TITOLO ORIGINALE: Babylon
USCITA ITALIA: 19 gennaio 2023
USCITA USA: 23 dicembre 2022
REGIA: Damien Chazelle
SCENEGGIATURA: Damien Chazelle
GENERE: commedia, storico, drammatico
DURATA: 189 min
Golden Globe per la migliore colonna sonora originale
Dopo il successo di Whiplash, La La Land e First Man, Damien Chazelle torna sul grande schermo con un racconto nudo e crudo della Hollywood dissoluta, perversa, dolente, tragicomica, sfrenata degli anni '20. Superata la prima mezz'ora - che è di fatto un cortometraggio che rispetta a pieno la promessa del titolo -, purtroppo Babylon non aggiunge un discorso interessante ed una sostanziosità di alcun tipo ad un susseguirsi di provocazioni, eccessi sempre crescenti, insulti urlati sempre più a gran voce. Babylon, anzi, sembra aderire ad un principio di cinema delle attrazioni di(!)mostrative, convertendosi ben presto in un modello di prodotto audiovisivo, di testo meta, di amarcord post-moderno, banalmente ed esclusivamente autoreferenziale, drogato dalla sua stessa natura e supposta ambizione (ovvero nessuna), genuflesso nei confronti di una pura e semplice evasione. Un viaggio insostenibile di tre ore votato ad un’estremizzazione autocensoria, ad un elettroencefalogramma piatto del gusto cinematografico, al barocchismo onanistico, ad un'apologia della pretenziosità. Che tenta infine di giustificare e condonare con una chiusa ruffiana e oltre il limite della sgradevolezza, con un testamento ed una lettera d'addio, piuttosto che con uno sguardo sul futuro del cinema e sulla sua sopravvivenza.
(Feci di) elefante, fiumi di cocaina e di champagne, sesso di ogni tipo, in ogni luogo, su ogni superficie, in qualunque posizione immaginabile, sperma, vomito, nudità, persone con un curioso feticismo per l’urina, falli saltellanti, volti purpurei e perlescenti, corpi caldi, sudaticci ed eccitati ed una musica jazz indiavolata ed incontenibile che sembra officiare quella che sembra (e, per certi versi, lo è) una messa infernale, un rito satanico, un tour de force ed una prova di forza, un sacrificio al Dio del successo, della fama, della gloria, dello spettacolo. Al Dio Cinema.
Quanto avete appena letto accade solo nei primi 30 minuti di Babylon - il nuovo (e quinto) lungometraggio dell’enfant prodige, già vincitore di un premio Oscar alla regia per il suo film più noto e anche il suo capolavoro La La Land. Mezz’ora che potremmo di fatto considerare alla stregua di un cortometraggio che rispetta (almeno quello!) a pieno la promessa del titolo: quella che vediamo dispiegarsi di fronte ai nostri occhi è invero una pura, cruda, nuda, vorticosissima, schizofrenica, irreprimibile babilonia, tra le migliori rappresentazioni della Hollywood dissoluta, perversa, dolente, tragicomica, sfrenata, viste sul grande schermo da quando, su quello stesso schermo, si sono accese le prime luci e proiettate le prime immagini.
Si tratta anche dal segmento migliore della creatura filmica di Damien Chazelle, nel quale egli riesce, ancora una volta, a fondere e trarre il meglio dal compromesso e dal contrasto artistico ed affettivo che ha sempre caratterizzato la propria vita e la propria attività creativa; dalle due anime che lo hanno reso chi è oggi. La musica, appunto, è l’officiante, il richiamo tribale, l’innesco orgiastico; il cinema è viceversa il movimento febbrile, il dinamismo imprevedibile (così come sottolineato da una serie di magniloquenti e complessi piani sequenza e dalle cosiddette panoramiche a schiaffo, che Chazelle ha ormai reso un proprio marchio di fabbrica, e di cui il resto del film è l’apologia), l’intreccio di corpi e di idoli che tentano, ad ogni piè sospinto, ogni volta che ne hanno la possibilità, di centrare su di loro i riflettori, chiamarci a sé, farsi notare e catturare la nostra attenzione.
