax violento, nauseante, visivamente schietto e perversamente perturbante.
Nella creazione di quest'atmosfera minacciosa, sinistra ed incombente emerge, in modo preponderante e fondamentale, l’approccio di Hooper all’uso della macchina da presa. Seppur abbastanza naif e non particolarmente esaltante a livello formale, la regia di Non aprite quella porta basa l’interezza della propria cifra stilistica su una continua e razionale valorizzazione e contrasto tra interni ed esterni, tra claustrofobia e oppressione, in relazione all’elemento umano presente in scena. Infatti, se nelle sequenze in interna, la macchina da presa opta per inquadrature quanto più ravvicinate e immedesimate nella violenza e nel trauma vissuti dai personaggi (con zoom fulminei, primissimi piani e dettagli); nei frammenti in esterna, la cinepresa, spesso nascosta dietro arbusti e sterpaglie, privilegia - attraverso piani voyeuristici e false soggettive - una contestualizzazione della figura umana nella vastità ed enormità dell’ambiente desertico. Nel primo caso, lo spettatore viene posto dunque allo stesso livello delle vittime, condividendone sofferenza e disperazione, mentre, nel secondo caso, questo prende invece il posto del killer e del carnefice nel pedinamento e sorveglianza delle proprie prede. Questa messa in scena graffiante, putrida e nauseante - nonché consapevole delle proprie possibilità rappresentative e iconiche - viene successivamente completata da una fotografia imperfetta, dipendente dalla luce naturale e volta ad una intensificazione della resa realistica degli effetti speciali, da un montaggio secco e tagliente che giustifica e rafforza quell’aura da pseudo-found footage, e da una colonna sonora irrequieta e ridondante - così come il suono della motosega di Leatherface.
Ispirandosi fortemente a esponenti del proto-slasher (in particolare del giallo all’italiana) come Reazione a catena (1971) di Mario Bava o L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento e utilizzando come sfondo e contesto un’America disillusa, ormai risvegliatasi da quel falso ideale di purezza ed impeccabilità, il racconto di Non aprite quella porta si configura, a livello storico-cinematografico, come capostipite, per l’appunto, di quello stesso filone slasher che ingloberà cult del calibro di Halloween - La notte delle streghe (1978) di John Carpenter, Venerdì 13 (1980) di Sean S. Cunningham e Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven, definendone archetipi e refrain narratologici: l’avvertimento iniziale a cui i personaggi non danno importanza (l’incontro con l’autostoppista e il ritrovamento nel cimitero), il fatto che le vittime siano adolescenti interessati solo a “sesso, droga e rock n’ roll”, l’ambientazione soffocante - nonostante la vastità -, la brevità temporale della narrazione, il look riconoscibile del killer, la specificità caratteristica della sua arma e la figura della final girl (la ragazza vergine e pura che, per questo motivo, sopravvive). Leatherface e la sua motosega - che potremmo definire parlante, dal momento che si converte in surrogato della voce e rimedio alla propria impossibilità comunicativa - diventano così manifesto e fondatori di un nuovo genere di horror molto più violenti e crudi che non hanno alcuna paura di osare, andando contro ad ogni limite, regola e decoro.
Oltre ad essere una semplice storia dell’orrore e iniziatrice di una nuova branca cinematografica del genere, Non aprite la porta è anche un racconto che si presta a numerose interpretazioni e chiavi di lettura. Denuncia parodica degli inganni e della segretezza del governo americano riguardo ad eventi come il Watergate e la guerra in Vietnam (e qui mi ricollego alla questione del falso documentario); rappresentazione distorta e in chiave horrorifica dell’America rurale, retrograda e analfabeta e delle lacune dell’american way of life; film d’exploitation della figura femminile e del suo corpo - preferito, nell’economia della rappresentazione, a quello maschile e oggetto di un processo di erotizzazione abbastanza lampante e vagamente misogino -; pamphlet goliardico a favore di vegetarianismo e animalismo, in quanto ribalta l’equilibrio della catena alimentare (per una volta, non sono le bestie ad essere uccise e mangiate, ma gli stessi esseri umani, cannibalizzati da alcuni loro simili ancora più feroci di quelle stesse bestie) e dà vita ad uno studio e analisi visiva rivoltante e stucchevole del cibo e, in particolare, della carne: la creatura filmica di Tobe Hooper è un tale concentrato di tematiche e argomentazioni - trattate velatamente o meno -, da non poter essere ignorata. Una sinfonia forse grossolana e semplice in superficie, ma che, al di sotto, cela un cuore complesso, particolareggiato e sostanziale per la storia del cinema. Una pornografia del suono - soprattutto dell’urlo - che si esaurisce in un balletto delirante e catartico e, solo in seguito, nel silenzio più assoluto. Un silenzio riflessivo, di pace, tranquillità e distensione; un silenzio e pace forse ingannevoli per un film che, come ampiamente ricordato, si basa proprio su un inganno. Inganno e illusione che rimandano alle stesse origini del Cinema.