TITOLO ORIGINALE: Under the Banner of Heaven
USCITA ITALIA: 31 agosto 2022
USCITA USA: 28 aprile 2022
REGIA: David Mackenzie
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: drammatico, giallo, thriller
N. EPISODI: 7
DURATA MEDIA: 60-90 min
Già sceneggiatore premio Oscar di Milk e autore di Big Love, Dustin Lance Black firma questa serie FX/Hulu, adattamento del romanzo Under the Banner of Heaven: A Story of Violent Faith di Jon Krakauer, incentrata sull'omicidio di una donna e della sua figlia di soli quindici mesi, all'interno della più grande comunità mormone dello Utah. In nome del cielo è un crime atipico, ma anche un curioso, eppure non sempre riuscito ed ugualmente stimolante, esperimento di ibridazione e contaminazione, a metà tra fiction e documentario. Non c’è da stupirsi, in tal senso, se il caso in sé e per sé, così come tutta l'orchestrazione crime-thriller, si rivelano essere ben presto poco più che meri pretesti per condurre e dar il via, innanzitutto, ad un'osservazione e ad un'analisi della messa in discussione, della crisi, di una catabasi totale, travolgente, se non addirittura traumatica, del proprio protagonista-detective, interpretato da un Andrew Garfield in stato di grazia, e dei suoi principi teologici, morali ed esistenziali. Una serie imperdibile, impreziosita da una colonna sonora asfissiante e da un montaggio incontenibile ed indispensabile.
L’evoluzione e nobilitazione artistica e valoriale del linguaggio seriale e del mezzo televisivo, anche quale valida - e spesso più coraggiosa - alternativa, per non dire concorrente del cinema e delle sue forme di racconto, ha portato coerentemente ad una maturazione delle sue regole, dei suoi stilemi e valori, oltre che delle finalità specifiche del genere.
E quello che, ben prima del fantasy, meglio e più di tutti ha registrato questa crescita e presa di profondità è il crime, più nello specifico, la detective story. Senza necessariamente toccare l'eccezione (o il miracolo) Twin Peaks, che ha comunque avuto il suo ruolo seminale per tutta la produzione successiva, basti pensare ad esponenti più recenti del filone quali True Detective, Fargo, Mindhunter, Omicidio ad Easttown: tutte serie in cui, ad essere preminente ed imprescindibile, a guidare davvero la mente e l’immaginazione di registi e showrunner, non è tanto la mera risoluzione del giallo o del fatto di sangue, quanto piuttosto lo studio, l’osservazione ed un’analisi di natura quasi psicanalitica degli investigatori.
Quelli che, quantomeno canonicamente, dovrebbero essere il nostro punto fermo, un assodato e confortevole punto d’appoggio, dei veicoli razionali che, attraverso il loro intuito e le loro conoscenze, ci trasportano all’interno di trame torbide, sanguinose, inquietanti; ci appaiono oggi sempre più problematici, incerti, psicolabili, segnati da fulminei scatti di pura e semplice irrazionalità e dal dubbio, dal sospetto, dalla sfiducia nei confronti di sé stessi e di ciò che li circonda.
Semplificando: nella serialità maggiorenne e nella (post-)moderna e contemporanea produzione crime per la TV, ad essere sotto la canonica lente d’ingrandimento (di autori e pubblico), sono più i detective, con la loro moralità, il loro passato, le loro colpe, i loro fantasmi, i loro traumi e i loro tic, ma anche i temi, i motivi e le denunce - socio-politiche ed esistenziali - che irrimediabilmente portano con sé; che non i sospettati o i delinquenti in senso stretto.
L’ultimo arrivato, in questa galleria umana di “investigatori investigati”, è il detective Jeb Pyre, protagonista di In nome del cielo, serie FX/Hulu, adattamento del romanzo Under the Banner of Heaven: A Story of Violent Faith di Jon Krakauer, scritta ed ideata da Dustin Lance Black, già sceneggiatore premio Oscar di Milk, nonché fervido attivista LGBT, che, ad undici anni dalla fine di Big Love e dopo l’esperienza di 8: The Mormon Proposition, torna su uno dei temi a lui più cari e vicini, il mormonismo appunto. Egli è cresciuto infatti in una comunità di mormoni, da cui si è inevitabilmente e volontariamente allontanato, quando ha scelto di vivere la sua omosessualità allo scoperto e libero dalle contraddizioni, imposizioni, finanche dalle violenze di un contesto rigido e conservatore.
Un processo - quello di Black - di lenta presa di coscienza; di totale sovversione delle proprie credenze e dei principi del proprio credo e della propria chiesa, non poi così diverso da quello che attraverserà e sperimenterà, in prima persona, il personaggio interpretato da un Andrew Garfield in stato di grazia, misuratissimo, devoto ed espressivo, ossia un poliziotto mormone della cittadina di Salt Lake City (tuttora sede generale della chiesa LDS), nello stato dello Utah, che, nel 1984, si ritrova ad indagare, insieme al partner (non mormone, ma di origini indiane-paiute) Bill Taba (un piacevolissimo Gil Birmingham), sul brutale omicidio di una certa Brenda Wright Lafferty (una Daisy Edgar-Jones splendida), e della figlia Erica, di soli quindici mesi.
