TITOLO ORIGINALE: Space Jam: A New Legacy
USCITA ITALIA: 23 settembre 2021
USCITA USA: 16 luglio 2021
REGIA: Malcolm D. Lee
SCENEGGIATURA: Juel Taylor, Tony Rettenmaier, Keenan Coogler, Terence Nance, Jesse Gordon, Celeste Ballard
GENERE: commedia, fantastico, avventura, sportivo, animazione
A distanza di 25 anni dall'uscita di Space Jam di Joe Pytka, Malcolm D. Lee firma un sequel che, oltre ad essere una prevedibile, seppur più tenue, celebrazione del cestista LeBron James in tutte le sfaccettature della sua vita e carriera, non è che una copia carbone del film originale, solo con qualche aggiustamento utile a non definirlo un plagio. Questi cambiamenti sono però l’unica “innovazione” (se di innovativo vogliamo parlare) da parte di un testo che, non solo è congelato negli anni ‘90, ma che porta quel discorso di auto-glorificazione e autoreferenzialità su tutt’altro livello. Space Jam: New Legends è la quintessenza in negativo della nostalgia e della citazione (quella fine a sé stessa), una continua dimostrazione della potenza di mercato della Warner Bros., un film a prova di Fortnite che vive solo ed esclusivamente di luce riflessa, fuori tempo ed obsoleto come i lunatici cartoni che tenta invano di riportare in auge.
È tutto gente! Così dicevano (inevitabilmente, come in ogni prodotto loro associato) i Looney Tunes alla fine di Space Jam (1996) di Joe Pytka, pellicola divenuta manifesto ed icona di un’intera generazione, di una precisa dimensione socio-culturale, quando non di un intero decennio. Aspetto, quest’ultimo, che, oltre a definirlo in quanto cult movie anni '90 per eccellenza, costituisce forse il suo maggiore, per non dire unico pregio.
Rivisto oggi infatti, a ben 25 anni di distanza, l’opera di Joe Pytka - tolto il fatto di essere un enorme spot pubblicitario, ma soprattutto un’autocelebrazione fastidiosa, tanto del personaggio-mito di Michael Jordan (seppur socio-culturalmente coerente ed interessante), quanto del meraviglioso parco personaggi “di proprietà esclusiva della Warner Bros.”, come ci tiene a sottolineare scherzosamente Daffy Duck in uno dei pochi momenti veramente e tuttora divertenti del film - è un assoluto pasticcio, specie in termini prettamente tecnici.
Tra un Michael Jordan, la cui recitazione (se di recitazione possiamo parlare) raggiunge forse il culmine della propria mediocrità in tutte quelle sequenze in cui l’atleta guarda da tutt’altra parte rispetto alla posizione di Bugs Bunny & co., oppure nei vari reaction shot che contribuiscono ad una generale atmosfera di inquietante alienazione; una scrittura estremamente scialba e pretestuosa, e la benché minima concordanza tra gli elementi concreti e reali e quelli invece astratti ed animati, Space Jam è un film, sì, graziato dalla nostalgia (al punto che pochi riescono ad ammetterne la mediocrità), ma oggettivamente dozzinale, specialmente se lo si confronta con il magnifico Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, di ben otto anni prima.
Purtroppo per noi (o per chiunque riesca ad andare oltre la superficialità affabulatoria di un’opera qualsiasi), non “è tutto (gente)”. Neanche per sogno. Difatti, precisamente 25 anni dopo l’uscita del cult di Pytka, la Tune Squad torna nelle sale con Space Jam: New Legends (in originale, A New Legacy), in cui, a vestire (meglio, a nostro avviso) le scarpe (questa volta, rigorosamente firmate Nike) di Michael Jordan, troviamo il suo “corrispettivo” odierno: LeBron James, ad oggi, terzo miglior marcatore della storia NBA e medaglia d’oro a Pechino 2008 e Londra 2012, giusto per citare qualche dettaglio della sua sterminata biografia.
