TITOLO ORIGINALE: Psycho
USCITA ITALIA: 24 Novembre 1960
USCITA USA: 16 Giugno 1960
REGIA: Alfred Hitchcock
SCENEGGIATURA: Joseph Stefano
GENERE: giallo, horror, thriller
Alfred Hitchcock dirige probabilmente la sua opera massima e più celebre, costruendo uno dei primi thriller psicologici della storia del cinema. Basandosi sull’omonimo romanzo di Robert Bloch, il così soprannominato maestro della suspense dà vita ad una vicenda dalla tensione crescente, costantemente sul filo del rasoio e rivoluzionaria per la Hollywood tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60. Inquadrature e sequenze entrate di diritto nell’immaginario comune, una messa in scena ed una fotografia da manuale, uno dei colpi di scena più celebri e geniali della cinematografia mondiale, un tema musicale iconico ed un magnifico Anthony Perkins nel ruolo di Norman Bates fanno di Psycho uno dei migliori film che abbiano mai solcato lo schermo cinematografico.
Come tutti sappiamo, Hitchcock non avrebbe fatto <<male ad una mosca>>. Su questo non ci sono dubbi. Ciononostante, è quasi impossibile non notare quanto egli si divertisse nel prendersi gioco degli spettatori che pagavano il biglietto per andare a vedere i suoi film. Questi era anche un vero e proprio maestro della suspense, un autentico e profondo conoscitore della tensione che si viene ad instaurare tra regista, pellicola e pubblico, mediante e grazie alle potenzialità della combinazione schermo cinematografico, macchina da presa, fotografia e montaggio. Questo rapporto ludico, quasi fraterno ed amichevole, del cineasta con il suo pubblico - la sua unica fonte di sostentamento - è ravvisabile proprio nei trailer e spot pubblicitari del film che molti ritengono il suo capolavoro assoluto: Psycho. In queste clip - al posto della classica presentazione della pellicola mediante fotogrammi e spezzoni della stessa -, Hitchcock sceglie di riprendersi mentre intrattiene una pacata, ma estremamente ironica e sagace, chiacchierata con il pubblico in sala, facendogli fare un tour per il set della sua ultima fatica. In questi teaser (che potete ammirare qui sopra), il maestro parla del film, dà anticipazioni ed indizi su ciò che avverrà in quella casa, fin da subito così misteriosa e sinistra. Ed è proprio con Psycho - che molti ritenevano sarebbe stato un assoluto flop - che questo rapporto diventa tangibile e parte dell'essenza del film in sé. Questa sua evoluzione così radicale è testimoniata, per esempio, dalle ammonizioni poste fuori dalle sale americane in cui veniva proiettato il film, che ricordavano agli spettatori che era <<necessario vedere il film dall'inizio>> (una volta iniziati i titoli, nessun'altro spettatore poteva essere ammesso alla proiezione) oppure che era assolutamente vietato <<vedere amici o parenti per un po' di tempo se si era dei chiacchieroni, per non rovinargli la visione e la sorpresa>>. Questi cartelli ed avvisi (sotto), oltre ad essere una sorta di simil-regolamento o, meglio, consigli di visione da parte dello stesso Hitchcock, servivano anche per creare un alone di curiosità e mistero attorno alla pellicola, determinandone dunque il successo - proclamato anche da alcune locandine dell'epoca che, prima della sua uscita, promuovevano il film come <<il più grande brivido di Hitchcock>>. Questi aneddoti - con cui Hitchcock dimostrò di essere pure un abile conoscitore delle cosiddette mosse di marketing - e tutti i retroscena riguardanti la pre-produzione e la lavorazione del film, oltre ad essere inclusi in molti dei passaggi del libro-intervista di Francois Truffaut Il cinema secondo Hitchcock, sono la base dell'esilarante biopic (Hitchcock) di Sacha Gervasi, con un grandissimo Anthony Hopkins nei panni del regista britannico.
