TITOLO ORIGINALE: West Side Story
USCITA ITALIA: 23 dicembre 2021
USCITA USA: 10 dicembre 2021
REGIA: Steven Spielberg
SCENEGGIATURA: Tony Kushner
GENERE: musicale, drammatico, sentimentale
Steven Spielberg esaudisce uno dei propri sogni nel cassetto, firmando il secondo adattamento di uno dei più bei musical della storia. Lo fa adottando un approccio più attuale e politicizzato, pessimistico, problematico e dirompente, tanto rispetto al corpus spielberghiano, quanto nei confronti di una nazione - gli Stati Uniti - che Spielberg, Tony Kushner in sceneggiatura e il direttore della fotografia Janusz Kamiński privano di tutta la sua pomposità e suadenza, optando per una via più desaturata, sbiadita, pallida, truce e deturpata. Un’incantevole Rachel Zegler come Maria, una ammaliante Ariana DeBose ed una commovente Rita Moreno primeggiano in una pellicola che, oltre ad essere un insolito ma inestimabile memorandum della possibilità di fare “cinema alto” parlando a tutti indistintamente, ma soprattutto prendendosi dei rischi, ricopre la funzione di faro di luminosa speranza per e all'interno di un'arte ed esercizio cinematografici ancora in grado di sorprendere.
Una palla da demolizione contro le fondamenta (poetiche ed ideologiche) di una filmografia, ancor prima che di una nazione intera. È forse questa la definizione più calzante che riusciamo ad escogitare per descrivere l’essenza più pura e profonda e chiarire le intenzioni alla base di West Side Story di Steven Spielberg, secondo adattamento del leggendario musical neo-shakespeariano scritto da Arthur Laurents, articolato da Stephen Sondheim e musicato da Leonard Bernstein, già trasposto, 60 anni fa or sono, da Jerome Robbins e Robert Wise nell’omonimo, magnifico, caleidoscopico, ovattato e pluripremiato [10 premi Oscar] cult con protagonisti Natalie Wood, Richard Beymer e Rita Moreno, che contribuì non solo a consolidare il successo in patria del testo di Laurents e Sondheim, ma anche a consacrarlo internazionalmente quale uno dei massimi esemplari del genere.
Soprassedendo sul soggetto generale del testo - fondamentalmente un Romeo e Giulietta metropolitano che sfrutta una tipica tragedia d’amore e la storia di due gang rivali, per tinteggiare una società ed un paese trasognati e frammentati, il cui fantomatico sogno inizia a vacillare -, è bene tracciare anzitutto una distinzione tra questa seconda incarnazione del musical e l’adattamento che ne trassero Robbins e Wise, specificando dunque come quella di Spielberg sia appunto una personale traduzione della pièce broadwayana e non un rifacimento propriamente detto della storica pellicola d’inizio anni ‘60.
In tal senso, basti pensare anche solo all’uso netto e limpido che lì si faceva del colore, raffinato da Saul Bass nell’incipit e poi arrangiato da Daniel L. Fapp, qui sgonfiato e privato invece di tutta la sua pomposità e suadenza da un Janusz Kamiński che opta per una desaturazione (quasi) totale, omogeneizzante e, innanzitutto, coerente con la strada discorsiva pessimistica, problematica e dirompente intrapresa dallo stesso Spielberg e da un Tony Kushner che torna alla sceneggiatura di un film del regista nove anni dopo l'imponente Lincoln, che, di West Side Story, è forse l'antitesi ideologica più disarmante.
In ogni caso, West Side Story di Steven Spielberg è una palla da demolizione. Di nome e di fatto. Lo è anzitutto - come sopra - nei confronti di una sensibilità collettiva che (magari sbagliando) ha sempre visto, inquadrato e letto Spielberg come uno dei registi più patriottici, integralisti, incantati e puritani (in senso buono) della sua generazione e non solo.
A dimostrazione di ciò, basti pensare a come si apre questo secondo West Side Story: laddove Robbins e Wise mostravano una città fiorente, operosa, moderna e splendente, Spielberg sceglie di inaugurare il proprio film con un lungo, magniloquente, ed insieme fosco e fumoso travelling su una serie di detriti e macerie, citando e riprendendo nel frattempo Quarto potere di Orson Welles - l’opera simbolo di un primo, sistemico, decadentista cinema statunitense che, in quest'ultimo West Side Story, trova l'accolito più recente, solo post-trumpiano e più collettivizzato.
Questo travelling incalza poi su quella che sembrerebbe essere una città vittima di bombardamenti e di una catastrofe di qualche tipo, arrivando ad inquadrare infine un cartello che segnala il distruttivo e veloce processo di demolizione e gentrificazione - precedenti alla costruzione del Lincoln Center - di un Upper West Side o, più generalmente, di una New York che sembra fuoriuscire da un qualsiasi romanzo distopico.
Un palcoscenico deturpato in continuo disallestimento, nel cui panorama urbano paiono regnare incontrastati calcinacci, polvere e ruggine, e i cui abitanti sono ormai alla stregua di ratti che affiorano da botole nel suolo, affacciandosi su una realtà - l’America - disgregata ed inafferrabile.
E no, non è come nel suo recente Ready Player One, dove le condizioni esistenziali degli esseri umani facevano parte di un contesto giocoso e divertito. Qui si sta parlando piuttosto di un’asprezza di indole quasi verista e di una crudezza mai vista nel cinema spielberghiano che soddisfano una visione a dir poco catastrofica che, ad una prima occhiata, potrebbe pure apparire contraddittoria rispetto all’idea che, di West Side Story, ci si è sempre fatti e all’anima musicale del progetto.
