TITOLO ORIGINALE: Once Upon a Time in Hollywood
USCITA ITALIA: 18 settembre 2019
USCITA USA: 26 luglio 2019
REGIA: Quentin Tarantino
SCENEGGIATURA: Quentin Tarantino
GENERE: commedia, drammatico, azione
PREMI: 2 PREMI OSCAR per MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA e MIGLIORE SCENOGRAFIA
Il nono film firmato Quentin Tarantino racchiude la summa del suo stile e della sua poetica. Una pellicola d’atmosfera, ricca di citazioni e riferimenti, che vuole dimostrare tutta la affezione di Tarantino per il cinema
Anni 70, Hollywood, una coppia che scoppia, hippie, Sharon Tate, Cielo Drive, Charles Manson. Non poteva esserci mix migliore per il nono e, forse, penultimo, film dell’iconico regista, Quentin Tarantino. Già per il cast e il regista, questo film era un must-watch. Dopo che tutto il mondo ha avuto l’onore di vedere quest’ultima fatica del cineasta di Knoxville, C’era una volta a… Hollywood sbarca in Italia. Il film è semplicemente travolgente, appassionante, citazionista, esilarante e prepotentemente irresistibile. Inverosimilmente, questo C’era una volta a… Hollywood è il prodotto meno tarantiniano della filmografia del regista, ma, allo stesso tempo, è il film definitivo del maestro, l’ultima tappa di un’evoluzione che Tarantino ha mantenuto costante da Le Iene, arrivando fino al più recente The Hateful Eight. La pellicola racchiude, infatti, tutti gli elementi che caratterizzano lo stile e la poetica di Tarantino e riesce a costruire un’atmosfera che è certosina. Ciò che è sicuro è che questo C’era una volta a… Hollywood non soddisferà tutti e deluderà soprattutto coloro che si aspetteranno di vedere un classico Tarantino alla Pulp Fiction o alla Django Unchained. E’ vero, nella regia e nella sceneggiatura si nota, immediatamente, il marchio riconoscibilissimo del regista. Tuttavia, sotto altri punti di vista, si riconosce un distanziamento notevole dai suoi film precedenti. Il film, però, ugualmente, stupisce, intrattiene, diverte, sciocca, emoziona, grazie, soprattutto, alle straordinarie interpretazioni da parte di tutti gli attori coinvolti. Tarantino firma, con la sua nona pellicola, una lettera d’amore profonda, meta-cinematografica, intensa e passionale nei confronti del tipo di cinema che egli preferisce in assoluto, nei confronti del cinema nella sua totalità e di un’epoca cinematografica ormai andata e remota.
Dopo quattro anni dal suo ultimo film, The Hateful Eight – il film più teatrale del regista e, senza dubbio, uno dei migliori -, Tarantino torna a maneggiare la macchina da presa. La regia di Tarantino, come già dimostrato in altre pellicole, rasenta la perfezione visiva e tecnica. Egli dà prova delle propria capacità ed abilità registiche e del suo occhio ed ossessione nel trovare l’inquadratura migliore, al fine di spremere al meglio le potenzialità di ogni singola sequenza. In questo C’era una volta a… Hollywood, il suo lavoro si fa ancora più preciso e maniacale. Infatti, all’interno della pellicola, il regista si cimenta nella ricostruzione di film e programmi televisivi anni ’60/’70. Per esempio, c’è una rielaborazione de La grande fuga di John Sturges, con Di Caprio al posto di Steve McQueen – che appare come personaggio all’interno di questo film, interpretato da Damian Lewis. Tarantino mette in campo tutta la propria conoscenza cinematografica e culturale riguardante quegli anni. La sua regia crea delle sequenze diventate già iconiche ed indimenticabili. Piani sequenza, primi piani fantastici ed espressivi, dettagli sui piedi (stranamente); il film racchiude il significato veritiero del termine tarantiniano, nonostante, ad una prima occhiata, non sembri. La pellicola, tra l’altro, comprende anche rifacimenti di vecchi spot pubblicitari – che utilizzavano star della TV e del cinema – e trailer di programmi televisivi.
