TITOLO ORIGINALE: Elvis
USCITA ITALIA: 22 giugno 2022
USCITA USA: 24 giugno 2022
REGIA: Baz Luhrmann
SCENEGGIATURA: Baz Luhrmann, Sam Bromell, Craig Pearce, Jeremy Doner
GENERE: biografico, drammatico, musicale
Nove anni dopo Il grande Gatsby, Baz Luhrmann torna al cinema con la sua personale idea di biopic, raccontando la vita e l'opera di Elvis Presley, il Re del rock n' roll, una delle icone assolute e definitive della cultura pop, uno degli artisti più influenti e prolifici della storia della musica. Per farlo, egli si allontana dai tentativi celebrativi ed agrodolci del più fortunato Bohemian Rhapsody e del purtroppo dimenticato Rocketman, per suonare con forza una delle corde meno arpeggiate della vita e della carriera della rockstar, ovvero il rapporto pseudo-paterno, anomalo, particolare e senza dubbio dannoso con il suo manager, il misterioso ed inquietante colonnello Tom Parker. Elvis di Baz Luhrmann diventa così l’ennesima, ma peculiarissima rivisitazione del mito di Faust. Un film votato imprescindibilmente all'estremizzazione del discorso luhrmanniano, teorico e metatestuale, sull’artificio dello spettacolo, su un'illusione che diventa una prigione d’oro che toglie aria, respiro, vigore, su una dipendenza che non può che risolversi in una morte precoce.
Come si rappresenta il più grande spettacolo (spettacolare) della Terra? Semplice, lo si analizza, scompone, decostruisce pezzo per pezzo, lustrino per lustrino, effigie per effigie. O almeno, così è come lo mette in scena uno che, sullo spettacolo, sulla sua intrinseca illusione e sulla sua essenza ambigua, indecifrabile ed imprevedibile, ha costruito una filmografia intera, dimostrando inoltre una delle visioni e degli approcci al linguaggio cinematografico più esagerati, estremi, sovversivi, singolari, febbrili, eccitati e dirompenti che mai si siano visti e mai vedremo.
Alfiere della remix culture, pirata romantico del melodramma, cultore del musical, paladino del post-moderno: Baz Luhrmann sembrava (e si conferma, una volta finita la visione) come la scelta registica più azzeccata, forse l'unica possibile, per un biopic su Elvis Presley, per raccontare dunque “il più grande spettacolo della Terra”, il Re del rock n’ roll, una delle icone assolute e definitive della cultura pop, uno degli artisti più influenti e prolifici della storia della musica, un ragazzo cresciuto a pane e musica black (soprattutto quella di Arthur Crudup), assiduo frequentatore di Beale Street e dei suoi rifugi musicali (nei quali stringe legami con pesi massimi della musica afroamericana quali B.B. King, Little Richard, Big Mama Thornton), un vero sovvertitore che è riuscito ad intercettare e dare vita, anima e corpo a sensazioni, sentimenti, istinti repressi e soffocati da una società puritana, moralista e perbenista, stravolgendo dalle fondamenta il tessuto socio-culturale di un’intera nazionale e stimolando una prima ribellione giovanile che arriverà, unita all’opera e all’influenza di tante altre icone, sino ai movimenti contro culturali di fine anni ‘60.
D’altronde, Luhrmann presenta moltissimi punti di contatto e sintonia con il Re, a partire dagli epiteti che critici da un lato, e politicanti più o meno moderati dall’altro, hanno scritto, combinato, invocato, scagliato per demonizzare e demolire rispettivamente un’idea di cinema che non ha mai ammesso posizioni intermedie ed un immagine ed immaginario del tutto inconcepibili per la classe politica o la piccola e media borghesia statunitense (e non solo) di inizio anni ‘50; passando per l'incondizionato amore per la cultura black (che Luhrmann ha omaggiato in quel capolavoro di serie, purtroppo dimenticata, che è The Get Down), fino ad arrivare al loro essere fondamentalmente due “bambini strambi” ed incompresi, accomunati dal sogno di sfondare la “roccia dell’eternità” di marvelliana memoria e, un giorno, diventare qualcuno di importante all’interno di quel mondo iridato e siderale che era ed è tuttora(?) Hollywood.
Con Elvis, il cineasta australiano presenta la sua idea di film biografico, allontanandosi dai tentativi celebrativi ed agrodolci del più fortunato Bohemian Rhapsody e del purtroppo dimenticato Rocketman, per suonare con forza una delle corde meno arpeggiate della vita e della carriera della rockstar. Stiamo parlando del suo rapporto pseudo-paterno, anomalo, particolare e senza dubbio dannoso con il suo manager, il misterioso ed inquietante colonnello Tom Parker.
D’altra parte, è proprio lui: questo improbabile, eccentrico, pittoresco e disonesto imbonitore da circo, del quale nessuno conosce la vera identità, il passato, persino il vero nome, il cui destino si incrocia con quello di un giovane smilzo bianco che canta musica nera e si muove, indiavolato e posseduto dallo spirito (e dal superpotere) della musica, come i migliori predicatori gospel, che egli avrà poi il pregio, il vanto, la colpa di aver reso un mito, un’icona, oltre che una gallina dalle infinite uova d’oro; il narratore del film e il suo villain (di comodo), interpretato da un Tom Hanks che ricorda lo Steve Carrell di Foxcatcher, deformato e sformato da strati e chili di make up, che "rincontra" il Re ventotto anni dopo Forrest Gump.
