TITOLO ORIGINALE: A Clockwork Orange
USCITA ITALIA: 7 settembre 1972
USCITA USA: dicembre 1971
REGIA: Stanley Kubrick
SCENEGGIATURA: Stanley Kubrick
GENERE: grottesco, drammatico, fantascienza
Con il(la) suo(a) nono(a) film(sinfonia), Stanley Kubrick dirige e produce l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo distopico di Anthony Burgess. Focalizzandosi sull’iconica figura di Alex DeLarge, il regista conduce una riflessione ed un’indagine sulla strumentalizzazione, ipocrisia e condizionamento della politica, sulla violenza, sul crimine, sulla libertà, sulla morale e sulla crescita, arricchendo e completando il tutto con una regia calibrata che ha fatto scuola, un’estetica originalissima ed irripetibile, una colonna sonora storica e maestosa ed interpretazioni immedesimate e memorabili. Tra i migliori film di tutti i tempi, forte di quattro candidature all’Oscar e praticamente esente da difetti, Arancia Meccanica provoca, emoziona e suscita scalpore ancora oggi, a quasi cinquant’anni dall’uscita originale
A tre anni dall’uscita nelle sale del rivoluzionario e mastodontico 2001: Odissea nello spazio (1968, ndr), Stanley Kubrick produce e dirige il suo nono film, destinato a diventare iconico praticamente allo stesso livello del predecessore. La pellicola con, come protagonista, l’allora semi-sconosciuto Malcolm McDowell solca gli schermi americani nel dicembre del 1971. Tuttavia, l’accoglienza di pubblico e critica è così al di sotto delle aspettative di regista e produzione che si decide di ritirarlo dalle sale. L’opera verrà poi ripresentata il mese successivo, prima al pubblico britannico, poi nuovamente a quello statunitense, ottenendo un grande successo (26 milioni di incasso, contro i due di budget), ma generando anche numerose critiche e divieti. In Italia, dovremmo attendere la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia e il settembre 1972 per poterlo finalmente ammirare in tutta la sua grandezza. Già dall’insolito titolo (un’espressione tipicamente londinese proveniente dal dialetto cockney) e dai poster promozionali originali che recitano “Le avventure di un giovane i cui principali interessi sono lo stupro, l’ultra-violenza e Beethoven“, Arancia Meccanica incuriosisce l’attenzione dello spettatore e suggerisce la rivoluzione che avrebbe portato nel panorama e nella storia del cinema, una volta uscito. Nonostante la sua brutalità e durezza, lo slogan sopracitato riassume perfettamente il soggetto del nono film del maestro Stanley Kubrick. La pellicola segue le gesta e le malefatte che il giovane Alexander DeLarge, figlio di operai spavaldo, eccentrico ed anti-sociale, compie insieme ai suoi Drughi (Pete, Dim e Georgie). I quattro si muovono in una Londra metropolitana di un futuro distopico in cui non vigono più legge ed ordine, poiché rimpiazzate da una criminalità efferata e brutale, furti, stupri ed omicidi – compiuti per lo più da ragazzi come il nostro Alex. Il giovane e i suoi Drughi non vanno a scuola, sono anarchici e pittoreschi, soprattutto dal punto di vista del look e del vestiario, ma anche della comunicazione e degli atteggiamenti – essi parlano infatti il nadsat – lingua inventata che mischia l’inglese con termini mutuati dalla lingua russa ed altri inventati di sana pianta dai personaggi. I quattro passano la maggior parte delle loro giornate al Korova Milk Bar, “latteria” nel cuore della cittadina londinese, vero e proprio punto di ritrovo della gang, in cui è possibile bere il famigerato lattepiù (latte migliorato con mescalina ed altre droghe), bevanda che ricarica e disseta i nostri Drughi per poi compiere, a notte inoltrata, scorribande e crimini vari.