Oltre che alla cinepresa, Tarantino torna, come sempre, alla scrittura di soggetto e sceneggiatura. Il film è notevolmente arricchito da dialoghi intelligenti, ironici, taglienti, a volte comici, arguti e referenziali. Tutto il film è pervaso dalla sensazione che la situazione, venutasi a costruire, esploderà prima o poi. Questa percezione viene, però, progressivamente mascherata ed oscurata da altri elementi e situazioni. Tarantino, nella scrittura del film, si diverte a prendere in giro lo spettatore, facendogli pensare a possibili risvolti, per poi ribaltarli completamente. La sceneggiatura presenta tutti i canoni tipici della scrittura tarantiniana. Tra gli unici problemi del film, troviamo un disequilibrio del ritmo tra parte iniziale, centrale e finale. Nella sezione dominante della pellicola, il ritmo e, di conseguenza, il traino e l’attenzione dello spettatore scemano leggermente. Forse, causato dalla lunghezza, fin troppo eccessiva, delle scene, in cui vediamo recitare Rick Dalton, che provocano un’eccessiva e brusca interruzione della vicenda principale. Apparentemente, non vi è una divisione in capitoli – tecnica che Tarantino ama utilizzare -, ma la narrazione viene comunque spalmata su varie giornate e momenti ben precisi e specificati. Scene estremamente dialogate in cui si divaga su una vasta gamma di argomenti, altre incredibilmente frenetiche, sequenze in cui la voce esterna ed onnisciente di un narratore presenta la vicenda (molto alla The Hateful Eight), situazioni in cui la recitazione e l’interpretazione degli attori la fanno da padrone. Il regista di Knoxville costruisce inoltre, intere sequenze che servono da omaggio a prodotti audiovisivi tipici dell’epoca come la serie TV FBI o i tipici film western hollywoodiani. La pellicola presenta un’enciclopedia di situazioni, vicende e vicissitudini – la maggior parte delle volte, dettate dal caso – che la rendono a dir poco unica ed originale. Il tutto conduce, in modo stranamente pacato, ma non per questo privo di emozioni, verso un climax a dir poco intenso e deflagrante, in cui tutto pare possibile. Tarantino lo fa di nuovo! Tarantino cambia la storia e lo fa in modo ironico, beffardo ed esilarante.
Come in ogni sua produzione, Tarantino riesce a valorizzare particolarmente la bravura degli attori con cui lavora. Questa volta, nella costruzione del suo film, può avvalersi di un cast di tutto rispetto, comprendente grandi stelle del cinema ed attori emergenti come Maya Thurman-Hawke, figlia di Uma Thurman ed Ethan Hawke (il suo esordio attoriale è stato nella terza stagione di Stranger Things), Dakota Fanning, Austin Butler e Margaret Qualley. Tuttavia le icone indiscusse della pellicola sono loro. La coppia che scoppia. I nuovi Jules e Vincent (anche se differiscono sotto moltissimi aspetti). Leonardo Di Caprio e Brad Pitt. Rick Dalton e Cliff Booth. Le loro interpretazioni sono eccellenti e, a parer mio, potrebbero avere qualche chance per una nomination ai prossimi Oscar. Di Caprio interpreta un attore in declino, sulla via del tramonto, diventato famoso perché protagonista in una serie western per la TV, Bounty Law e, ora, scritturato solo per ruoli da villain. Dopo un colloquio con Marvin Schwartz – basato su una figura dell’industria cinematografica realmente esistita ed interpretato da un sempre fantastico Al Pacino – capisce che la sua carriera finirà ben presto, se non smette di fare sempre la parte del cattivo, dello sconfitto. L’attore, alcolista insicuro ed infelice, tenterà così di rifarsi un nome e una reputazione nel mondo del cinema. Ad accompagnarlo, troviamo un sorprendente Brad Pitt, qui, in una delle migliori interpretazioni della sua carriera. Pitt presta il volto e il fisico a Cliff Booth, stuntman e controfigura di Rick. Spavaldo e sicuro di sé, Cliff finisce per diventare, a tutti gli effetti, autista, assistente e migliore amico dell’attore. In uno dei suoi pomeriggi liberi – mentre Rick è sul set – lo stuntman entrerà a contatto con la Famiglia di Charles Manson (interpretato da Damon Herriman). Il personaggio del criminale, purtroppo, viene sacrificato molto all’interno della pellicola. Tarantino avrebbe potuto sfruttare meglio il suo potenziale. La complicità che Pitt e Di Caprio dimostrano su schermo eleva di molte spanne il livello della produzione e la potenza della sceneggiatura. In molti momenti, Brad Pitt riesce addirittura a mettere in ombra un interprete meraviglioso ed emotivo come Di Caprio, cosa che non mi sarei mai aspettato di affermare. Direi che, in alcuni momenti, Pitt risulta più convincente del collega. Quest’ultimo, tuttavia, regala alcune sequenze in cui dimostra tutta la propria potenza espressiva e recitativa. Egli manifesta, inoltre, un po’ di quella pazzia che lo aveva contraddistinto nel magnifico Django Unchained, sempre, di Tarantino.
Al fianco di Di Caprio e Pitt, come terzo interprete principale, troviamo Margot Robbie che, nel film, interpreta l’affascinante e sorridente Sharon Tate. La Tate è diventata famosa per essere stata la moglie del regista polacco, Roman Polanski, e una delle vittime del massacro di Cielo Drive ad opera della Family di Charles Manson. Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1969, infatti, quattro membri della famiglia Manson entrarono nella casa della Tate con un revolver, coltellini e una corda di nylon lunga tre metri. I tre membri della Manson Family uccisero la Tate, incinta di otto mesi e mezzo, insieme a tre amici che erano in visita in quel momento, e un ragazzo di 18 anni, venne ucciso mentre stava lasciando l’abitazione del guardiano. Polanski non era presente nella notte degli omicidi, dato che era a Londra e stava lavorando a un film in Europa. Margot Robbie regala un’interpretazione, indubbiamente, ispirata e tenerissima, soprattutto nella scena del cinema. La somiglianza con la Tate è allarmante a dir poco e il tutto viene arricchito dalla bravura espressiva ed attoriale della Robbie. Peccato che il suo personaggio venga un po’ tenuto in disparte per l’intera durata della pellicola. Alla fine dei conti, la presenza di Sharon Tate sembra che serva solamente ad introdurre, nel quadro generale del film, la figura di Charles Manson e della sua famiglia – protagonista di alcune delle scene più tese ed iconiche di tutto il film. Il fatto che due dei tre interpreti principali facciano gli attori nel film promuove il discorso metacinematografico portato avanti in tutto il film. In una scena particolare, la Tate potrebbe essere identificata con Tarantino stesso. Leonardo Di Caprio possiamo dire che potrebbe interpretare sé stesso all’interno del film.
