TITOLO ORIGINALE: Avatar
USCITA ITALIA: 15 gennaio 2010
USCITA USA: 18 dicembre 2009
REGIA: James Cameron
SCENEGGIATURA: James Cameron
GENERE: fantascienza, azione, avventura
3 premi Oscar, tra cui miglior fotografia e migliori effetti speciali
Che cos'è Avatar, quasi tredici anni dopo? Non soltanto il folle gesto di un regista, la sua determinazione, l'amore e il richiamo morbosi, quasi atavici, che dimostrò nei confronti dell'Eden immaginifico, cinematografico, visionario che era ed è tuttora Pandora. Né tantomeno un plagio di Balla coi lupi o Pocahontas, come molti riscopertisi fan militanti hanno lamentato, puntando il dito contro la banalità dell’intreccio e la scolarità del racconto e dei suoi ideali, senza però vedere o sentire quello che James Cameron voleva dire e fare con questo film, senza accorgersi della vera portata di un discorso più profondo, inebriante, nonché coerentissimo, i cui sintomi, indizi e riferimenti sono cosparsi per tutto il Cuore di tenebra reincarnativo e ridefinitivo del marine Jake Sully. Avatar è un atto politico radicale. Un tentativo rivoluzionario. Un attacco alle fondamenta della visione e dello spettacolo cinematografico. Una rivelazione quasi evangelica da abbracciare incondizionatamente, ma che non è riuscita, suo malgrado, a trovare e produrre grandi proseliti. Ma anche un’illusione ossimorica, paradossale, contraddittoria. Un film che è, al contempo, manifesto più eclatante del cinema e della poetica dello sguardo cameroniani, e il più sfavillante testamento del cinema stereoscopico. Un capolavoro senza tempo che ci chiama a vedere (e quindi ad amare) davvero, come mai prima d'ora. Perché, si sa, vedere è forse l’atto più sovversivo, folle e potente che esista.
“A volte, la vita si riduce ad un unico folle gesto” dice Jake Sully, il marine, ora avatar in missione, pronto ad entrare a far parte del clan nativo Omaticaya, in uno dei momenti di svolta di Avatar di James Cameron.
Ed è questo momento, questa manciata di parole, che lasciano affiorare e ci permettono di comprendere, meglio di tanti e tante altre durante il corso di questa maestosa odissea, la reale essenza e il vero significato che James Cameron - regista, costruttore e demiurgo che, ogni qualvolta decida di sedersi dietro la macchina da presa, dà vita a rivoluzioni, punti di non ritorno, paragoni inscalfibili per il medium e il mondo audiovisivo - conferisce non tanto al film in sé e per sé, quanto piuttosto all’atto, al gesto o, nel suo caso, all’impresa cinematografica.
Fare cinema, per lui, equivale infatti ad assecondare e dar corpo, forma, vita ad una follia necessaria, essenziale, vitale. E forse Avatar, più di Terminator, The Abyss, True Lies e Titanic, rappresenta la massima follia dell’opera, della visione e dell’universo cameroniani.
Per capire quello che intendiamo, è però bene fare un salto agli albori del progetto, più precisamente al 1996, anno in cui il regista scrisse una sceneggiatura di circa 80 pagine, lasciandosi ispirare dalla lettura, dall'universo e dalle idee dal Ciclo di Marte di Edgar Rice Burroughs - che, tra le altre cose, ha ispirato il personaggio di Superman, la saga di Star Trek e quel capolavoro di Guerre Stellari.
L’idea venne però scartata dallo stesso Cameron, in primis, sia perché la produzione sarebbe costata troppo (ben oltre 400 milioni di dollari), sia perché egli stesso era allora impegnato nella lavorazione dell’attesissimo (e parimenti rivoluzionario) Titanic, ma anche e soprattutto perché l’effettistica digitale non aveva ancora raggiunto quel livello di realismo necessario a portare in vita e rendere credibile Pandora, il suo ecosistema ricco ed interconnesso, e i suoi abitanti nativi.
La svolta avvenne attorno al primo quinquennio del 2000, periodo in cui Cameron fu impegnato, in qualità di consulente grafico, prima nella realizzazione di scenari e battaglie per la trilogia de Il Signore degli Anelli, poi successivamente nell’animazione del motion capture di Davy Jones in Pirati dei Caraibi - La maledizione del forziere fantasma, ed infine nel King Kong di Peter Jackson. Tutte esperienze che, come rivelò lui stesso all’epoca, gli permisero di constatare i passi da gigante compiuti dalla tecnologia della grafica computerizzata, e che lo portarono a voler “creare un nuovo tipo di grafica virtuale aiutandomi con l'animazione del motion capture. Con il mio "Reality Camera System", il digitale sembra reale e viceversa” [New York Times; 2007].
Ma la vera follia non fu tanto la determinazione, l’attesa, né tantomeno l'amore e il richiamo morbosi, quasi atavici, dimostrati nei confronti di questo Eden immaginifico, cinematografico, visionario - che, così come lo stesso Jackson nella trilogia dell’Anello, Cameron rese vibrante, energetico, pulsante, autosufficiente, anche attraverso una lingua agglutinante creata ad hoc insieme al linguista Paul Frommer -, bensì la scelta di affidare ad Avatar il compito di rianimare e rendere nuovamente popolare la stereoscopia, il cinema stereoscopico o, più semplicemente, il 3D. Un artificio di visione polveroso, una tecnologia illusoria ed immersiva, un trucco dimenticato, le cui origini vanno ben oltre la nascita del cinema, risalendo fino ai tempi di Euclide e di Leonardo Da Vinci. Ma anche una moda intermittente che, nel corso del Novecento, si è tentato più volte, invano, di applicare al cinema popolare e di farne una modalità “democratica” e pervasiva di visione (nel 1922 con The Power of Love, nel 1952 con Bwana Devil, nel 1954 con Il mostro della laguna nera e Delitto perfetto, nel 1983 con Lo squalo 3 - giusto per citare alcuni esempi).