Oltre ai crimini, un’altra interessante ed insolita passione del nostro Alex è la musica; in particolare, quella classica di Beethoven (soprannominato e chiamato dal protagonista, il buon vecchio Ludwig Van) che egli relaziona e collega mentalmente con visioni di esplosioni, violenze, massacri ed orrore. Questa vita, fatta di crimini e Ludwig Van, purtroppo o per fortuna, è destinata a finire per il nostro caro Alex che, durante uno dei suoi soliti atti, viene tradito dai suoi Drughi ed arrestato dalla polizia, che lo condanna a 14 anni di carcere. Mentre sconta la sua pena, il giovane si interessa moltissimo alla lettura della Bibbia (di cui apprezza specialmente i numerosi passaggi violenti ed edonistici), ma viene anche a conoscenza dell’ultimo – ed apparentemente rivoluzionario – progetto del Ministero degli Interni britannico, il cosiddetto trattamento Ludovico – con cui il governo promette, previa sottoposizione alla sperimentazione, il rilascio immediato dell’internato dopo 14 giorni. Vedendo in questo trattamento una possibilità di uscire e sottrarsi alla dura vita delle carceri, Alex decide di proporsi, venendo infine scelto dal ministro in persona. Rispetto alle aspettative del giovane criminale, il programma si rivelerà essere però una vera e propria tortura che lo plasmerà completamente, rendendolo un perfetto e docile prodotto dell’establishment – nonché suo manifesto – senza alcuna possibilità di ribellione, scelta o decisione. Ispirandosi all’omonimo romanzo di Anthony Burgess, Kubrick costruisce ed imbastisce un’impalcatura filmica che ha veramente fatto storia. Il regista, come da tradizione (vedi 2001: Odissea nello spazio, Lolita, Il dottor Stranamore, Shining), prende la materia originale e la rivoluziona e rimaneggia in qualcosa di prettamente autoriale e personale. Tra le tante e famose opere che compongono la sua filmografia, Arancia Meccanica è sicuramente una delle più violente, provocatorie e dure. Nonostante siano passati quasi 50 anni dalla sua uscita originale, inoltre questa non sembra essere invecchiata di un solo giorno, risultando tuttora attuale, profonda e suggestiva.
La pellicola contiene la totalità dello stile, della tecnica registica e di ciò che si intende quando ci si riferisce all’espressione “cinema alla Kubrick“, composto, quest’ultimo, da un utilizzo preponderante del grandangolo (soprattutto nelle sequenze corali ed ampie, ma anche nei piani ravvicinati), dei carrelli (storico ed iconico la carrellata a precedere che apre la pellicola) e degli zoom. Questa perfezione ed equilibrio registico non è che potenziato e supportato da un ecosistema consapevole ed ispirato, caratterizzato, in particolar modo, da una composizione e da un montaggio sonoro ritmati e bilanciati, a dir poco notevoli. Attraverso primi piani espressivi e potentissimi, sequenze immortali, entrate di diritto nell’immaginario comune, uno studio ossessivo, geometrico e bilanciato dell’inquadratura ed un ritmo invasivo, frenetico, sostenuto, allo stesso tempo scellerato e dosato, Kubrick dà vita ad un balletto mortale, provocatorio, sfacciato, cadenzato ed eterno di violenza, politica, sfruttamento, sottomissione e riflessioni morali e filosofiche. Questa sensazione che Arancia Meccanica sia un balletto ed una estetizzazione – piuttosto che una rappresentazione volontariamente realistica – di temi e situazioni è data, in primo luogo, dalla presenza incontrastata e martellante della musica classica, che fa da accompagnamento, e non solo, alla quasi totalità delle sequenze del film. Dopo aver utilizzato Also sprach Zarathustra di Richard Strauss come tema principale e costitutivo della propria opera precedente – 2001: Odissea nello spazio -, in Arancia Meccanica, Kubrick si serve di compositori come Rossini e il già citato Ludwig Van Beethoven per enfatizzare ed elevare drasticamente la drammatizzazione delle sue costruzioni e visioni registiche (già di per sé emblematiche e perfette). Nonostante questa palese estetizzazione – consolidata, per l’appunto, da un’estetica volutamente kitsch e pop e profondamente stilizzata e sintetica, soprattutto per quanto riguarda gli interni -, il film non perde un centesimo del proprio tasso di provocazione ed attacco nei confronti dell’establishment, dei cosiddetti poteri forti, dei media, della ricerca del consenso, dell’ipocrisia dei governanti. Le malvagità dei quattro ragazzi, oltre ad essere potenziate dal ritmo della pellicola e della colonna sonora, sono inoltre determinate, nel loro significato e nella loro espressività, anche dalla stessa scenografia che, per quanto riguarda gli esterni, si presenta come degradata e composta quasi unicamente da cemento, immondizia e vandalismo. Perciò, i personaggi risultano essere legati indissolubilmente e definiti dall’ambiente che li circonda.
