TITOLO ORIGINALE: Whiplash
USCITA ITALIA: 12 febbraio 2015
USCITA USA: 16 gennaio 2014
REGIA: Damien Chazelle
SCENEGGIATURA: Damien Chazelle
GENERE: musicale, drammatico
PREMI: 3 PREMI OSCAR tra cui MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA e MIGLIOR MONTAGGIO
Damien Chazelle approda alla regia main-stream, dirigendo, su schermo, un credibilissimo Miles Teller e un J. K. Simmons veramente da Oscar, in questo dramma musico-centrico. Una regia rigorosa, meticolosa e ben congegnata, dialoghi e sequenze che sono entrati nell’immaginario collettivo, un montaggio sbalorditivo ed una colonna sonora frenetica, vorticosa e d’altri tempi. Whiplash è un turbinio di tensione e di emozioni che tutti, musicisti e non, almeno una volta nella vita, dovrebbero vedere!
Prima di diventare il nome registico ed avere il peso che ha oggi nel panorama cinematografico, prima di La La Land – che lo ha consacrato nella storia del cinema -, Damien Chazelle dirige Whiplash. Ancora prima, nel 2009, è conosciuto, nell’ambito, solamente per Guy and Madeline on a Park Bench – pellicola indipendente girata in bianco e nero, che richiama un certo tipo di musical e in cui Chazelle riveste quasi tutti i contesti produttivi. Sei anni dopo, nel 2015, il giovane cineasta si trova al Dolby Theatre di Los Angeles. Il suo secondo film, divenuto ormai main-stream, è stato candidato a cinque premi Oscar. Whiplash, di quelle statuette, ne vince ben tre e Chazelle si trasforma in una delle più giovani promesse registiche che Hollywood abbia mai avuto. L’anno seguente uscirà, per l’appunto, La La Land, ma quella è un’altra storia. Whiplash può essere considerato il secondo capitolo di una sorta di trilogia musicale, di omaggio che Chazelle fa alla musica, sia nelle sue forme positive che negative – che vede, come suo picco e culmine massimo, il sopracitato musical del 2016, con Ryan Gosling ed Emma Stone protagonisti. Dei tre, senza dubbio, Whiplash è la pellicola che raggiunge vette e culmini più alti di tensione, emozionando, coinvolgendo e scioccando completamente lo spettatore. Il film si concentra e prende le parti di Andrew Neiman, giovane batterista, al primo anno di studi presso il facoltoso Shaffer di Manhattan. Le sue giornate sono fatte di pratica sulle pelli (della batteria), lezioni e ascolto dei grandi dello strumento quali Buddy Rich e Gene Krupa. Il suo sogno nel cassetto è quello di diventare uno dei migliori batteristi jazz del suo tempo. Per esserlo, dovrà entrare a far parte di una delle migliori orchestre dell’istituto. Ecco quindi che fa la conoscenza di Terence Fletcher, direttore di uno dei migliori complessi musicali del paese. All’inizio, il giovane studente sembra andare a genio al sibillino ed autoritario Fletcher, riuscendo pure ad entrare a far parte della sua band. Tuttavia, egli non ha neanche il tempo di iniziare a suonare che Fletcher inizia a mostrarsi per ciò che è veramente: un musicista tecnico ed un maestro d’orchestra ossessionato dalla perfezione, alla ricerca della prossima leggenda della musica jazz.