Componente musical che il regista - qui al suo primo approccio con il genere che sognava di trattare da una vita - riscopre nella sua accezione più realistica, sudoripara, muscolare e nervosa, pur riprendendo, tanto dall’opera originale, quanto dal film del 1961, alcuni degli elementi coreografici più effervescenti e dinamici da un lato, più delicati e leggiadri dall’altro, dando così forma ad un funambolico spettacolo puramente cinematografico. Ad una delle espressioni filmiche più virtuosistiche dell’anno. Ad un’opera a dir poco ineccepibile che scivola costantemente tra un impianto tecnico che "più classico di così non si può" ed un contenuto invece del tutto contemporaneo, stimolando lo spettatore più consapevole ed ammaliando viceversa quello più ignaro ed illuso [che - bisogna dirlo - è però pure quello che, questo film, lo sta purtroppo ma prevedibilmente disertando].
Al primo infatti, West Side Story offre un lavoro subliminale e sottile di reimmaginazione di molti momenti topici del racconto (vedi il primo ballo tra Tony e Maria o tutto il pezzo di Cool, oppure ancora Tonight, uno scontro tra gang che prende a piene mani da Arancia Meccanica), di reinvenzione del senso di alcuni brani (in una messa in scena che tende all’attualità, alla collettivizzazione e alla denuncia, America assume tutt’altra accezione, così come Somewhere, che il cineasta ricostruisce e ricontestualizza in una sequenza da pelle d’oca) e di ristrutturazione, ampliamento ed approfondimento, devoto ma non asservito, del continuum della vicenda, di una mitologia e di un immaginario nazionalpopolare che solo un gigante del cinema come Spielberg oserebbe mai profanare.Ma anche e soprattutto una dimostrazione di grandissima raffinatezza nelle numerose, splendide e splendenti intuizioni che la pellicola cela dietro le sue lugubri macerie. Tra queste, è d’obbligo citare senz'altro l’uso metatestuale di una Rita Moreno formidabile, trait d'union emotivo, ancor prima che cinematografico, tra classico e postmoderno, la quale calca nuovamente l’Upper West Side nei panni di Valentina, donna saggia e figura tutrice, narrativamente sostituiva del Doc di Ned Glass.
D’altro canto, per i secondi, West Side Story si propone come un approccio più attuale e politicizzato ad un’opera teoricamente convenzionalista, con tutto ciò che ne consegue. Vale a dire: un più marcato protagonismo ed una smaccata intraprendenza femminile, una perenne tensione omoerotica, una maggiore ed interessata evidenziazione del discorso linguistico, ma anche un razzismo, una xenofobia e sentimenti oclocratici meno velati, ciononostante mai retorici od artificiosi, oppure ancora un interessante lavoro sulla questione dell'identità di genere che attesta, ancora una volta, la modernità e l’anima progressista di un testo senza tempo.
Più concretamente, due meravigliose ore e trenta montate a regola d’arte da Michael Kahn, punteggiate dai meravigliosi costumi di Paul Tazewell e dalla fotografia di un già citato J. Kamiński - che riprende di nuovo Welles nell’uso del grandangolo e dà tutto sé stesso nei tagli di luce e nel lavoro con il chiaroscuro -, impreziosite dalle travolgenti musiche originali scritte da Leonard Bernstein (riadattate, per l’occasione, da David Newman), e costantemente ravvivate dalle grandissime interpretazioni di un cast, la cui unica, vera “star” è Ansel Elgort.
Nonostante le indiscutibili doti canore, egli però è forse l'ingranaggio meno oliato e convincente della perfetta macchina spielberghiana, un volto talora troppo pulito per risultare credibile nei panni di un Tony più “scavato” e maturo. Risplendono molto più e molto meglio un’incantevole Rachel Zegler come Maria, una ammaliante Ariana DeBose nel ruolo di Anita ed un sorprendente Mike Faist nei panni di Riff. Meno pregnante e seducente è, al contrario, la prova di David Alvarez, che, nel vestire i panni di un Bernardo più imponente ed intimidatorio, a differenza dei colleghi, non riesce a farci dimenticare l’interpretazione sinuosa di un carismatico George Chakiris.
D’altronde, a fare di questo film un qualcosa di unico ed irripetibile bastano anche solo la lucidità, il coraggio e l’impegno di un artista, ormai ultrasettantenne, disposto a tutto - finanche a confrontarsi con un’opera monumentale e scuotere e piegare le fondamenta della propria poetica - pur di ricordarci perché è stato ed è tuttora uno dei più grandi sguardi al servizio del cinema, al fine di dimostrare dunque che la propria visione e la propria arte contano ancora qualcosa in un panorama cinematografico in cui opere come West Side Story rappresentano delle preziose rarità; insoliti ma inestimabili memorandum che ci ricordano come sia possibile fare “cinema alto”, parlando a tutti indistintamente, ma soprattutto prendendosi dei rischi.
Benché i nostri protagonisti siano destinati ad essere e rimanere ombre in una città(?), un cinema(?), un paese(?) di macerie e detriti, sospesi tra siempre e nunca, avvolti e ghermiti da una cupezza - che si apre al colore e ad una luce salvifica, quasi divina nei momenti di maggior spiritualità emotiva - sino all’ultimissima inquadratura: inesorabile, (volutamente) rozza e fredda, ma comunque commossa; West Side Story non può certo esimersi dalla funzione di faro di luminosa speranza per e all'interno di un'arte ed esercizio cinematografici ancora in grado di sorprendere.
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