TITOLO ORIGINALE: Matrix Resurrections
USCITA ITALIA: 1 gennaio 2022
USCITA USA: 22 dicembre 2021
REGIA: Lana Wachowski
SCENEGGIATURA: Lana Wachowski, David Mitchell, Aleksandar Hemon
GENERE: azione, fantascienza
A distanza di diciotto anni dall'ultimo capitolo della trilogia che ha rivoluzionato per sempre la cinematografia occidentale, Lana Wachowski torna (solista) alle redini e nel mondo di Matrix, confezionando una pellicola che è ben più di un semplice sequel atto a sfruttare un effetto nostalgia sempre più dominante nell'odierno panorama blockbuster. Matrix Resurrections è uno stratificato, complesso e problematico film di Lana Wachowski (non di Matrix), con tutto ciò che, di positivo e negativo, ne consegue. Un paradosso imperfetto e (fin troppo) furbo che richiama la filosofia e i concetti nietzschiani di eterno ritorno e Oltreuomo, dando vita nel mentre ad una denuncia dell'industria dell'immaginario e ad un accorato tentativo di dedica e ricordo.
Scegliere è un’illusione. La binarietà è inutile, parziale e fittizia - sempre che per finzione non intendiamo una realtà basata sui ricordi, o viceversa. Lo yin e lo yang probabilmente sono sempre serviti giusto per vendere cianfrusaglie, chincaglieria e portafortuna. Matrix Resurrections di Lana Wachowski non fa (quasi) altro che ribadire questo concetto, quasi fosse un mantra.
Dunque, non stupisce (o forse dovrebbe) che, per comprenderlo al meglio, bisogni per prima cosa accettare l’idea di non trovarsi di fronte ad un puro e semplice quarto capitolo del celebre e pionieristico franchise intellectual action, creato, sempre scritto, diretto e salvaguardato dalle sorelle Wachowski. [Che, specialmente con il suo primo, tuttora graffiante, evocativo ed eccezionale capitolo, ha rivoluzionato il cinema action e/o fantascientifico e, alla stregua di tutte le grandi saghe o serie a lei precedenti, aperto un nuovo orizzonte (di imitazioni e tarocchi malfunzionanti, ma pure di ottimi proseliti) all’interno dell’industria hollywoodiana, segnando l’immaginario collettivo in modi tanto profondi da meritare un approfondimento a parte].
Anzi, bisognerebbe pensare a Resurrections come ad un qualcosa di ben più stratificato, complesso e problematico, che non ad un semplice blockbuster che punta tutto sull’effetto nostalgia 90s-centrico - come vuole la recente linea Warner -, al fine di racimolare qualche milione di dollari e magari dare il via ad un nuovo filone transmediale.
Ad ogni modo, dare per scontato (cosa non facile, sia chiaro) la natura così assurdamente contraddittoria di questo nuovo Matrix non basta. Per carpirne la vera essenza, bisogna infatti trovare risposta ad una o, meglio, a due domande strettamente collegate tra loro.
1. Perché, a dirigerlo, c'è solo Lana Wachowski? 2. Che fine ha fatto la sorella Lilly? La soluzione è semplice, ma non immediata, Comunque sia, non certo alla portata del pubblico a cui questo film si dovrebbe teoricamente rivolgere - un difetto (seppur extra-filmico) non poi così scontato.
Difatti, come recita la dedica in excipit, la pellicola è intitolata a Lynne Luckinbill e Ron Wachowski, rispettivamente madre e padre delle famose sorelle, morti poco prima dell'inizio delle riprese. “Il mio cervello - spiega Lana - ha sempre influenzato la mia immaginazione. Una notte stavo piangendo, non riuscivo a dormire e il mio cervello ha fatto esplodere tutta questa storia. Non potevo avere mia madre e mio padre, ma all'improvviso ho avuto Neo e Trinity, probabilmente i due personaggi più importanti della mia vita".