Tra i due, prende così il volo una lotta a base di rullate, swing vorticosi e provanti, paradiddles e tempi dispari ostici e difficoltosi. Questo scontro e confronto, senza esclusione di colpi, svolto attraverso la musica, per Andrew, si converte ben presto in un vero e proprio dramma e violenza psicologica che cambieranno e segneranno completamente la sua esistenza. Chazelle, qui nel ruolo sia di regista che di sceneggiatore, prende la musica, il tema della passione, l’artisticità di note e melodie e le estremizza completamente, trasformandole nel loro opposto: un’ossessione, una violenza ed una sofferenza. Attenzione, Whiplash non è un film sulla musica, ma un film su ciò che essa può diventare, se radicalizzata ed esasperata. Mediante una collaborazione sincronizzata ed accordata con il montatore Tom Cross, Damien Chazelle imbastisce un dramma psicologico tra i migliori di questo secolo e lo fa mettendo in campo tutto il proprio repertorio ed arsenale registico e a livello di messinscena. Premendo play, lo spettatore si imbarca per un viaggio estenuante, attanagliante, teso, angosciante e spesso sorprendente. Il giovane regista segue, o, per meglio dire, pedina, Andrew (Miles Teller), cercandone costantemente lo sguardo, l’espressione, la sofferenza, ma anche la passione e il successo, veri e propri combustibili del suo fare per essere. Nella costruzione della tensione tra i differenti personaggi, un aspetto corporeo ricercato da Chazelle – che vedrà, in La La Land, il suo massimo sviluppo filmico – è, senza alcun ombra di dubbio, lo sguardo. Questo stesso sguardo può assumere diverse dimensioni ed applicazioni narrative: può essere uno sguardo rivolto febbrilmente e in modo agitato agli spartiti o allo strumento, può essere uno sguardo di sfida, di sconforto, di esultanza, di delusione, ma può essere anche uno sguardo che implica un rapporto ed un grado di predominanza o subordinazione. Oltre agli occhi, ulteriori elementi a favore della tensione e disarmonia della vicenda sono sicuramente l’attenzione di Chazelle nella rappresentazione e modellazione del corpo in tutti i suoi aspetti – sia esso sofferente o rilassato – e la focalizzazione sui dettagli. Quest’ultimo aspetto si ha attraverso l’utilizzo di primissimi piani o inquadrature incentrate su particolari come le chiavi degli strumenti, le bacchette insanguinate, il sangue sulle pelli e il sudore sui piatti o, ancora, piani ravvicinati su oggetti, accessori o, sempre, parti del corpo dei musicisti.
Queste inquadrature, così minuziose, ricercate, ma intrinsecamente inefficaci, non veicolerebbero e darebbero vita allo stesso livello di tensione filmica, se, alle spalle, non ci fosse un montaggio così curato e così ben congegnato, da rappresentare una delle colonne portanti del film. Tom Cross, che, con questo film, vinse il premio Oscar per il miglior montaggio, partorisce una delle prove migliori della sua carriera, aggiungendo sicuramente “un po’ di pepe” alla messa in scena e stravolgendo completamente l’opera di Chazelle. Le inquadrature di quest'ultimo – di sicuro angoscianti e forti per ciò che viene rappresentato, ma estremamente rigorose e contenute nella costruzione – vengono animate, ritmate e scosse, in modo superbo e geniale, proprio dal montaggio che Cross compie sul girato. Un elemento aggiuntivo ed arricchente di questo mosaico, fatto di battute, strumenti, direttori scellerati e studenti timidi ma ambiziosi, è certamente la colonna sonora intellettuale e dai toni jazz, firmata da Justin Hurwitz, che, con questo film, prosegue la sua fedele collaborazione col cineasta (inaugurata, nel 2009, con Guy and Madeline on a Park Bench). La batteria, con il suo sound e la sua potenza, inizia ad emergere ancora prima che gli attori appaiano sullo schermo, ancora prima del titolo del film, per culminare, in ultima battuta, con la meravigliosa interpretazione ed assolo ritmico nel brano Caravan e nella sua esibizione conclusiva – di ben nove minuti. Le percussioni sono quasi sempre in scena, come suono intra- ed extra-diegetico, anche quando non si palesano direttamente. Il film è pervaso appunto da questa tensione narrativa e concettuale che non fa che esprimersi con il suono accelerato e frenetico delle bacchette sulle pelli. Come affermato sopra, Whiplash non è un omaggio alla musica, come sarà poi La La Land, bensì un lungometraggio che mostra come questa – sinonimo di arte ed estro e creatività performativa, anche se dettata da paradigmi e regole – possa convertirsi nel suo contrario. Damien Chazelle firma appunto la sceneggiatura del suo secondo film, rappresentando e trattando una veritiera estremizzazione della materia e di ciò che essa significa.