Colui che, da buon imbonitore e affabulatore, riuscirà a convincere, corrompere, comprare e rivendere la rockstar in modi, formati, dimensioni e versioni diverse e tenterà, durante la visione, di traviare lo spettatore e il pubblico con il suo resoconto della storia, il suo spettacolo, la sua personale e duttile attrazione da circo.
Pertanto, così come La fiera delle illusioni prima di lui, il biopic di Luhrmann diventa l’ennesima rivisitazione del mito di Faust. In questo caso, è lo stesso Presley a vendere la propria anima ad un Tom Parker che egli percepisce come suo simile, confidente, amico, padre rassicurante, al fine di diventare ciò che ha sempre sognato, per scalare finalmente la tanto agognata "roccia dell’eternità"; a diventare - per rifarsi proprio al romanzo di William Lindsay Gresham e al recente adattamento di Del Toro - un geek che, nel nome della fama e di un posto nella storia, rinuncia alla felicità - sua e della propria famiglia -, alla libertà di essere e fare ciò che si vuole, ad una vita degna di essere definita tale, gioiosa, ricca, vissuta senza condizioni e vincoli.
Dunque, più che al lato rievocativo, ricostruttivo, elegiaco, istituzionale - che Luhrmann affronta ciononostante a rotta di collo, quasi rifacendosi al cinema di Michael Bay, sintonizzandosi e giocando con lo spirito e l’iconografia cristologica del proprio protagonista e rispolverando tutte le proprie ossessioni e i propri marchi di fabbrica (tra split screen, montaggio parallelo, la solita estetica kitsch e patinata, la passione per remix e mash-up, l’utilizzo di un linguaggio da videoclip, da trailer, da spot pubblicitario) in una sorta di risposta eversiva e beffarda al filone del cinecomics e del film supereroistico -, Elvis è votato imprescindibilmente alla prosecuzione ed all'estremizzazione del discorso luhrmanniano, teorico e metatestuale, sull’artificio dello spettacolo, su una (grande) illusione che, come ne Il grande Gatsby, diventa una prigione d’oro che toglie aria, respiro, vigore, dinamismo, vita tanto alla rockstar, quanto alla pellicola stessa, su una dipendenza (qui dall’amore per il proprio pubblico, dalla musica) che, al pari di Romeo + Giulietta o di Moulin Rouge!, non può che risolversi in una morte precoce.
Ed è bene parlare di estremizzazione, dal momento che Elvis Presley è, appunto, “il più grande spettacolo della Terra” (forse non quello di Baz Luhrmann). Il più grande artificio merceologico della storia culturale americana. La rappresentazione eccellente del capitalismo più sfrenato, sfrontato, vizioso, depravato. Una figura sfuggente, complessa, eterogenea. Un’immagine riproducibile in serie, scomponibile, frammentata, scompaginata e riassemblata, trasferita e trapiantata in base alla temperatura sociale, culturale e politica del paese, da spremere fino al midollo.
Un corpo mediatico, estetizzato, idealizzato, desiderato, ben riconoscibile, estremamente iconico ed iconografico, dietro cui si dissolve con facilità un Austin Butler mimetico, qui in un ruolo agonistico che lo ha già lanciato nel firmamento divistico.
Un personaggio, al contempo, così vero e così falso, che, “alla fine della giostra”, viene naturale chiedersi chi, o meglio, quale fosse il vero Elvis? Quello pelvico e dirompente, canino e arrabbiato, sensuale e sessuale di Hound Dog, Jailhouse Rock e Heartbreak Hotel? Quello romantico e sdolcinato di Can't Help Falling in Love e Love Me Tender? O quello più riflessivo e “riflettente” di Suspicious Minds (bisognerebbe ragionare sul reale significato di “Well, don’t you know I’m caught in a trap?/I can’t walk out/Because I love you too much, baby”)?
La risposta non può che essere una: tutti questi e nessuno di questi. Cosa che fa di Elvis il perfetto corpo (postmoderno) luhrmanniano, uguale a tutto, ma in fondo uguale a niente, che, in connivenza con la fantasmagoria ipertrofica e ruggente escogitata ed amplificata dal cineasta, confuta, disinnesca, sbugiarda, umilia il tentativo imbonitore di Tom Parker.
Un perfetto “pupazzo di carne” (Ilaria Feole) per un film tutt’altro che perfetto, che, passata la metà delle due ore e quaranta di durata, abbandona il ritmo vertiginoso ed inebriante e il piglio esilarante della prima parte e tira avanti quasi a fatica, alla stregua dell’Elvis degli anni ‘70 che mostra, riducendosi ad una banale ripetizione delle stesse situazioni, degli stessi dialoghi, degli stessi concetti.
Il fenomeno da baraccone, l’attrazione primordiale, inesplicabile, irripetibile e viscerale, l’affascinante frutto proibito, lo scintillante punto focale di una perversione peccaminosa, nociva, viziosa. Ovvero il guardare, il sentire, il percepire, il godere. Le fondamenta esoteriche dello spettacolo.
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