Ci troviamo quindi di fronte ad un’idea di cinema - quest’anno già brillantemente intrapresa da Sorrentino in È stata la mano di Dio - come superamento ed esorcizzazione figurata di un dolore recondito ed indicibile. Un dolore troppo lancinante per Lilly - che da subito ha preso le distanze perché sapeva che il progetto avrebbe “rivangato indesiderati fantasmi del passato” -, ma contingente ed inderogabile per Lana, che sceglie invece di firmare, con l’aiuto di David Mitchell ed Aleksandar Hemon, un racconto che fa del paradosso, del cortocircuito, dunque della circolarità, del déjà-vu, dell’infinito o, in termini nietzschiani dell’eterno ritorno (dei fantasmi del passato), dell’Oltreuomo, dicasi anche Eletto (o Eletti), la propria chiave di volta.
Tornano dunque sia Neo (un Keanu Reeves indolente e spaesato nella migliore - poiché più attuale - versione del personaggio: quella metamorfizzata in John Wick), sia Trinity (una Carrie-Anne Moss sicuramente più convincente e coinvolta del collega). Come sostiene però lo stesso Nietzsche, l’eterno ritorno dell’uguale consiste in una ripetizione incessante ed immutata, tuttavia conscia e consapevole, dell’esistenza di un Oltreuomo, fatta ovviamente di gioie e vittorie, ma anche e soprattutto di patimenti e sconfitte. Ecco perché (e non per una mera volontà nostalgica) Lana Wachowski decide di aprire questo Matrix Resurrections anzitutto con un semi-remake dell’iconica sequenza iniziale del primissimo capitolo, con l’unica eccezione che, questa volta, siamo (noi spettatori) e sono (loro personaggi) consapevoli che si tratta di una storia “che conosciamo bene”. Della storia da cui “tutto è partito”.
Sempre a questo stesso principio, si rifanno poi anche le prime apparizioni ed interazioni dei due protagonisti: narrativamente obliati, ma lo stesso manifesti ed espliciti nell’espressione di questo loro, doloroso, patito e affaticato “eterno ritorno cinematografico”. Basti pensare alle rughe sul viso della Moss, alle facce stanche e al look trasandato di Reeves, all’alienazione artificiosa che condiziona il quieto vivere di entrambi in Matrix, oppure ancora all’assurdità da commedia romantica con cui vengono messe in scena i loro scambi iniziali.
Neanche a dirlo, questa loro evidente insofferenza e lampante malessere - che la sceneggiatura giustifica con l’essenza da prigione filosofica (tra Platone e Cartesio) che ha sempre caratterizzato la realtà fittizia e detentiva di Matrix - non sarebbe però così viscerale ed intensa se non corrispondesse alla rappresentazione precisa e non filtrata di un’inquietudine e di un disagio propri ed originari della loro stessa "burattinaia".
Ecco allora sorgere il paradosso di cui sopra. Da un lato infatti, Matrix Resurrections possiamo: 1. Comprenderlo nel potere terapeutico dell’arte, nella possibilità per Lana di ricevere “conforto immediato” dal ritrovare, rivisitare e resuscitare nella finzione i genitori defunti, concentrando tutta la trama su di un un legame fortissimo ed inqualificabile. 2. Inquadrarlo come un proseguimento naturale di quel filone della propria filmografia, inaugurato dalla regista, assieme alla sorella, con Cloud Atlas e proseguito nella serie Netflix Sense8. Oppure ancora, 3. definirlo secondo l’idea di opera e di artificio quali contenitori non solo di ricordi, segni e sintomi di un passato più o meno lontano, di un’altra vita, di un altro sé, ma anche e specialmente di processi attuali e tracce dell’oggi (su tutte, il female empowerment); nell’unicità, serietà e purezza della propria storia e delle proprie emozioni, così come nell’importanza del come e del perché le si raccontano, concedono e sfruttano; insomma in un’integrazione dialettica del proprio vissuto e di una sensibilità positiva e propositiva.
D’altro canto invece, Matrix Resurrections recupera quella denuncia del sistema, quel nichilismo attivo, quello scontro politico e figurato contro uno sguardo patriarcale e normativo, da sempre principi cardine sia della mitologia di Matrix, sia dell’intera filmografia delle Wachowski.
Or dunque, riprendiamo in mano Nietzsche e il suo concetto di Oltreuomo quale essere che ha accettato la scoperta della "morte di Dio" e, con essa, l'inesistenza di un unico scopo, e che si è dunque liberato dalle catene e dai falsi valori etici e sociali. Concetto, quest’ultimo, che, come ci insegna la storia, è stato poi mutuato, travisato, banalizzato e strumentalizzato pretestuosamente da numerose dottrine politico-ideologiche.