Ma veniamo a parlare del film in questione. Che dire dell’incipit di Psycho se non che, oggi come oggi, è probabilmente uno dei più noti e sdoganati della storia del cinema mondiale. Malgrado ciò, per doveri di recensione, rinfreschiamo un attimo la trama dell’ultimo film in bianco e nero del maestro della suspense. Phoenix, 11 dicembre 1959. Marion Crane (Janet Leigh) è la giovane e bella segretaria di una nota agenzia immobiliare della città. Da un po’ di tempo, la ragazza ha intrapreso una relazione segreta con l’altrettanto giovane ed attraente Sam Loomis (John Gavin), il quale, appena divorziato e destinato ad una vita di stenti e precarietà, è costretto a vedersi con Marion all’oscuro di tutti, durante la pausa pranzo della ragazza e in luoghi tutt’altro che romantici. Tuttavia, i due hanno il sogno di sposarsi e di poter, prima o poi, dichiararsi pubblicamente come una coppia vera e propria. Quel giorno, arriva, in ufficio da Marion, un certo Tom Cassidy, cliente dello studio che ha appena concluso, con il capo della Crane, un affare da 40.000 dollari. Il viscido e subdolo signore paga inaspettatamente in contanti, lasciando il tutto sulla scrivania della bella segretaria che, come ordinatole dal superiore, dovrà provvedere a depositare in banca una volta terminato il turno. Vedendo questo denaro come un’opportunità per sanare i debiti di Sam e, finalmente, sposarsi e vivere per sempre al suo fianco, Marion decide di intascarsi la somma e fuggire, per andare a raggiungere il proprio amato in California, scelta che le si rivelerà fatale. Dopo un lungo viaggio tra cambi di automobile, pedinamenti e rivelazioni tesissime, Marion decide di passare la notte in un motel a qualche miglio dalla propria destinazione, il Bates Motel. Il proprietario e unico impiegato dello stabile è il sorridente Norman (Anthony Perkins), ragazzo palesemente fragile e sensibile che, a quanto dice, abita con la madre malata nella casa subito dietro l’albergo. Questo incontro e il successivo pernottamento (o dovrei dire doccia) al motel porteranno all’omicidio di Marion e al conseguente interessamento, prima da parte di un investigatore privato e da parenti ed amici, poi da parte della polizia, nei confronti di questa pensione – così apparentemente quieta ma altrettanto oscura – e delle figure dell’enigmatico Norman Bates e dell’indecifrabile madre.
Basandosi sull’omonimo romanzo di Robert Bloch (ispirato, a sua volta, dalla reale vicenda del serial killer Ed Gein), Hitchcock dà forma a ciò che oggi potremmo considerare come l’anticipatore dei moderni thriller a sfondo psicologico. Il film vuole far passare il messaggio che la protagonista sia Marion o, al massimo, la sorella Lila, ma, in realtà, il centro del racconto, il punto convergente di tutte le linee tracciate dalla sceneggiatura di Joseph Stefano, è proprio lui: il villain, l’ombra, in tutti i sensi, della pellicola, Norman Bates. Questa sensazione di dislocamento della figura principale è data probabilmente dal fatto che quest’ultimo non ci venga presentato subito, ma a quasi mezz’ora dall’inizio della vicenda (oltre ad esserne il villain). Hitchcock si converte, di conseguenza, in uno dei primi registi ad avere prestato così tanta attenzione alla psicologia e alla costruzione caratteriale e filmica di un “cattivo“. Questo è, però, soltanto il primo dei molteplici aspetti rivoluzionari ed anticipatori che contiene e con cui viene arricchita la pellicola. Un esempio aggiuntivo è dato dal fatto che l’apparente eroina, Marion, sia una criminale e venga uccisa nel bel mezzo dello svolgimento del racconto, non ricomparendo dunque sullo schermo cinematografico fino ai titoli di coda. Detto ciò, non bisogna dimenticarsi inoltre che Psycho è forse il film di Hitchcock in cui la tensione, retta magistralmente da una regia ispirata e geniale e da una messa in scena rigorosa ed attenta, è maggiormente palpabile. A 60 anni esatti dalla sua uscita originale nelle sale, la pellicola è fresca come non mai e riesce ancora a distinguersi rispetto alla concorrenza e all’interno del panorama odierno del genere, riuscendo ad instillare nella spettatore una tensione ed un’inquietudine continua. Pur con mezzi e possibilità tecniche di certo inferiori a quelle contemporanee, Hitchcock sfrutta ed impiega al meglio le possibilità naturali di costruzione della tensione di cui beneficia la macchina da presa. Fin da subito, il cineasta riesce quindi ad inserire lo spettatore in un’atmosfera e contesto segreto con Marion e Sam che sono costretti ad incontrarsi clandestinamente per motivi economici e sociali. Più si prosegue con lo sviluppo della vicenda, più il pubblico è interessato a scoprire quale sarà la prossima mossa di Marion e come riuscirà ad ottenere la felicità a lungo desiderata.
