TITOLO ORIGINALE: The Deep House
USCITA ITALIA: 5 agosto 2021
REGIA: Alexandre Bustillo, Julien Maury
SCENEGGIATURA: Alexandre Bustillo, Julien Maury
GENERE: orrore
Una coppia di youtuber che viaggia il mondo alla ricerca di luoghi abbandonati e lugubri da riprendere e postare in rete si immerge nelle profondità di un lago dell'Occitania per esplorare una casa completamente intatta, teatro di una vicenda oscura e macabra.
Alexandre Bustillo e Julien Maury, il duo registico francese, già autore del controverso À l'intérieur, dirige un horror senz’altro difettoso, ma ben al di sopra della media attuale che, come nella migliore tradizione del genere, non è altro che una parabola sul potere, sulla natura, sull’etica e sulla dialettica del cinema e del suo imprescindibile “utensile”, la macchina da presa. Nonostante un finale scialbo ed insipido, La casa in fondo al lago guida lo spettatore in un viaggio, dall'inaspettato senso dell'inquietudine, che si converte in un preziosa opportunità, per Bustillo e Maury, di trattare - seppur non sempre in maniera impeccabile - la necessità di (di)mostrazione, tipica dell'era dei social network, e la dialettica, di ovvio stampo meta cinematografico, tra quello che si può (e si deve) e ciò che viceversa non si può (o dovrebbe) mostrare.
Ogni thriller horror (e non solo) che si rispetti è quasi sempre una parabola sul potere, sulla natura, sull’etica e/o sulla dialettica del cinema e del suo imprescindibile “utensile”: la macchina da presa, il cineocchio, l’obiettivo (chiamatelo come volete). Occhio che si converte talora in un’estensione di quello del protagonista (e quindi di quello del regista), altre volte nell’oggetto e nel luogo di quella dialettica propria ed intrinseca del medium cinematografico, in un’ambigua nemesi ed ostacolatrice degli intenti del protagonista del racconto. Hitchcock, Antonioni, Powell (e il suo L’occhio che uccide), Argento, De Palma, Romanek: molti sono e sono stati i registi che hanno sfruttato un soggetto tipicamente thriller horror per condurre invece un discorso sullo sguardo, umano, artificiale o ibrido che sia.
E se, nell’ultimo anno, l’esempio più eclatante di “cinema che si psicanalizza” è stato La donna alla finestra di Joe Wright, sospeso tra un tentativo maldestro di remake e quella polverulenza tipica del thriller post-moderno, quello più inaspettatamente e positivamente sorprendente è, senz’ombra di dubbio, (per ora) La casa in fondo al lago del duo registico francese Alexandre Bustillo - Julien Maury, già autori di À l'intérieur, controverso horror, nonché loro primo lungometraggio, apripista per una nuova ondata di prodotti francesi prettamente orrorifici, tra cui Martyrs e La casa delle bambole.
Un titolo estremamente didascalico ed esplicativo, per una pellicola che viceversa fonda gran parte del proprio fascino e delle proprie risposte sull’ambigua immediatezza delle immagini forniteci da un occhio meccanico che, ad un certo punto, diventerà l’unica fonte di verità e di testimonianza.
La casa in fondo al lago non ha bisogno di grandi spiegoni o spiegazioni (ce ne sono, poiché d’uopo, ma non risultano mai eccessivi o fuori luogo), di dialoghi ricchi e ben scritti, di un racconto contenutisticamente inedito e sorprendente, bensì di una o più macchine da presa (e logicamente di una o più mani e di due o più occhi che le sappiano sfruttare al meglio), di due interpretazioni convincenti e vocalmente espressive (in questo, il doppiaggio italiano spesso soffoca l’atmosfera della pellicola) e di una scenografia suggestiva, effettisticamente verosimile e ben descritta, ed ottimamente (ri)costruita dall’istanza narrante. Elementi, questi ultimi, che il film di Bustillo e Maury adopera - certo, non in modo originale, quanto piuttosto consapevole ed interessante - per dar vita ad un horror senz’altro difettoso, ma ben al di sopra della media attuale.
