TITOLO ORIGINALE: Nope
USCITA ITALIA: 11 agosto 2022
USCITA USA: 22 luglio 2022
REGIA: Jordan Peele
SCENEGGIATURA: Jordan Peele
GENERE: orrore, fantascienza, thriller
Il cinema - di riappropriazione, di rivendicazione, di dichiarazioni più o meno perspicue, ma sempre e comunque importanti, forti, intense, contingenti, necessarie - di Jordan Peele raggiunge la sua espressione più (registicamente) matura, stratificata, consapevole e complessiva con Nope, estrema conseguenza del grido lancinante ed urgente di Scappa - Get Out, qui declinato in una chiave più generale e collettiva. Peele utilizza, reinventa e riforma il western e la fantascienza - i due generi in cui fondamentale, per non dire indispensabile, è proprio l’elemento della prevaricazione, del predominio, della colonizzazione, del conflitto tra due parti impacificabili -, unendoli ad un thriller di chiara matrice spielberghiana, per raccontarci che, questa volta, i discriminati siamo tutti noi. Noi, scimmie ammaestrate da una macchina, da un’entità superiore, da un Dio(-denaro), da un Osservatore, da un’idea, da un sogno, da un cinema in cerca di qualcosa di sensazionale, eccezionale, fenomenale, che risucchia tutto e tutti indistintamente, che ci ingurgita, svuota, digerisce, espelle e rimpiazza con una facilità disarmante.
Quello di Jordan Peele è sempre stato un cinema di riappropriazione, di rivendicazione, di dichiarazioni più o meno perspicue - urlate a squarciagola, nascoste dietro visi e corpi ingessati, asserviti al volere, o all'incantesimo ipnotico, di qualcuno, oppure ancora nascoste sotto terra, in metri e metri di gallerie, teatro di oscuri segreti - ma sempre e comunque importanti, forti, intense, contingenti, necessarie…
Per esempio, la riappropriazione di tratti, attributi, caratteri, di una natura, di una storia e di una cultura che qualcuno vorrebbe estorcere e modificare secondo le proprie esigenze e mancanze. O la rivendicazione di un posto di primo piano, di rilievo, di dominio, di controllo, all’interno di un’industria, di un panorama, di un mondo che trafficano in immagini, rappresentazioni, immaginario, da parte di uno sguardo che vuole a tutti i costi riemergere dall’abisso (razzista) in cui è stato posto contro la sua volontà e periodicamente richiamato a forza. Ma anche il disvelamento di una verità scomoda ed enigmatica che ci chiama, chiama Noi, sul palcoscenico del mondo, per mostrarci ciò che siamo realmente, per porci di fronte al nostro riflesso, al nostro rimosso, alla nostra mostruosità ed orrendezza.
Questa continua prevaricazione tra due parti ben distinte, precise ed inevitabilmente complementari, è sostanzialmente il cinema di Jordan Peele, già stella della comicità statunitense con programmi di sketch come MadTV e Key & Peele, poi astro nascente - insieme ai quasi coetanei Robert Eggers e Ari Aster - del nuovo horror nordamericano d’autore, con Scappa - Get Out: una delle pellicole più importanti (storicamente, socialmente e cinematograficamente) del nuovo millennio, una delle sceneggiature migliori degli ultimi dieci anni ed uno degli esordi più deflagranti di tutti i tempi; e Noi, la logica continuazione e l’esplosione di dimensioni e conseguenze di quanto inaugurato in Get Out, un’opera senz’altro più ermetica ed ambiziosa, ma (quantomeno per chi scrive) meno riuscita e solida della predecessora.
Oltre a Keke Palmer e Brandon Perea, da segnalare l'ottima interpretazione sottrattiva di Daniel Kaluuya.
Un cinema ed un discorso che raggiungono la loro espressione più matura, stratificata, consapevole e complessiva con Nope, terzo atto che, non a caso, preferisce all’horror-thriller duri e puri dei due film precedenti - utili a sublimare e a figurativizzare, a metà tra Romero e Carpenter, la violenza, l’appropriazione e la prepotenza, “che sono la materia di cui è fatta l’America (e, di conseguenza, il cinema di Jordan Peele)”, per parafrasare Shakespeare - il western (classico) e la fantascienza. Ossia 1. i due generi hollywoodiani per antonomasia, e 2. le due tipologie di racconto in cui fondamentale, per non dire indispensabile, è proprio l’elemento della prevaricazione, del predominio, della colonizzazione, del conflitto tra uomo e natura, tra uomini appartenenti a due culture, mondi, universi, galassie diverse, quando non diametralmente impacificabili.