Oltre alla regia, Kubrick firma anche la sceneggiatura di Arancia Meccanica, apportando alcuni cambiamenti e variazioni ed eliminando alcuni dettagli e passaggi della materia d’origine, come la questione meta-narrativa del romanzo nel romanzo, rendendo il tutto, di conseguenza, molto più incisivo e scorrevole. Utilizzando come pretesto una rappresentazione voyeuristica delle malefatte di Alex e dei suoi Drughi, il film di Kubrick (così come il libro di Burgess) illustra allo spettatore una Londra (e, successivamente, un’Inghilterra) distopica, corrotta e piegata da violenze e crimini, grigia, insidiosa, oscura e rigidissima, che ha perso qualsiasi forma di bellezza e prestigio. Le uniche forme d’arte, come, per esempio, la musica, la scultura e la pittura, vengono travisate, private della propria bellezza o profondamente sessualizzate. La bellezza o positività viene strappata anche ad aspetti della vita e della società come la famiglia, la sessualità e la polizia. Su tutti, però, l’elemento che soffre maggiormente ed in maniera esemplare di questa privazione e cambiamento radicale di significato è sicuramente il latte (e il colore bianco). Simbolo di maternità, crescita, infanzia e legata al colore bianco – il colore della purezza e dell’innocenza -, la bevanda viene doppiamente legata a concetti come la violenza, la droga, l’esaltazione e la degenerazione (bianca è anche la divisa dei Drughi). Tuttavia, l’obiettivo principale del racconto di Kubrick non è soltanto la denuncia del gangsterismo giovanile e della violenza, ma anche una critica nei confronti della strumentalizzazione e del condizionamento, messi in atto dalla politica in senso lato (sia di destra che di sinistra; accomunate da una profonda sfiducia nella natura umana) per ottenere il consenso e comprarsi l’opinione pubblica (ignorante e cieca). Attraverso una rappresentazione enfatizzata – ma molto vicina alla realtà del tempo e non solo -, grottesca ed ipocrita dell’establishment, il cineasta porta avanti anche una riflessione e trattazione di un tema caro alla storia della filosofia: quello del libero arbitrio. Mediante una continua contrapposizione tra bestialità ed istinti umani e costruzione docile e pacifica, obbediente ed incatenata come quella della cura Ludovico; il regista dà adito e genera, nella mente dello spettatore, riflessioni e sentimenti discordanti. Cosa è più importante? Reprimere gli istinti, ciò che ci distingue come umani, sopprimere la nostra moralità e la nostra possibilità di scegliere, rendendoci quindi delle macchine, dei prodotti della politica; oppure lasciare che tutto ciò si manifesti, accada come ha sempre fatto, rischiando, però, un aumento o, comunque, una presenza costante di omicidi, furti, stupri, e via dicendo? Una possibile risposta, fornita al pubblico dallo stesso Kubrick – come dimostrato dalla sequenza della dimostrazione e tramite il personaggio del capo guardia -, è che questi istinti violenti e mortali sono insiti e costitutivi dell’essere umano; essi sono perciò praticamente impossibili da escludere e da reprimere totalmente.