Attraverso questa violenza, prima, e confronto psicologico, poi, Chazelle non fa altro che comporre una metafora sulla struggle to success (lotta per il successo), sull’ossessione, sul mito e sulla perfezione, evidenziando e rendendo conscio il pubblico – sicuramente non nel modo più giusto – su ciò che spesso accade, sulla violenza e sulla pressione che spesso hanno luogo in ambienti del genere. Metaforicamente parlando – e facendo un confronto con il film successivo del regista -, Whiplash è paragonabile ad una corsa sulle montagne russe. Quando si scende dai kart dei rollercoaster diciamo che non si è proprio in pace con sé stessi e il proprio corpo, anzi ci si sente un po’ spossati e “rintronati“. Parallelamente, Chazelle prende lo spettatore per il bavero e lo porta a forza su quest’attrazione piena di salite, di discese e di giri della morte, ribaltandogli e mettendogli sottosopra lo stomaco, per poi abbandonarlo, una volta datogli il colpo di grazia. Da un punto di vista narrativo, Whiplash non trasmette altro che angoscia ed una lotta estenuante per raggiungere i propri sogni. Al contrario, La La Land è rapportabile ad una ruota panoramica, dove non si fa altro che stare seduti e godersi ciò che si vede fuori dal finestrino. La La Land mostra la bellezza e la grandezza emozionale ed umana di note, melodie e ritmo. Whiplash ne dimostra la violenza e lo stravolgimento. Quest’angoscia, tormento e pena non sarebbero così efficaci, al pari di un pugno allo stomaco, se, profondamente, la scrittura e la caratterizzazione del personaggio di Andrew – e, parallelamente, della sua ombra e carnefice, Fletcher – non fosse così ben congegnata, viscerale e reale. Con la propria penna e, solo successivamente, con l’utilizzo della macchina da presa, Chazelle dà vita a sequenze, confronti e scambi di battute che sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo, arricchendo il tutto con una messa in scena intrigante, magnetica ed emozionalmente suggestiva.
Suddetti confronti e dialoghi avrebbero avuto, tuttavia, molto meno effetto e memorabilità se, ad interpretarli, non ci fossero stati interpreti dal calibro di Miles Teller e J. K. Simmons, la cui interpretazione ha convinto l’Academy a tal punto, da valergli l’Oscar come miglior attore non protagonista. Il giovane attore, prima di diventare Mister Fantastic nel disastroso reboot dei Fantastici Quattro, con Whiplash, ha seriamente regalato una, se non l’ interpretazione migliore di tutta la sua carriera. Anche soltanto con un gesto, un movimento del viso o uno sfogo e tensione espressiva, Teller rappresenta e veicola perfettamente l’evoluzione caratteriale e mentale del personaggio di Andrew. Un timido ed insicuro batterista, prima, un abile e maturo musicista, poi – con il proseguire della vicenda, Andrew Neiman diventa stilema di perseveranza, crescita e del detto “l’allievo ha superato il maestro” (o, meglio, lo ha prevaricato e superato). Tuttavia, la parte da leone nel film è riservata al grandissimo ed imponente J. K. Simmons che interpreta, in maniera magistrale, un Terence Fletcher ambiguo, violento, costantemente in tensione fisica ed emotiva, sarcastico, freddo, tagliente, dominante e sadico. Così come Teller, il fu J. Jonah Jameson (nella trilogia di Raimi sull’Uomo Ragno) delizia e regala al pubblico la prova attoriale migliore e maggiormente ispirata della sua intera filmografia. In poche parole, Whiplash può essere incluso, di sicuro, nell’elenco dei film più spietati ed elettrizzanti, non solo di questo decennio, ma del XXI secolo. Un dramma psicologico, mascherato dietro ad una tenda musicale, tesissimo (così come la cordiera di un rullante); una pellicola godibile, coinvolgente ed ansiogena, costantemente sul punto di infrangersi e precipitare; un lunghissimo concerto, sì, di musica, ma anche di rabbia, ambizione, frustrazione ed ossessione persistenti, così come la batteria suonata da Andrew – fondamentale leit motiv del tutto -; un’opera da non perdere e che tutti, musicisti e non, dovrebbero vedere almeno una volta nella vita.