È questo anche il segmento in cui il blasonatissimo cast di interpreti dà il meglio di sé, funziona e si mostra maggiormente accordato (in fatto di musica) con la visione e la direzione del cineasta. Allora, è d'obbligo citare anzitutto un Brad Pitt in una sintesi dei suoi ruoli tarantiniani (Bastardi senza gloria e C’era una volta a… Hollywood), ovvero quelli che, per lui, hanno rappresentato una vera e propria rivalutazione presso un pubblico quanto più vasto. Anche Margot Robbie, dal canto suo, è impegnata in un autentico greatest hits delle parti che le hanno fatto incontrare il consenso e la devozione del pubblico (The Wolf of Wall Street, Suicide Squad, Tonya e, anch’essa, C’era una volta a… Hollywood). Specialmente per il suo essere realmente un esordiente e, nella finzione, un personaggio di contorno che, un po’ per caso, arriva ad imporsi come protagonista, convince pure Diego Calva, attore letteralmente scoperto e patrocinato dallo stesso Chazelle.
Questa è infine anche la sequenza che si dimostra più efficace da un punto di vista strettamente comico. Quella in cui i tempi sono rispettati al millimetro e le gag, per quanto fieramente puerili e grottesche, riescono a strappare ben più di un sorriso e di una risata allo spettatore.
E poi… il nulla. Sì, avete letto bene. Ma ampliamo: le restanti due ore e trenta di Babylon sono letteralmente l’eufemismo del concetto di “nulla”; l’elogio autocompiaciuto e narcisistico di un’idea di cinema che non suona nemmeno propria, personale, sentita, ancor prima che meramente originale. Un mix del ritmo indiavolato e nevrastenico del sunnominato The Wolf of Wall Street e del “Viale del tramonto” ipercitazionista, ludico, sregolato e nostalgico del Tarantino del (anch’esso) già largamente citato C'era una volta a... Hollywood, senza tuttavia disporre, da un lato, del controllo totale, della compattezza discorsiva e narrativa, di un sano flanerismo filmico, né tantomeno della capacità iconica ed iconografica, di un gusto per il grottesco e il bizzarro, o della chiarezza di intenzioni dell’uno, dell’altro o di entrambi.
Una pellicola che pare emulare l'ideale più stereotipato del cinema di Baz Luhrmann, ma attraverso gli occhi di un Ruben Östlund ancor più ebbro, inutilmente cinico, gratuito e comicamente al risparmio di quanto già visto nel recente Triangle of Sadness (vomito incluso). O, in alternativa, un remake (non) dichiarato, sovraeccitato, drogato, quando non della sua filmografia: si pensi alla colonna sonora di Justin Hurwitz (non certo il suo miglior lavoro), la quale combina la convulsione e l’agonismo jazzistico di Whiplash con l’elemento malinconico di La La Land; oppure alla sequenza in cui il personaggio della Robbie origlia due persone criticarla ed insularne la recitazione da dentro un bagno; di Cantando sotto la pioggia (da cui trafuga, nascondendosi dietro il pretesto della citazione, interi stralci di dialogo, soluzioni ridicole, nonché una delle sue più geniali e celeberrime sequenze), privo nondimeno delle componenti più strettamente e puramente musical.
Oppure ancora, un’operazione che più che parlare, pur sotto un’ottica ripugnante, disillusa e consapevole (cosa che, in alcuni momenti, sembrerebbe quasi azzeccare), del cinema delle attrazioni mostrative, del primo cinema narrativo, delle prime grandissime produzioni dello studio system hollywoodiano, dell’affascinante (storicamente e filmicamente parlando) epoca del muto; pare piuttosto aderire ad un cinema delle attrazioni di(!)mostrative.