Due generi, il western e la fantascienza per l’appunto, che Peele, coadiuvato da un Hoyte van Hoytema (Interstellar, Dunkirk, Tenet, Oppenheimer) in stato di grazia, rielabora a suo modo, vincendo una delle vere sfide impossibili del fare cinema contemporaneo: essere originali, o quantomeno apparire tali. Chiari sono infatti i riferimenti che riecheggiano nel mondo di Nope, specie per uno spettatore più smaliziato. Riferimenti che, ciononostante, l'ex comico, come è solito dei grandi maestri o dei futuri tali, riesce a mascherare scaltramente, a combinare secondo soluzioni sempre interessanti, ad illuminare da una diversa prospettiva, riuscendo in quello che Jon Favreau, ai tempi di Cowboys & Aliens, aveva fallito maldestramente.
Non solo dunque ad unire indissolubilmente due filoni apparentemente prospicienti, ma, da un lato, ad aggiornare, spolverare e riformare un genere - il western - da molti ritenuto oggi impraticabile, spesso utilizzato in maniera sin troppo confortevole e del tutto ruffiana; dall’altro, un po’ come fece Villeneuve con Arrival, ad aprire a prospettive innovative, sconvolgenti, traumatizzanti ed intelligentissime, una delle dimensioni di racconto - la fantascienza - più sdoganate ed abusate del presente cinematografico.
Nope però è anche un thriller-horror, questa volta di chiara matrice spielberghiana (lo stesso Peele ha più volte citato Lo squalo come principale fonte di ispirazione del film, basti pensare alla “territorialità” e alle debolezze del predatore alieno misterioso, o al modo in cui il regista amministra ed organizza la tensione, tra indizi visivi e la seducente colonna sonora di Michael Abels), anche qui arricchito da un grande senso atmosferico e dal perfetto contrappunto di tensione e satira, di gravitas e dissacrazione, che ha sempre caratterizzato la comicità di Peele. Una comicità che, in questo terzo atto, risuona e fa risplendere specificatamente due personaggi. Ovvero la Emerald "Em" Haywood interpretata da una Keke Palmer esplosiva e l’Angel Torres di un delizioso Brandon Perea.
Ma Nope è anche, come sopra, l’opera più complessa e complessiva (ma, ahinoi, non per questo perfetta), la summa di sei anni attivissimi, tra regie, sceneggiature e produzioni (per il cinema e la TV), la massima sofisticazione di quell’urlo inequivocabile e perfettamente sincronizzato con lo zeitgeist, i terrori e i tremori della società americana, che era ed è ancora Scappa - Get Out. Ma anche il racconto più universale e, di conseguenza, l’attacco più feroce di Peele al sistema-America e al suo principale divulgatore e manager d’immagine e immaginario, ovvero l’industria del cinema e dello spettacolo.
Dopo la resurrezione di Matrix, Guillermo Del Toro e la sua (La) fiera delle illusioni e l’Elvis di Baz Luhrmann, il western sci-fi di Jordan Peele è perciò il quarto blockbuster a riflettere, in questo disincantato 2022, sull’abisso della finzione, a problematizzare l’essenza e lo stato di salute del cinema, a mettere alla luce i lati d’ombra di una fabbrica dei sogni, divenuta (in quasi totale diserzione degli spettatori) più che altro uno studio psicoanalitico, un set da disallestire, desacralizzare e spogliare (un po’ come fa il già citato Spielberg nel suo ultimo e magnifico West Side Story).