Sebbene sia ovviamente necessario tracciare le dovute distanze e contestualizzazioni, se proprio vogliamo questa tendenza allo strumentalizzare concetti, idee, mondi, storie - spesso banalizzandoli e tradendone l’essenza - è la stessa che, oggi come oggi, guida molte grandi major: a loro modo, nuove dottrine politico-ideologiche adatte ad un’umanità a cui importa soltanto il mondo della finzione; nel rifacimento, rilancio, espansione (e seguente capitalizzazione) delle loro proprietà intellettuali.
Lana Wachowski decide allora di fare del proprio Resurrections un gigantesco, ma coerentemente finto e finzionale dito medio, innanzitutto nei riguardi di una Warner Bros. che, tempo addietro, aveva seriamente considerato di produrre un nuovo capitolo della serie senza coinvolgere le sorelle, ma anche e soprattutto rispetto a tutti i tipi di industria dell’immaginario. Quest'ultima è il vero Matrix della contemporaneità. Una prigione per uomini che non cercano e non sono interessati al reale, alla vera originalità - che non è sinonimo di freschezza, quanto piuttosto di vitalità, emotività e amore. Ma anche un sistema che ricicla incessantemente le stesse storie per mero spirito capitalistico, soddisfando così le esigenze di un pubblico alla ricerca spasmodica di disperazione e speranza - “che hanno un codice identico”.
Tutto questo, Wachowski lo porta avanti in modo brillante, ironico, irresistibile ed intellettualmente stimolante nei primi quaranta minuti del film: una seduta psicanalitica allucinata, privata di tutto il mistero e l'ambiguità possibili, talmente piena di grandi intuizioni critico-satiriche che, a tratti, ci dispiace che poi si ritorni sui propri passi.
Un po’ troppo a dire il vero. Se avesse infatti mantenuto il piglio della satira cinica, sprezzante e parodistica, reinventandosi, crescendo e accorciando una durata fin troppo ingente, Matrix Resurrections avrebbe potuto essere una pellicola sicuramente più pungente, meno furba e meglio equilibrata. Come da paradosso, la cineasta dimostra però di amare oltremodo i propri personaggi, il loro mondo, la loro e la propria storia per andargli contro fino in fondo e così realizzare pienamente le proprie provocazioni.
Al contrario, si opta per una storia prettamente action, in cui la carica polemica si riduce a reiterazioni degli stessi meccanismi ironici, verbosi ed insostenibili spiegoni, quando non ad un continuo e voluto disinnesco del filone e della sua tipica regia wachowskiana - che insieme al piglio filosofico, sono sempre stati gli elementi che hanno reso iconico il primissimo Matrix.
L'azione (seppur volutamente banale) non colpisce dunque più di tanto, così come non convincono proprio i modi, talora eccessivamente puerili e facili, con cui si attacca un sistema già di suo abbastanza risibile. Non affascinano nemmeno le scelte di recasting (voluto e non) per Morpheus, qui interpretato da un Yahya Abdul-Mateen II farsesco e fascinoso, per l’agente Smith, a cui presta volto e corpo un Jonathan Groff purtroppo ancora legato - in termini di immaginario - al poliziotto esitante e modesto protagonista di Mindhunter, ma anche per il grande villain, L’Analista, un Neil Patrick Harris mattatore.
Insomma, il tutto si risolve in un'opera alla stregua di un peccato capitale. È un vero peccato infatti che, nonostante si muovano tutti i passi utili a fare di Resurrections un film di Lana Wachowski (e non di Matrix), si sia comunque ritrovati a mettere in scena il solito susseguirsi di sparatorie, inseguimenti ed esplosioni che ammazza letteralmente le avvincenti ed insolite premesse poste a monte.
Una scelta, quest'ultima, che la regista potrà far rientrare paradossalmente sotto l’ombrello della critica che stimola e muove. (Stiamo parlando infatti di uno dei pochi casi in cui i difetti imputabili alla pellicola corrispondono chirurgicamente allo stesso contenuto della denuncia che questa ribadisce e centra in molteplici occasioni.) Tuttavia, un conto è giustificarsi, un altro è essere densi ed equilibrati. Purtroppo, Matrix Resurrections fa bene solo una di queste due cose.
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