Difatti, non può che aver origine lì, da quella futile ed inconcludente dimostrazione, la deriva di scrittura e sostanziosità di Babylon. Il quale si converte ben presto in un modello di prodotto audiovisivo, di testo meta, di amarcord post-moderno, banalmente ed esclusivamente autoreferenziale, drogato dalla sua stessa natura e supposta ambizione (ovvero nessuna, per stessa ammissione di un Jack “Brad Pitt” Conrad che biascica simili congetture tra una sbronza e l’altra), genuflesso nei confronti di una pura e semplice evasione, scomposto in situazioni - ergo molteplici micro-narrazioni, tratte ed ispirate da Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, di per sé autarchiche, se non nella caratterizzazione e nella messa in crisi (proverbiale) dei personaggi - legate fortuitamente tra loro da un (volutamente) sgraziato e brusco montaggio alternato.
In poche parole, in un film che gira a vuoto, si sgonfia, perde il suo aplomb adagiandosi su patetici e pigri espedienti drammaturgici, e tenta, ad ogni stacco di montaggio, di divertire, scandalizzare, emozionare, affascinare, traumatizzare, scuotere, accompagnare filologicamente lo spettatore in alcune delle principali tappe della storia del mezzo e dello spettacolo cinematografico in uno dei suoi periodi e in una delle emanazioni più classiche.
In quella fase di transizione e di nobilitazione in cui, con l’avvento del sonoro (immagini + audio, ossia il matrimonio eccellente degli altri film di Chazelle), il cinema, da arte minore che era considerata, divenne un’arte contemplata e rispettata, e, in tal modo, portò ad una spietata scrematura delle proprie fila (specie di quelle attoriali), fece conoscere il silenzio ai suoi mestieranti - silenzio, che, nella produzione chazelliana, un po’ come in First Man, preannuncia sembra un mondo nuovo, una nuova prospettiva -; rivelò davvero la sua natura illusoria, portando alla luce (quella della disgrazia, non della fama) tutti i falsi miti, i falsi talenti o più semplicemente i nevrotici e nervosi re della pantomima, i quali divennero ben presto i diseredati del e dal progresso tecnologico. Oppure ancora, per parlare con Chazelle, gli "scarafaggi" che, per anni, furono allattati da Madre-Cinema, servendosi del suo potere attrattivo, e che, tutt’a un tratto, si dovettero accontentare di essere “fantasmi”, certo immortali ed iconici, ma legati - col senno di poi - ad un cinema primitivo, anacronistico, polveroso, dimenticato.
Insomma, in quel frangente in cui il cinema divenne pure più etico, morale, retto, proibizionista, casto e, di conseguenza, sottotestuale - laddove invece prima era costretto a riversare le proprie ossessioni ed esaurire i propri progetti nella “semplice” testualità.
Quantomeno rinfrancante, a tal proposito, è il segmento in cui il produttore esecutivo interpretato da Diego Calva si ritrova faccia a faccia con un Tobey Maguire che offre la sua versione naturalmente cianotica, digrignante e marcia del Joker, il quale porta il primo nelle profondità del “Buco del Culo di Los Angeles” (sì, si chiama proprio così). Un inferno a più piani in cui si è rifugiato tutto ciò che, una volta, era socialmente accettato, anzi faceva parte del gioco della fama, del mito, e che ora è invece diventato deprecabile. Il tutto, mentre altri tipi di crimini e amoralità si consumano in superficie, solo taciuti, mascherati, imbellettati. Di sotto, allora, si rintanano le estreme conseguenze e lo sfiatatoio putrescente e fognario dell’arte del sottotesto; di sopra, hanno campo libero i promotori (razzisti, maschili, prevaricatori, ipocriti e perbenisti) di un sottotesto che diventa travestimento, prima ed ultima finzione, nascondiglio sotto le luci di mille mila riflettori, uno degli impieghi più costosi e redditizi di tutti.