Già solo nel modo in cui Bustillo e Maury introducono e caratterizzano i loro due protagonisti si rintraccia quanto sostenuto sopra riguardo alla predilezione per la comunicazione visiva. Difatti, in punta di piedi e in modo quasi impercettibile, la macchina da presa (rap)presenta e lascia lo spazio e il tempo giusti per permettere a Tina (Camille Rowe) e Ben (James Jagger) di chiarire allo spettatore - con un paio di sguardi attorialmente loquaci e dinamiche relazionali spontanee e dunque immediatamente comprensibili - chi sono, cosa fanno, perché lo fanno, cosa li accomuna e cosa invece li differenzia.
I due: lui, grande studioso di storia, oltre che il più audace e ambizioso, quando non sbruffone ed irriverente, del duo, vede la vita come un’inarrestabile brivido ed una corsa alla fama e al successo, lei, sua compagna di avventure non tanto per passione o personale appagamento, quanto più per amore, vorrebbe solamente sposarsi ed avere una vita semplice e ordinaria; sono una coppia di fidanzati e youtuber (aspetto, purtroppo, non approfondito al meglio) che viaggiano il mondo alla scoperta di luoghi abbandonati e lugubri da riprendere e postare in rete.
In questa loro inderogabile ricerca di location e scenografie sempre più segrete ed esclusive, si imbattono in una casa completamente intatta sul fondo di un lago dell'Occitania (a sud ovest della Francia) e decidono pertanto di immergersi con l’aiuto di un misterioso ed inquietante uomo del posto, tale Pierre. Giunti sul posto ed entrati nell’abitazione senza particolari intoppi, i videomaker scopriranno ben presto che, dietro quelle mura, si cela una verità più violenta e oscura di quanto avrebbero mai immaginato.
Dal momento che i protagonisti sono youtuber e che quindi hanno a che fare tutti i giorni con le immagini e con la loro creazione, Bustillo e Maury imbastiscono un film di mezzi e dispositivi, in cui grande rilievo viene accordato al racconto visivo e concettuale degli “attrezzi del mestiere” (nello specifico, di due due GoPro e un drone) - i quali diventano anche una delle principali istanze narranti - e alla descrizione, di ovvio stampo meta cinematografico, del rapporto indispensabile e talora evidentemente morboso che i due (in particolar modo, Ben) intrattengono con essi.
Da un lato quindi, La casa in fondo al lago non è che l’ultimo esemplare di quella lunga e disomogenea serie di prodotti, facenti parte del sottofilone noto come mockumentary (falso documentario) e/o found footage, che hanno invaso l’industria e il mercato cinematografici da Non aprite quella porta, Cannibal Holocaust, (e, in tempi relativamente recenti, da) Blair Witch, REC e Paranormal Activity in poi.
Difatti, è proprio da quest’ultimo che la pellicola e la sua messa in scena riprendono i lenti ed angoscianti movimenti di macchina e la meccanicità fredda, (spettatorialmente) spersonalizzante e complice del cineocchio nelle sue varie e possibili incarnazioni, talora portando il pubblico ad un livello di visione e all’adozione di un punto di vista superiore, quasi onnisciente, ma al contempo inerme ed indifeso. Incarnazione come, per esempio, un drone subacqueo, dal nome emblematico (una citazione a Powell: “Peeping Tom, gli piace guardare”), il cui LED rosso si tramuta in un occhio rosso-sangue che non solo osserva e registra, con evidente voyeurismo, l’orrore che gli si para di fronte, ma sembra quasi prenderne parte in maniera attiva e cinica.
D'altra parte, la pellicola si avvale sia della professione dei due protagonisti, sia di questa varietà dei dispositivi di ripresa, per condurre, come spiegato in apertura d’articolo, una riflessione sul concetto di mostrazione. Importante diventa quindi ciò che si mostra e ciò che invece non si mostra (tanto in un video di YouTube, quanto in un film: in tal senso, le indicazioni e le considerazioni del vlogger coincidono perfettamente e plausibilmente con quelle del regista o di un regista... “i jumpscares fanno più like”). Ma diventa parimenti importante anche la distinzione e la dialettica tra quello che si può (e si deve) e ciò che viceversa non si può (o dovrebbe) mostrare.