Indagini, che porteranno i due investigatori al dissotterramento di alcuni segreti indicibili legati al passato e al presente della famiglia mormone più influente ed importante dello stato e, specialmente Pyre, alla scoperta di orrende verità e rivelazioni scomode che non solo produrranno in lui una dolorosa crisi di fede, ma che, qualora divulgate, rischierebbero di travolgere in pieno la chiesa LDS ed insieme minarne la stabilità e l’apparente irreprensibilità.
In nome del cielo è dunque un crime atipico, ma anche un curioso, eppure non sempre riuscito ed ugualmente stimolante, esperimento di ibridazione e contaminazione di linguaggi, modalità e registri, a metà tra fiction e documentario.
Non c’è da stupirsi in tal senso (anzi, a dir il vero, è abbastanza palese già dalle premesse) se il caso in sé e per sé, così come tutta l'orchestrazione crime-thriller, si rivelano essere ben presto poco più che meri pretesti per condurre e dar il via, innanzitutto, ad un'osservazione e ad un'analisi - come già illustrato in apertura - della messa in discussione, della crisi, di una catabasi totale, travolgente, se non addirittura traumatica, del proprio protagonista e dei suoi principi teologici, morali ed esistenziali. E, di conseguenza, ad una problematizzazione, una mise en abyme, una riflessione profonda, talora provocatoria, altre volte quasi didattica, sui precetti, ma pure sui proverbiali “scheletri nell’armadio” di una religione - il mormonismo - nata, come tante, nel sangue, dalla menzogna, nella maggior parte dei casi, al solo fine di appagare i desideri egoistici (per non dire i bisogni sessuali) di uomini. Desideri, questi ultimi, spacciati poi per divini ed usati per giustificare perversioni, violenze e soprusi di ogni tipo, ma anche come fondamenta rituali di un ambiente sociale di fatto retrivo, profondamente fallocentrico, sessista, misogino, razzista, ma, soprattutto, dominato da un disarmante istinto di omertà e di un oscurantismo conveniente ed asservente.
In nome del cielo è allora un’esplorazione, un'inchiesta, una dissezione autoptica fatta però su un corpo vivo e pulsante (la religione mormone), che si aggiunge ed inserisce in quel filone, prevalentemente documentario e di derivazione true crime (le cui ultime iterazioni sono le netflixiane Omicidio tra i mormoni e Keep Sweet: pregare e obbedire), che cavalca il ritrovato interesse nel mondo e nella storia della chiesa LDS, andandone a disvelare i coni d’ombra.
Una schiera di prodotti quasi sempre incentrati (e la serie di Black non fa certo eccezione) sulle conseguenze di una fede, di un credo, di un dogma così forti, insiti ed esasperati, da diventare, nei casi più estremi, distruttivi e mortali, fanatismo folle, cieco fondamentalismo, nonché presupposti per atteggiamenti criminosi ed aggregazioni di fatto autarchiche, anti-governative, cultiste; dall’altro, un'obbedienza, soggezione e docilità coercitivi, angoscianti, punitivi, di segreti, benaltrismo e tacita ignoranza, che portano a considerare ogni iniziativa apostatica, ma anche il dubbio più minimo, pari ad un tradimento o, addirittura, alla morte della persona.
Diretta con controllo, compostezza ed eleganza ineccepibili da David Mackenzie, In nome del cielo è inoltre una serie che riesce a fare del dialogo, di una scrittura sempre dinamica e coinvolgente di vicende e personaggi - anche nei momenti più didascalici e pseudo-pedagogici di racconto e rievocazione di stampo documentaristico della storia della chiesa [dalla fondazione ad opera del predicatore e profeta Joseph Smith alle persecuzioni, fino ad arrivare alla successione profetica di Brigham Young, al recupero della poligamia quale pratica di restaurazione del modello matrimoniale patriarcale dei profeti dell'Antico testamento, alla creazione di Salt Lake City] -, così come della chimica tra gli interpreti di un ensemble su cui spiccano pure un perfetto Sam Worthington, a metà tra un Jack Torrance ed un Charles Manson meno sinistro, ma ugualmente inquietante ed efferato; ed un altrettanto azzeccato Wyatt Russell, il vettore eccelso ed eccellente di una tensione sotterranea, strisciante, invisibile, ma sempre presente e percepibile.
Tensione che, in alcuni momenti specifici, irrompe in scena con grande crudezza, sostenuta da una colonna sonora asfissiante e da un montaggio incontenibile ed indispensabile, alternato e concentrico, ipnotico ed altrettanto opprimente nel suo instancabile lavoro di messa in risonanza, rispecchiamento e continuità del passato e del presente della storia mormone. Che è anche la storia dei mormoni - da rileggere, oggi come nel 1984, secondo i fatti, non a caso principio fondamentale su cui si erige tutto il castello investigativo -, ma soprattutto una storia di famiglie in balia delle rivelazioni, delle scritture, delle parole, dei postulati, dei dogmi, del sangue, delle verità e di preghiere, canti e riti che, anche se ormai inefficaci ed impotenti, ci salvano dalla desolazione della nostra mente e dall’angoscia dei nostri pensieri. Ci ricordano casa. Ci ricordano, di nuovo, la nostra famiglia, che è insieme il miracolo più prodigioso e la maledizione più dolorosa che ci possa (o ci potesse) mai capitare.
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