Di seguito, entra in gioco l’elemento dei soldi – la possibilità per la ragazza di esaudire i propri interessi -, il cosiddetto MacGuffin del film (in poche parole, un pretesto narrativo fine a sé stesso, utile e necessario per far entrare in contatto Marion con Norman Bates). Come da tradizione, infatti Hitchcock inserisce continuamente indizi ed esche narrative e visive durante il corso del film, con l’obiettivo sia di attirare l’attenzione dello spettatore nei confronti del racconto che di illuderlo completamente, oppure con lo scopo di creare un legame simbolico tra elementi pro-filmici. E’ questo il caso della celeberrima sequenza del salotto, in cui ha luogo il primo vero e proprio confronto tra Marion e Norman, tra vittima e carnefice. Una caratteristica insolita di questo luogo è la copiosa presenza di uccelli impagliati appesi alle pareti od utilizzati come soprammobili. Gli uccelli – animali che Hitchcock porrà al centro di un’altra sua famosissima ed omonima pellicola tre anni più tardi – instaurano un legame simbolico e metaforico con i personaggi presenti in scena, anticipandone e chiarendone destini ed indoli. Il viaggio nella psiche di Norman e nel suo difficoltoso e morboso rapporto con la madre è tortuoso e pieno di insidie e Hitchcock ne diventa una sorta di Cicerone con la sua macchina da presa e la sua visione registica. Il cineasta imbastisce alcune tra le inquadrature e sequenze più importanti ed iconiche della storia del cinema, sperimentando moltissimo con le potenzialità angoscianti e claustrofobiche del montaggio. Primi e primissimi piani, dettagli, particolari, campi totali, il maestro della suspense dimostra con Psycho il perché di tale titolo, orchestrando magistralmente e in maniera inedita un racconto che in mano ad un regista qualunque avrebbe perso quasi tutto il suo potenziale, facendo un gran uso di meccaniche post-produttive come l’estensione e ponendo un’attenzione maniacale su dettagli, sguardi ed oggetti all’apparenza insignificanti, ma comunque interessanti, criptici e custodi di doppi significati per l’economia del racconto.