Nonostante Space Jam: New Legends sia prevedibilmente una spropositata celebrazione del cestista in tutte le sue varie sfaccettature (come uomo, atleta e padre), oltre che una copia carbone dell’originale - solo con qualche aggiustamento utile a non definirlo un plagio -, quello presentatoci da Malcolm D. Lee (un mestierante senza fronzoli) è un LeBron che nasce e ci viene mostrato, almeno inizialmente, come un perdente, che, incitato dal coach, si è impegnato per diventare ciò che è ora. Infatti, a differenza di Michael Jordan - che, nel flashback sulla sua infanzia che apriva il film del ‘96, non mancava un cesto ed era certo del proprio futuro -, qui, LeBron il tiro lo sbaglia e l’istanza narrante tenta, a modo suo, di gettare un’ombra sulla sua infanzia, tra un'innocua indecisione sul futuro ed una madre troppo impegnata con il lavoro per seguire il figlio nella sua passione per il basket (anche se l’epifania che lo coglie prendendo in mano un Game Boy per la prima volta, qualche dubbio lo instilla).
Peccato però che, se, in questa simil rielaborazione della figura del protagonista, la pellicola di Malcolm D. Lee pare volersi emancipare rispetto alla predecessora, introducendo insieme un paio di spunti riflessivi meta-cinematografici (o, meglio, meta-industriali), come la possibilità che in futuro saranno gli algoritmi a fare i film, o l’idea che prossimamente gli attori verranno soppiantati da loro cloni in CGI (una realtà che, grazie anche al fenomeno del deepfake, è ormai sempre più verosimile); e proponendo qualche linea di dialogo esilarante e spiritosa il giusto, nonché assolutamente in linea con la comicità autoironica dell’originale appunto [su tutte, “quando gli atleti recitano, non va mai bene”], essa finisce viceversa per inciampare in difetti ben più consistenti.
Successivamente ad un prologo quasi da docufiction, in cui appunto seguiamo LeBron nella sua quotidianità, divisa tra figli, allenamenti ed impegni lavorativi. Impegni come quello che lo porta agli studios di Los Angeles della Warner Bros., la quale propone all’atleta di prender parte al lancio di un software progettato dal proprio algoritmo, Al-G Rhythmo (un Don Cheadle pure troppo convinto per il personaggio che è chiamato ad interpretare), tale Warner 3000, che gli permetterebbe di entrare a far parte dei prodotti di maggior successo della major.
Fiero sostenitore dell’artisticità ed umanità delle opere (o forse no), LeBron rifiuta l’offerta e, per tutta risposta, un indispettito Al-G Rhythmo - che con questo stratagemma desidera ottenere finalmente il rispetto che merita - rapisce lui e suo figlio Dom, intrappolandoli nel Server-Verso della Warner Bros., un mondo popolato da tutti i personaggi più o meno iconici dello studio, che egli comanda con pugno di ferro. Tra questi, troviamo (manco a dirlo) proprio i Looney Tunes, a cui LeBron dovrà chiedere aiuto, quando Al-G Rhythmo lo sfiderà ad un partita di basket per salvare il figlio, il quale, seppur prigioniero, trova nel cattivone una figura paterna che, a differenza del padre biologico, comprende la sua passione per i videogiochi e la loro programmazione.
Pertanto, in Space Jam: New Legends non sono più i Looney Tunes (fa ridere il fatto che sulle prime il loro mondo, il Looneymondo, sia desolato e in rovina: una perfetta cartolina dell’attuale stato di salute del loro brand) a chiedere aiuto ad una star NBA per salvare il loro mondo, bensì la stessa star NBA che si appella ai cartoni animati per salvare il proprio, di mondo (suo figlio appunto). Un cambiamento abbastanza impercettibile (e neppure così consistente nel nostro giudizio finale del film) che, pur risultando coerente con l’approccio più “umano” e “fallibile” della sceneggiatura (scritta a dodici mani, tra cui risultano anche quelle di Ryan Coogler, qui impegnato pure come produttore) e della scrittura del personaggio di LeBron, è probabilmente l’unica “innovazione” (se di innovativo vogliamo parlare) da parte di un testo che, non solo è congelato negli anni ‘90, ma che porta quel discorso di auto-glorificazione e autoreferenzialità su tutt’altro livello. Il che non è certo un bene.