Ciò detto, se, da un lato, Avatar è di fatto la pellicola che oggi, più e meglio di tutte, ha esplorato, approfondito, sfruttato e, soprattutto, integrato nei suoi discorsi la tecnica e il sistema di ripresa stereoscopica, e, in tal senso, il manifesto eccellente del cinema e della poetica dello sguardo cameroniani; dall’altro, esso è tuttora l’ennesimo testamento e il fallimento più clamoroso del cinema stereoscopico e delle sue intenzioni, in termini di politica cinematografica.
Perché, al di là delle critiche (di per sé sterili) di chi non ha davvero sentito e visto quello che Cameron voleva dire e fare con questo film, preferendo invece puntare il dito contro la banalità dell’intreccio e la scolarità del racconto e dei suoi ideali e riscoprendosi così fan militante e appassionato di Balla coi lupi e Pocahontas; Avatar è anche e soprattutto un atto politico radicale. Un tentativo rivoluzionario. Un attacco alle fondamenta della visione e dello spettacolo cinematografico. Una rivelazione quasi evangelica da abbracciare incondizionatamente, ma che non è riuscita, suo malgrado, a trovare e produrre grandi proseliti, ribadendo e mettendo in luce soltanto (e nuovamente) la transitorietà della tecnica stereoscopica. Una sfavillante, eppure amara constatazione a cui è seguita, come logica che sia, una normalizzazione del 3D quale opzione di visione ed un suo progressivo abbandono come sistema natio di ripresa.
Pertanto, quello a cui oggi ci troviamo di fronte, guardando o riguardando Avatar, è un film che, in questo suo essere folle ed apparentemente irripetibile; insieme genesi e apocalisse, dai toni e tratti biblici, di una nuova visione, di un nuovo corpo, di un nuovo spettacolo, di un nuovo cinema, si mostra ironicamente come un’illusione ossimorica, paradossale, contraddittoria. Così tanto, da risultare, a momenti, intenzionale. La frase iniziale di Sully - “ho cominciato a sognare di volare, ero libero, ma prima o poi ti devi svegliare” - si rivela, in tal senso, quasi profetica, oltre che precisa nel descrivere la parabola di uno dei più bei e grandi abbagli della storia del cinema hollywoodiano (e non solo).
E, di nuovo, è un qualcosa di inspiegabile, per non dire irritante, il fatto che molti si siano fermati alla referenzialità dell’intreccio, alla sintesi e al recupero di archetipi del cinema e, ancor prima, della letteratura avventurosa, fantastica, fantascientifica, e continuino ancora oggi - un po’ come fa l’aziendalista pentito interpretato da Giovanni Ribisi - a declassificare e sminuire (il progetto) Avatar ad un mero “spettacolo di marionette”, non accorgendosi della vera portata di un discorso più profondo, inebriante, nonché coerentissimo, i cui sintomi, indizi e riferimenti sono cosparsi per tutto il Cuore di tenebra reincarnativo e ridefinitivo di Jake Sully; nella sua inarrestabile, esaltante ed instancabile corsa alla riscoperta di sé, del proprio (nuovo) corpo e, con esso, di un nouveau cinéma, che è digitale, virtuale, immersivo, extra-corporeo e, al contempo, sensuale (e sessuale), fenomenico, carnale, esperienziale, istintivo, ancestrale, primigenio.
Con Avatar, lo spettatore, così come Jake Sully, apre gli occhi su un’umanità alla deriva, convertita nel motore, negli ingranaggi, negli strumenti di una macchina militare, aziendale, avara, conquistatrice, imperialista, ma anche e soprattutto cinematografica, artificiosa, spersonalizzante, alienante, veemente, aggressiva, esangue, solo muscolare.
Un’umanità (ed un cinema) che, nelle veci del nostro marine, prima grazie ad una nuova vita e ad una fortunata identità genomica, poi attraverso un nuovo corpo percettivo (ed un nuovo modo di visione), tornerà nel liquido amniotico dell’esistenza, nel sonno primigenio, ad uno stadio infantile e all’ingenuità ed ignoranza tipiche di quel periodo della vita, ed intraprenderà così un viaggio - che sarà anche una rinascita -, il cui obiettivo e fine ultimo sarà la scoperta di una connessione, di un legame, di un equilibrio - possibili, ma delicatissimi e ben dettati dalle seducenti capacità di world building di Cameron - tra il progresso scientifico e tecnologico e la ridefinizione di noi stessi all’interno di un ecosistema, di un flusso, di un qualcosa di più grande, di un tutto, nel quale e del quale siamo soltanto minime variabili o, per usare le parole del film, energia in prestito.
Quello di Pandora (d’altronde, come si suol dire, nomen omen) è allora un richiamo a sentirci, ascoltarci, esistere, vivere, muoversi come fosse la prima volta. A credere ad uno sguardo reincarnato che diventa l’elemento fondativo di un nuovo corpo (cinematografico) purificato, ibrido, simbiotico, che riesca a tenere insieme impeccabilmente la classicità tripartita del “cosa” e la radicalità del “come”. Ad amare ed innamorarsi, che, per Cameron, equivale a vedere (e vedersi) come mai prima d’ora. E vedere è forse l’atto più sovversivo, folle e potente che esista.
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