Questa attenzione riservata ad ogni minimo elemento del racconto è propria e sottolineata ancor più dalla sceneggiatura firmata da Joseph Stefano che, arricchita dalla messa in scena e dall’occhio filmico di Hitchcock, dà vita, oltre che ad un viaggio nella mente di un serial killer, prima di tutto ad una vicenda sull’indole, sull’irrazionalità e sulla morbosità dei rapporti. Tutte le azioni compiute sia da Norman che da Marion sono dettate non dalla propria coscienza o buon senso, ma in nome della devozione morbosa ed alterata nei confronti di qualcosa o qualcuno. Per Marion, la motivazione potrebbe essere l’amore per Sam; per Norman, parliamo invece di attaccamento appiccicoso nei confronti della figura della maternità, di perdita, di mancato superamento del trauma, di infantilismo, di vera e propria reincarnazione. I due seguono la propria indole arrivando inevitabilmente a confrontarsi, introducendo così il secondo tema della pellicola, ossia quello dell’incontro/scontro, del rapporto tra preda e predatore – rappresentato in modo geniale da Hitchcock attraverso un gioco di sguardi ineccepibile ed una costruzione sapiente dei quadri. A tutto questo, bisogna aggiungere infine la splendida, sibillina, criptica ed estremamente complessa caratterizzazione del personaggio del giovane Bates. Questa caratterizzazione di Norman è potenziata magnificamente dall’espressiva e miliare interpretazione di Anthony Perkins (performance che lo ha reso, sì, celebre in tutto il mondo, ma che ha determinato pure un incatenamento indissolubile dell’attore nel ruolo del serial killer del Bates Motel). Il casting di Perkins poteva sembrare inizialmente una scelta estremamente rischiosa vista la sua fisicità e fisionomia. Perché affidare ad un attore dal bel faccino e dal sorriso irresistibile il ruolo del villain? Come riscontrabile e visibile con il proseguire della vicenda, tuttavia, proprio quest’apparenza benigna e pura del volto di Perkins è stata la chiave del successo del personaggio di Norman, individuo estremamente infantile e fragile, ma anche duplice (come testimoniato dai numerosi specchi presenti nel film) e malvagio. Ad accompagnare Perkins, un cast in gran lustro, composto da una Janet Leigh, una Vera Miles ed un John Gavin in alcune delle loro migliori interpretazioni.
Oltre alla maestosa regia e messa in scena, alla complessa, ma tesissima sceneggiatura e alle prove attoriali, che rendono il risultato finale ancora più dinamico e scorrevole, è d’obbligo menzionare e lodare la fotografia veramente da manuale di John L. Russell. L’insolita ed abbastanza peculiare predilezione per un bianco e nero espressivo e suggestivo – rispetto ai classici Technicolor e VistaVision che andavano per la maggiore all’epoca – non fa che rendere la drammatizzazione ed il racconto ancora più angoscianti ed oscuri, simboleggiando un contrasto netto e deciso tra due tonalità opposte, che però si incontrano ed amalgamano nei grigi – toni su cui Russell si sofferma maggiormente nella lavorazione e trattazione fotografica. A chiudere il mosaico del grande Hitchcock, le spettacolari e cupe musiche di Bernard Herrmann – su cui troneggia lo storico tema che accompagna i titoli di coda e i momenti più sconvolgenti, entrato ormai a far parte del nostro immaginario collettivo – e le tetre ed arcane ambientazioni (mi riferisco, in particolare, alla famosissima villa Bates). Sensazionale, agghiacciante, sinistro, capolavoro, must e cult, anticipatore, storico, rivoluzionario, audace, innovativo e sovversivo. Moltissimi aggettivi potrebbero essere sprecati per definire e giudicare il film forse più celebre ed amato della filmografia del maestro della suspense. Quelle citate sopra sono soltanto parole e, alla lunga, potrebbero diventare e sembrare quasi banali e scontate. A parlare e a far risaltare l’importanza e l’impronta che questo film ha avuto sull’immaginario pop-culturale e sull’industria cinematografica sono piuttosto i fatti. Tre seguiti più o meno degni di tale nome, un remake targato Gus Van Sant, due documentari dedicati, un film per la TV, un serial di successo, parodie, un film biografico e svariate citazioni nei più svariati media (dalla TV con I Simpson al fumetto nostrano con Dylan Dog). Psycho è la definizione di Settima Arte, un pezzo di storia del cinema mondiale e di genere, una pellicola immortale che rappresenta, tutt’oggi, un pilastro ed un punto di partenza immancabile per chiunque voglia intraprendere o, comunque, far parte di questo bellissimo e variegato mondo chiamato cinema. Una cosa è certa: la porta di villa Bates rimarrà sempre aperta per chiunque vorrà addentrarvisi.