Quello che abbiamo, avete e avrete il piacere di vedere è quindi un film che fa racconto a partire dalla citazione. Citazione riferita (dobbiamo proprio dirlo?) allo smisurato parco titoli dello “studio che ha creato tutti i classici”, tanto per chiarire il livello di masturbazione della pellicola.
Batman (della serie televisiva con Adam West e del film di Tim Burton, con tema di Elfman annesso), Superman (di Richard Donner, con allegato arrangiamento di Williams), la Justice League (quella animata di film e serie televisive originali, dei quali si riprende anche lo stile di animazione), Il Mago di Oz, Joker (di Todd Phillips), IT, Scooby-Doo, Flinstones, Harry Potter (con tanto di LeBron Tassorosso), The Mask, Matrix (di cui il film fa una sorta di greatest hits), Gremlins, Arancia Meccanica, Il gigante di ferro, King Kong, Game of Thrones, il recente Wonder Woman 1984 (a cui si ricollega la origin story di una Lola Bunny amazzone, quindi emancipata e forte, non più mero oggetto sessuale e sessualizzato), Mad Max: Fury Road (di cui la pellicola prende direttamente un’intera sequenza, a cui aggiunge un LeBron animato e i Looney Tunes), fino ad arrivare a Casablanca, Austin Powers, Rick & Morty e I diavoli di Ken Russell (cosa?).
Space Jam: New Legends è la quintessenza in negativo della nostalgia e della citazione (quella fine a sé stessa). Un’operazione che potrebbe ricordare quella di Spielberg in Ready Player One (con cui non c’è neanche paragone), ma che è molto più simile ad una perversione di Free Guy. Una continua dimostrazione della potenza di mercato della Warner (poi, quasi mai sfruttata a dovere dalla major, vista la qualità di gran parte dei suoi ultimi prodotti) che piacerà ai capoccia dell’azienda, ma a pochi altri, dal momento che, in termini prettamente cinematografici, tutto ciò non è altro che un ridondante, insignificante (nella messa in scena), facile e pretestuoso circo che potrà, sì, strappare una risata, ma che scompare dalla mente del pubblico nel giro di qualche secondo.
Considerato anche quello che coabita e segue questa follia autoreferenziale (il cui unico momento degno di nota è forse la sequenza animata ambientata nel Looneymondo): dunque, battute che lasciano il tempo che trovano e gag fisiche antiquate, il cui unico effetto è mettere in mostra tutti e 91 gli anni dei Looney Tunes e i 25 del film originale, ma anche una modellazione realistica in CGI degli stessi Tunes - alla stregua di Detective Pikachu e Sonic - che annulla completamente la loro carica umoristica ed espressiva, una durata fin troppo consistente e mal giustificata da una partita interminabile, scandita da una telecronaca irritante, in cui è più interessante quello che succede o, meglio, ciò che è presente negli spalti, piuttosto che l’azione in campo - salvo poi scoprirne la generale pochezza realizzativa (a momenti, sono quasi meglio i cosplay di fiere e convention) -, svarioni di montaggio, il racconto di un malandato rapporto padre-figlio che arriva dritto dritto dagli anni ‘90, ed una retorica smaniosa e svenevole che, di quegli stessi anni ‘90, rappresenta forse il peggio; non è allora sbagliato giudicare Space Jam: New Legends per quello che, in fin dei conti, è. Ovvero un film a prova di Fortnite che vive solo ed esclusivamente di luce riflessa, fuori tempo ed obsoleto come i lunatici cartoni che tenta invano di riportare in auge.
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