Questa volta, quindi, il grido di ribellione; questo bisogno di scappare e andarsene via da una condizione di sopravvivenza in cui si è immersi occhi e corpo, di sottrarsi al giogo soverchiatore, brutale, pseudo-schiavista, tirannico, annientante di qualcuno posto al di sopra, che decide quello che deve essere della persona, del suo corpo, del suo retaggio, delle sue scelte, del suo futuro, della sua vita, che omologa, attraverso una lente, un’occhio, una visione discriminatoria, tutto ciò che gli si para di fronte, come gli fa più comodo: in un mero mezzo (“qual è il tuo scopo?” si dice in Get Out), in un oggetto spettacolare, in un essere inferiore; è sì presente, ma è virato in chiave generale, collettiva.
Ad essere discriminati, in Nope, non sono infatti solo gli afroamericani. E, di conseguenza, a discriminare, non sono soltanto i bianchi neoliberal che “avrebbero votato Obama per la terza volta, se avessero potuto”, ma che ipocritamente non riescono a fare a meno di un pregresso socio-culturale che trova sempre e comunque il modo di uscire fuori e mostrarsi in tutta la sua ridicolaggine.
No, in Nope, i discriminati siamo tutti noi, scimmie ammaestrate da una macchina, da un’entità superiore, da un Dio(-denaro di cui ci fidiamo ciecamente, come scritto sul retro di una monetina da un cent), da un Osservatore, da un’idea, da un sogno, da un cinema in cerca di qualcosa di sensazionale, eccezionale, fenomenale, che risucchia tutto e tutti indistintamente, che ci ingurgita, svuota, digerisce, espelle e rimpiazza con una facilità disarmante.
Una citazione a E.T. di Steven Spielberg che Peele rovescia, quasi a dirci come oggi sia di fatto impossibile venire a patti con lo spettacolo.
Noi, scimmie kubrickiane che, nella maggior parte dei casi, credendo di compiere un atto politico, sovversivo, liberatorio, finiamo soltanto per assecondare i voleri retrivi, nostalgici e morbosi (curioso, a tal proposito, il Ricky "Jupe" Park di uno Steven Yeun in grande spolvero), per accontentarci, per essere complici, a nostra volta, del richiamo, dell’incantesimo ipnotico di questa entità avvolgente, perversa, perturbante, mefistofelica, quadrata, tagliente, definita e definitiva, soffocante, logica, stretta, ed infine comportarci esattamente come le bestie predate, ammaestrate e assoggettate che pensiamo comodamente di non essere. Il nostro destino, dunque, non è poi molto diverso da quello del geek di greshamiana memoria. Da una condizione esistenziale che riteniamo improbabile e verso cui ci illudiamo di essere distanti, fino a quando non ce ne sottomettiamo di nostra spontanea volontà.
E quindi? Come è possibile sottrarsi da questa dittatura dello sguardo centralizzato, da questa asfissiante società dello spettacolo, da questa discriminazione generalizzata e totale? Tornando a Lo squalo, “semplicemente” combattendo il nemico invisibile con le sue stesse armi e sul suo stesso campo di battaglia.
In altre parole, appropriandosi e riscrivendo a propria misura, in nome di una finzione che è connaturata a qualsiasi rappresentazione esistente (anche la più “reale”), la propria storia, le proprie discendenze, le proprie legittimazioni. Utilizzando gli stessi rudimenti di questa perversione spettacolare, dunque facendo propria quell’attrazione alla base di tutti quegli esperimenti primitivi con la fotografia e le immagini in movimento, come il qui citato Animal Locomotion (1887) di Eadweard Muybridge. Certificando l’impossibile, rendendolo possibile, testimoniando qualcosa che esiste solo perché ripreso e filmato. Utilizzando i supporti analogici, quelli più materici, pratici, veri della pratica cinematografica, per catturare qualcosa di etereo, evanescente, sottilissimo, quasi incorporeo, sintetico (nella forma e nell’iconografia, l’alieno di Nope altro non è che una sintesi perfetta tra un cappello da cowboy e un disco volante, tra western e fantascienza), freddo ed inesorabile, bulimico ed incurante. Sussurrando, urlando, guardando, riprendendo, dicendo “no” e cominciando a vivere.
Usciremo cambiati da Nope? Il cinema ne uscirà cambiato? Nope sarà il nuovo o è già il nostro Prometeo? Forse è ancora presto per dirlo. Oppure basta (non) guardare in alto.
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