La grandezza del cast, però, non si limita soltanto ai tre interpreti principali. All’interno di questo film, troviamo, infatti, grandi attori ed abituali collaboratori di Tarantino come Michael Madsen, Kurt Russell (qui molto sullo stile di Grindhouse come vestiario ed interpretazione), Tim Roth (non appare effettivamente all’interno del film, ma il suo nome è presente nei titoli di coda) e Bruce Dern (presente in una delle scene più divertenti dell’intera pellicola). L’unica pecca è che, sì, questi attori sono presenti e sorprendono, quando appaiono, ma, questa sorpresa non viene corrisposta poi dalla complessità e all’appeal dei loro rispettivi personaggi su schermo. Tra gli unici difetti di quest’ultima fatica tarantiniana troviamo, infatti, una profondità e presenza fin troppo irrilevante dei personaggi secondari. Diciamo che, i personaggi interpretati da Madsen, Russell e Dern sono tutt’altro che memorabili.
Il film risulta curatissimo anche dal punto di vista della fotografia e, soprattutto, della colonna sonora. Entrambi questi elementi aiutano nella costruzione di un’atmosfera precisa, centrata, decisa e dal carattere molto forte. La fotografia è da statuetta. Curata da Robert Richardson – che aveva lavorato precedentemente con il regista di Knoxville -, la fotografia di C’era una volta a… Hollywood è un qualcosa di estremamente evocativo, ispirato, e rappresentativo dell’epoca che il film descrive e rappresenta. Si passa dalle luci sfavillanti e flash delle grandi e gremite vie di Los Angeles ai colori aridi e decisi del deserto e dello Spahn Ranch, rifugio e casa della Manson Family. La fotografia, inoltre, è un elemento che aiuta nella citazione e nei riferimenti a varie opere cinematografiche e televisive dell’epoca. Un ulteriore aiuto nella costruzione dell’atmosfera e del quadro generale è la colonna sonora. Non vedevo una colonna sonora così potente e avvincente, in un film di Tarantino, da Pulp Fiction. Si parte alla grande con Treat Her Right di Roy Head e The Traits, arrivando poi a grandi successi musicali del tempo come Ramblin’ Gamblin’ Man di Bob Segar, Hush e Kentucky Woman dei Deep Purple e Bring a Little Lovin’ dei Los Bravos. L’irruzione di queste tracce all’interno della pellicola rappresentano un piccolissima citazione al capolavoro del regista, Pulp Fiction. Si ritorna, infatti, al passaggio da una canzone all’altra, attraverso la sintonizzazione – e successive interferenze – dell’impianto radio dell’auto, esattamente come nell’inizio del secondo film del regista, con Miserlou e Jungle Boogie, durante i titoli di testa.
L’ultima fatica di Quentin Tarantino è un’impressionante enciclopedia cinematografica e televisiva. Citazioni e riferimenti a film e programmi televisivi sono nascosti dietro ogni angolo, dietro ogni scena, dietro ogni battuta. Si citano le serie televisive western anni ’50 (come quelle con Clint Eastwood e John Wayne), programmi polizieschi come FBI, prodotti basati sui fumetti di supereroi come la serie di Batman con Adam West, la serie con, nel cast, Bruce Lee (presente nel film e piccola macchietta comica), Il Calabrone Verde, film come Rosemary’s Baby, La grande fuga, The Wrecking Crew e spaghetti western come quelli di Sergio Corbucci e Sergio Leone. Di tutto e di più, insomma. Un calderone culturale e filmico. Tarantino dimostra un vero amore e, quasi, onniscienza nei confronti dell’arte che lo ha reso famoso. All’interno del film si compiono anche riferimenti e rimandi, molto velati, a film dello stesso regista come Pulp Fiction, Jackie Brown, Bastardi senza gloria e The Hateful Eight. Si rende omaggio, infine, alla storica marca di sigarette, presente in quasi tutti i film del cineasta, Red Apple, in una ironica e divertentissima scena durante i titoli di coda. C’era una volta a… Hollywood si colloca così nella top 5 dei migliori film di Quentin Tarantino (dopo Django Unchained, Bastardi senza gloria, The Hateful Eight e Pulp Fiction), mettendo in scena la potenza che possono avere la passione e l’attaccamento per qualcosa – in questo caso, il cinema, forgiatore, da sempre, di emozioni e grandi storie che, qui, Tarantino omaggia in modo esemplare e riuscitissimo.