TITOLO ORIGINALE: The Black Phone
USCITA ITALIA: 23 giugno 2022
USCITA USA: 24 giugno 2022
REGIA: Scott Derrickson
SCENEGGIATURA: Scott Derrickson, C. Robert Cargill
GENERE: horror
Dopo la parentesi marvelliana di Doctor Strange, Scott Derrickson torna all'horror, il genere che ne ha segnato il debutto e formato lo sguardo, con Black Phone, il kinghiano adattamento di un racconto che non è di Stephen King, ma di suo figlio Joe Hill. Ethan Hawke, al suo primo contatto col lato oscuro della recitazione, interpreta il Rapace, un rapitore e serial killer di adolescenti ispirato a John Wayne Gacy, dando vita, in comunione con la geniale ed incisiva maschera “scomponibile” e “assemblabile”, ideata dal leggendario Tom Savini, insieme al sodale Jason Baker, ad una nuova, inquietantissima icona orrorifica. Quasi fosse il sacrificio di una Blumhouse mai così prolifica, Black Phone è una pellicola capace di destabilizzare e prendere alla sprovvista anche uno spettatore più navigato. Un’opera che, al contrario di gran parte della produzione horrorifica odierna, perlomeno presenta un guizzo registico ed estetico, un’idea di cinema. Un film che sa lavorare con l’iconologia, le immagini, il linguaggio, e che, malgrado non scelga sempre il modo più interessante per esprimerlo e svilupparlo, qualcosa da dire ce l’ha.
Ripetiamolo quattro volte, come fosse un sabba. Finalmente. Finalmente. Finalmente. Finalmente.
Quattro, infatti, sono le ragioni che ci spingono ad accogliere Black Phone con cotanti avverbi. Innanzitutto, perché si tratta del ritorno di Scott Derrickson - dopo la parentesi marvelliana di Doctor Strange - all’horror, il genere che ne ha segnato il debutto al lungometraggio (Hellraiser 5) e formato lo sguardo. Quello a cui ha regalato alcuni degli esponenti più lucidi e stimolanti (The Exorcism of Emily Rose, Sinister, Liberaci dal male). Un genere che, oggi come oggi, il più delle volte, si dimostra stanco, sembra assemblato in serie ed appare svuotato di qualsivoglia idea registica, personalità graffiante, o cifra peculiare che possano distinguere questo o quest’altro film dal panorama loro coevo.
In secundis, perché, con Black Phone, la Blumhouse ricomincia finalmente a produrre copioni horror degni di tale definizione, capaci oltretutto, così come nel caso de L'uomo invisibile di Leigh Whannell, di destabilizzare e prendere alla sprovvista anche uno spettatore più navigato. A discapito, speriamo, di stanchi adattamenti di Stephen King (Firestarter), di sequel che tradiscono totalmente l’energia, la tensione e il senso dei propri predecessori (Halloween Kills), di film che sciupano soggetti interessantissimi (La casa in fondo al lago), di esercizi di stile sgonfissimi (The Vigil), o ancora degli ennesimi capitoli di franchise che hanno perso da molto tempo la propria forza propulsiva e attrattiva nei confronti del pubblico, come La notte del giudizio e Paranormal Activity.
In tertiis, proprio parlando di Stephen King, con Black Phone ci troviamo di fronte ad uno dei migliori adattamenti kinghiani degli ultimi tempi. O meglio, ci troveremmo di fronte ad uno dei migliori adattamenti di King, se solo il racconto a cui si ispira il film di Derrickson non fosse opera di Joe Hill, che, del Re del Terrore, è il figlio (d’arte). “Buon sangue non mente”, d’altronde.
Dal canto loro, lo script e la messa in scena elegantissima, rigorosa, mai esagerata o ridicola, anzi misurata e armoniosa nella commistione di elementi reali e soprannaturali, si mostrano estremamente capaci e perspicaci nell’intercettare e far risaltare, in maniera essenziale e puntuale, il topos più riconoscibile, se non addirittura la principale ossessione di tutta l’opera kinghiana. Ossia l’idea che il vero orrore scaturisca e si annidi nel mondo degli adulti, con i suoi traumi, le sue nevrosi, i suoi turbamenti e complessi, le sue allucinazioni e paranoie. Un mondo che King trasfigura in mostri raccapriccianti, esseri striscianti o individui violenti e malati.