Quanto avete appena letto costituisce, dopo due ore interminabili di un’estremizzazione che diventa annullamento, elettroencefalogramma piatto del gusto cinematografico, barocchismo onanistico, apologia della pretenziosità, un barlume di speranza per la conclusione, un accolto risveglio neuronale. Purtroppo, ogni atto di fede è prontamente smentito da un finale insostenibile che, tra twist prevedibili, una scomparsa didascalica nel buio (laddove il cinema è l’arte della luce) ed una sparatoria tarantiniana, spinge l’asticella della presunzione, della dimostrazione fine a sé stessa, verso confini impensabili e ancor più sgradevolmente estremi.
Gli ingredienti sono presto detti: un omaggio conveniente del film da cui si sono trafugate gran parte delle idee più idealmente stimolanti (Cantando sotto la pioggia, ovviamente); una lunga (e, per noi, riflessiva) carrellata, del tutto inedita (siamo ironici, ovviamente), su una platea che reagisce, in vario modo, a suddetto film; un primo piano su un ex-uomo del cinema che si commuove e ritrova la sua passione; ed infine un video-saggio che non sfigurerebbe tra gli elaborati di esame di uno studente al primo anno di accademia di cinema (il titolo ce lo immaginiamo già: “Perché amiamo il cinema?” o il più mélièsiano “Viaggio attraverso il cinema”), nel quale Chazelle prima ci offre un montaggio veloce dei pilastri della storia del cinema - dal già ricordato Georges Méliès, passando per i capolavori del muto e del cinema narrativo tradizionale, fino ad arrivare ad esemplari relativamente recenti come Terminator 2, Jurassic Park e Avatar -, alternato a sovrapposizioni di immagini delle tre ore precedenti e ad una scomposizione teorica e astratta dei rudimenti del mezzo, dai colori accecanti alle formule alchemiche del cinema analogico, primigenio, più materico, concreto e chimerico (lo stesso che il cineasta aveva meravigliosamente omaggiato tanto in La La Land, quanto in First Man).
E, purtroppo - lasciatecelo scrivere - se oggi, nel 2023, ci basta un montaggio ruffiano, oltremodo ostentativo e blandamente (di)mostrativo per farci urlare al capolavoro, all’epifania, emozionarci, convincerci, persuaderci, affascinarci, esclamare "viva il cinema, il cinema viva” o farci uscire dalla sala con una fede rinnovata nel grande schermo e nella sua sopravvivenza (attraverso una celebrazione della sua passata grandezza?), allora significa che la morte del cinema è già qui, dentro e fuori le porte di Babilonia o in qualsiasi altro orizzonte lambito dalla macchina da presa.
Ma, d’altronde, per dirlo basterebbe anche solo il complesso d’inferiorità (rispetto alla serialità, ai suoi spazi e ai suoi respiri) e la pochissima fede che Chazelle dimostra nei confronti della sintesi, del peso, della dote segnica e dell’arte dell’immagine. Se La La Land era infatti un film rivoluzionario che pareva diretto da un vecchio maestro e First Man, in alcuni punti, sembrava quasi diretto da Clint Eastwood, Babylon è allora la banalizzazione e semplificazione di un percorso, la riprova che, una volta assaporata la Babilonia di Hollywood, è facile corrodersi e perdersi in deliri di onnicomprensività (e onnipotenza).
Da un lato, la riconferma della genialità, del coraggio e del carattere iconoclasta di un finale come quello di C’era una volta a… Hollywood che esprime un’idea intima, personale, soggettiva del cinema, a confronto di quella di Babylon, che cede e viene di fatto minimizzata, annullata dalla vastità e grandezza delle sue aspirazioni. Dall'altro, un testamento, una lettera d’addio. E non uno sguardo sul futuro.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.