La necessità di filmare e di sfruttare la realtà, per ricavarne profitto, per (ri)vivere direttamente od indirettamente un momento di massima adrenalina o semplicemente per affermarsi e dimostrare qualcosa - così come espressa, in primo luogo, dalla fame di visualizzazioni di Ben (rappresentativa di quella necessità mostrativa peculiare della cultura e del mondo dei social network), ma anche e soprattutto dalla silenziosa azione di invasione ed oppressione della quotidianità, del privato e dell’intimità della coppia, o, addirittura, di definizione del suo futuro (“facciamo un milione di visualizzazioni e ci sposiamo”), ad opera dell’obiettivo (e dell’occhio) dei diversi “attrezzi del mestiere” che i videomaker portano con sé - diventa dunque una sfera semantica imprescindibile dell’intreccio de La casa in fondo al lago.
Sempre in materia di mostrazione e di “filmare per (ri)vivere”, risulta invece ben più stantia ed inconsistente la visione del cinema come espressione più immediata e (graficamente e sensazionalmente) pedissequa di violenza e morte, ma anche e soprattutto come portale e letterale apertura verso la “salvezza”, intrapresa da un finale purtroppo scialbo ed insipido.
La pellicola di Bustillo e Maury non è però solo ed esclusivamente un film sulla mostrazione e sulla necessità o brama di trovare nuovi spazi di racconto (interessante, in tal senso, la commistione tra ghost story e thriller subacqueo) per mostrarli ad un pubblico; ma anche una vera e propria dimostrazione di capacità e consapevolezza nel comporre un film dell’orrore che nulla ha da invidiare ai pochi, validi esponenti hollywoodiani, riuscendo talvolta ad equipararsi - per ingegnosità, atmosfera ed escamotage - a cult come i già citati REC e Blair Witch.
La casa in fondo al lago diventa quindi un film che, a differenza di quanto pensa Ben, non sfrutta i jumpscares per fare “più like”, anzi fonda la propria natura di racconto di tensione - oltre che su quanto concernente i dispositivi e gli strumenti di ripresa - sulla composizione e sull’assemblaggio morfo-filmico di una “casa dell’orrore” dal passato affascinante (che sfortunatamente va in malora), sull’uso funzionale ed arbitrario delle varie fonti di luce e forme di illuminazione, sulla parziale credibilità di scenari, dinamiche e sviluppi e su una costruzione ritmica crescente e conscia delle proprie finalità affabulatorie.
Peccato appunto per un finale (ed una inutile sequenza post credit) non all’altezza dell’ora precedente, in cui questa necessità di mostrare, criticata e talvolta ridicolizzata dalla pellicola, finisce per pregiudicarne l’esito; in cui si vuole rivelare e si rivela un tutto che però non cambia le carte in tavola; in cui ci si conforma fin troppo con la linea, l’estetica e la filosofia statunitense (con cui il duo registico intrattiene continuamente un rapporto di amore ed odio). Insomma, in cui non è solo la casa a “fare acqua da tutte le parti”.
Ciò nonostante, se tolti dall’equazione questi dieci minuti conclusivi, La casa in fondo al lago si rivela un horror senza infamia e senza lode, con una grande sensibilità in fatto di atmosfera ed inquietudine, senza dubbio produttivamente ridotto ed irrisorio, ma grande e maiuscolo in molti dei suoi ingegnosi slanci. Un’opera imperfetta che tuttavia riesce ad immergere (in tutti i sensi) lo spettatore nella propria diegesi, ricordandoci, da un lato, quale sia l'ebbrezza e la vera sensazione nel vedere un film dell'orrore sul grande schermo, dall’altro facendoci nuovamente (e finalmente) dubitare di ciò che ci circonda. Sia esso nelle profondità di un lago nella Francia sud-occidentale o nell’oscurità di una sala cinematografica.
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