Ebbene, nel caso di Black Phone, la massima (e grottesca) rappresentazione di questo mondo è il Rapace, un rapitore e serial killer di adolescenti, un eterno “bambino cattivo”, ispirato - e neppure troppo velatamente - a John Wayne Gacy, il “Killer Clown”, colpevole di aver rapito, torturato, sodomizzato, ucciso e seppellito nelle fondamenta di casa 33 vittime, tutti adolescenti di sesso maschile. Del resto, è proprio nelle fattezze di un clown prestigiatore che il Rapace portato in scena da un imperdibile Ethan Hawke, avvicina le sue prede.
E lo stesso Hawke: qui al suo primo, vero contatto con il lato oscuro della recitazione (scordatevi Arthur Harrow), impegnato in un’interpretazione di corpo, occhi e bocca, in una prova che è una sintesi di altri horror maniac (tra cui anche il Kevin di Split); è l’elemento che, in comunione con la geniale ed incisiva maschera “scomponibile” e “assemblabile”, ideata dal leggendario Tom Savini, insieme al sodale Jason Baker, permette a Black Phone di regalare alla mitologia horror una nuova, inquietantissima icona.
Così come il mondo adulto che rappresenta, quello di fine anni ‘70, violento, ancora segnato irrimediabilmente dai fantasmi del Vietnam, il Rapace costringe e condanna le giovani generazioni (nello specifico, Finney e Gwen Shaw, interpretati rispettivamente da un intenso Mason Thames e da una convincente Madeleine McGraw, che ricordano, per certi versi, la simpatica coppia di fratelli protagonista di The Visit) ad un gioco sadico, ad un Vietnam intimo e personale, ed instrada il racconto co-scritto da Derrickson e C. Robert Cargill verso i lidi di un perverso percorso di formazione dalla conclusione, tuttavia, poco incisiva, ambigua (poiché) sospesa tra 1. una possibile rivincita nei confronti del modello precedente, quello vizioso e manesco dei padri, che finisce ciononostante per imporre un nuovo modello nato nel segno della violenza e del sangue, 2. una possibile consacrazione dell’ideale machista, virile, fallocentrico, che pone Black Phone in netta controtendenza con la recente decostruzione e problematizzazione dell’ideale maschilista, o, più semplicemente, 3. uno spensierato inno alla vita (adulta) che verrà, al futuro, ad una presa di coscienza riguardo a sé e alle proprie capacità, ad una maturazione, al sentore delle prime esperienze sessuali.
L’ultimo “finalmente”, quello più necessario per chi scrive, risiede nel pregio, dimostrato da Derrickson e soci, di non ricercare a tutti i costi quell’effetto nostalgia prescrittivo per la maggior parte delle produzioni hollywoodiane (e non) che oggi guardano al passato come ad un rifugio confortevole, quasi utopico. Gli anni ‘70 di Black Phone non sono il prodotto di una riesumazione massiccia degli idoli, dei simboli, dei pilastri socio-culturali di quell’epoca. Non sono il risultato di un uso insistito, elegiaco, forzato, a mò di jukebox, dei grandi successi discografici del tempo. Non sono nemmeno un dove e un quando del tutto sicuri.
Anzi, unitamente a quanto professato poco sopra, l'altro elemento decisivo per la riuscita del film è anche e soprattutto la sua atmosfera untuosa, affascinante, assolutamente invidiabile. Un’atmosfera che non sembra nemmeno essere l’esito di un lavoro scrupoloso di ricostruzione, ma che sembra piuttosto sprigionarsi dagli oggetti, dai luoghi, dai costumi, oltre che dalla fotografia di Brett Jutkiewicz (a suo modo, proverbiale nella scelta di una palette cromatica che rimanda fondamentalmente all’idea di una fotografia ingiallita dal tempo) e da una colonna sonora non originale tra le più particolari e ricercate del panorama contemporaneo. Basti pensare all’uso che si fa di On The Run dei Pink Floyd, una delle composizioni meno conosciute del gruppo inglese, che trova qui un utilizzo tensivo che pare del tutto naturale.
Quasi fosse il sacrificio di una Blumhouse mai così prolifica, Black Phone è una pellicola che riesce a rivisitare, lo squillo di un telefono, uno degli elementi orrorifici più abusati, ma lo stesso più efficaci, senza mai risultare triviale. E basta anche solo questo piccolo traguardo, oltre ai quattro “finalmente” presi in esame nel corso dell’articolo, per fare del film di Scott Derrickson non certo un horror perfetto, ma un’opera che, al contrario di gran parte della produzione odierna, perlomeno presenta un guizzo registico ed estetico, un’idea di cinema. Che sa lavorare con l’iconologia, con le immagini, con il linguaggio. Che, malgrado non scelga sempre il modo più interessante per esprimerlo e svilupparlo, qualcosa da dire ce l’ha.
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