Questa dialettica e riflessione è perfettamente inquadrata e personificata dal protagonista, Alex DeLarge, che, da padrone del proprio regno, con il proseguire della pellicola, vive una vera e propria caduta negli Inferi, divenendo, allo stesso tempo, esempio da non seguire e manifesto politico costruito e lampante. Questa caduta non farà che intensificarsi con il ritorno nella società e la propria durissima e dolorosissima redenzione (palese la similitudine con la parabola e la vita del Cristo; figura ricorrente all’interno del racconto). Questo percorso si conclude, tuttavia, con uno degli esiti e sorti migliori per il nostro Alex che, poco tempo dopo il reset dei condizionamenti, diventa parte integrante del sistema ed il fulcro d’interesse di stampa e media. Un’altra provocazione e denuncia mossa dal film è difatti quella rivolta ai mezzi di comunicazione odierni, in particolare ai giornali – miopi, di parte e strumentalizzati per fini meramente propagandistici dal partito in carica. Questo aspetto è messo in luce in modo chiaro e lampante dall’ultima sequenza, in cui, a seguito dell’accordo tra Alex ed il Segretario, un flusso di fotografi e giornalisti entrano nella stanza d’ospedale di Alex, pronti ad immortalare il momento e, ovviamente, lo scoop. Il tutto si chiude, però, con la visione di Alex riguardo alla sua nuova vita – molto simile a quella prima della cura – tra sesso, droga, musica, ma libera dalle angosce dovute alla legge e al sistema, poiché egli ora lavora per essi. Il successo e la memorabilità del film, oltre al nome produttivo e registico di Kubrick, sono dovuti in larga parte proprio al personaggio di Alex, caratterizzato perfettamente, ma interpretato ancora meglio da un iconico Malcolm McDowell. La sua prova attoriale – immedesimata, espressiva, inquietante, sopra le righe, ma anche profondamente drammatica – risulta, ancora oggi, estremamente efficace e credibile. Questa è rimasta impressa così tanto nell’immaginario collettivo da unire eternamente ed indissolubilmente attore e personaggio, condannando leggermente la carriera di McDowell (egli infatti ha recitato in pochissimi altri ruoli noti o, perlomeno, al livello di quello di Alex).
A completare il mosaico, una fotografia ispiratissima e particolarmente espressiva – focalizzata principalmente sul plasmare e lavorare sulla mimica degli attori -, curata dallo storico collaboratore di Kubrick, John Alcott (che lavorerà con il regista anche in Barry Lyndon del 1975 e Shining del 1980). Ma quindi, guardare Arancia Meccanica oggi – a distanza di quasi cinquant’anni – restituisce le sensazioni che avrebbe potuto provare uno spettatore nel 1971? Decisamente sì, il film di Kubrick, come affermato sopra, è ancora profondamente attuale e contestualizzabile nella nostra contemporaneità. Visto oggi, il lungometraggio continua a suscitare nello spettatore quello stesso livello di malessere fisico e mentale – doloroso, ma anche estremamente intrigante – che si poteva provare all’epoca della sua uscita nei cinema. Guardando Arancia Meccanica si ha come la sensazione di star visionando qualcosa di altamente proibito e quest’emozione si ripete anche alla quarta o, addirittura, decima visione. Ci si sente quasi sporchi nell’empatizzare con Alex e con la sua redenzione, nel provare gusto quando egli si prende la propria rivincita contro il governo. Probabilmente, questa volontà provocatoria ed urtante dell’opera, resa benissimo ed in modo efficace dal racconto di Kubrick (forse anche meglio che dal romanzo di Burgess), è ciò che rende Arancia Meccanica così affascinante e coinvolgente ad ogni visione. Molti sono gli aggettivi che si potrebbero utilizzare per descrivere l’importanza che la pellicola ricopre – e continuerà a ricoprire – nella storia del cinema. Ciò nonostante, più che attraverso le parole, per ricordarsi di quest’importanza, è bene vedere e rivedere, amare e riscoprire, Arancia Meccanica, capolavoro eterno ed immortale del grande Kubrick, così come immortale sarà per sempre il ghigno di Alex in apertura di questa Odissea… formato lattepiù.