TITOLO ORIGINALE: Love, Victor
USCITA ITALIA: 23 febbraio 2021
USCITA USA: 17 giugno 2020
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: dramma adolescenziale, sentimentale
N. EPISODI: 10
DURATA MEDIA: 24-30 min
Victor Salazar è un ragazzo originario del Texas, figlio di una famiglia povera e conservatrice, confuso riguardo alla propria sessualità e alla propria identità, che si trasferisce ad Atlanta. Qui, viene a conoscenza della storia di Simon, ragazzo gay che, dopo una serie di difficoltà, è riuscito a fare coming out davanti ad amici e parenti. Incerto e titubante, Victor decide così di iniziare a scrivergli su Instagram e chiedergli alcuni consigli su quanto gli sta accadendo.
Love, Victor è lo spin-off televisivo nato sulla scia del successo del primo teen drama mainstream a tema omosessuale, Tuo, Simon. Un serial, quello appena conclusosi su Star (la sezione per adulti di Disney+), che sfrutta il medium televisivo e le sue possibilità di espansione narrativa, riprende le intuizioni della pellicola originale e apporta una serie di cambiamenti (la stessa caratterizzazione del protagonista: ispanico e di famiglia povera; è praticamente opposta) alla formula del suo predecessore, riuscendo così a superarlo e mostrandosi come un prodotto ancor più incisivo, complesso e completo. Unitamente a ciò, Love, Victor è probabilmente il teen drama (a dispetto dei vari Tredici e Sex Education) che meglio riesce ad incorporare quel canone hughesiano anni '80 nella gestione dei rapporti e lo scopo pedagogizzante, senza incorrere, anzi giocando con gli stereotipi e dando forma - finalmente - a figure genitoriali plausibili e complesse. Alcune perplessità riguardo ad alcune scelte editoriali, segno che, di serial come questo, vi è bisogno. E non poco.
"Sono gay". Quanta fatica, quante incertezze, quanti timori, quante difficoltà per pronunciare queste due singole e - almeno apparentemente - innocue parole. Il poeta americano T. S. Eliot riteneva che “quello che conta di più è il percorso del viaggio e non l’arrivo”. E quanto avrebbe ragione, se questo suo pensiero venisse applicato al viaggio (dell’eroe, per rimanere nell’ambito del racconto per immagini) di un teenager come tanti altri, alla ricerca di sé stesso, della propria interiorità e della propria identità sessuale.
Nel 2018, ad esplorare uno dei tanti, possibili percorsi che portano un adolescente a fare coming out - e trasformare così un pensiero, un qualcosa di intrinseco ed ermeticamente difeso in quella fantomatica formula che, pur essendo composta da due parole come tante altre, porta con sé una miriade di sensi, significati e pregressi - ci aveva pensato Tuo, Simon, coming of age/teen drama, nonché trasposizione (per il cinema) del romanzo Non so chi sei, ma io sono qui di Becky Albertalli.
A suo tempo, nonostante partisse da basi, modelli e forme già assodate (soprattutto nel panorama televisivo), la pellicola colpì indistintamente critica e pubblico per la sua sensibilità e il suo tatto nell’affrontare, per l’appunto, il viaggio di self-consciousness e coming out di un giovane, Simon, che all’oscuro di tutto e di tutti inizia ad intrattenere un rapporto epistolare con un interlocutore dall’identità ignota (con cui poi corona pubblicamente il suo sogno d’amore). Citando Gabriele Nola (e la sua recensione per BadTaste) - con cui chi scrive si trova perfettamente d’accordo -, “Tuo, Simon è un film unico, la prima teen comedy romantica a tema omosessuale ad essere mainstream, pensata e prodotta per un largo pubblico e soprattutto scritta bene”.
Il successo dell’opera - diretta nientepopodimeno che da Greg Berlanti (noto produttore e showrunner televisivo, nato e formatosi in uno dei teen drama più emblematici ed universalmente riconosciuti: Dawson’s Creek) - fu così diffuso e manifesto che l’anno successivo si decise di dare il via alla produzione di una serie spin-off con personaggi completamente nuovi che, però, avrebbero dovuto muoversi ed interagire negli stessi luoghi diegetici e nello stesso mondo della pellicola originale.
A distanza di tre anni dall’uscita di Tuo, Simon (in originale, Love, Simon), ecco quindi che fa la sua comparsa su Star, la sezione “per adulti” di Disney+ (in America, sull’equivalente Hulu), Love, Victor. Che introietta sapientemente i pregi e le intuizioni del predecessore per emanciparsi e, in certi frangenti, addirittura superarlo.
Il serial vede come protagonista Victor Salazar (Michael Cimino), ragazzo ispanico dolce e premuroso ma impacciato e (soprattutto) incerto riguardo alla propria eterosessualità, proveniente da una famiglia (è il maggiore di tre fratelli) estremamente religiosa e conservatrice originaria del Texas; che si trasferisce ad Atlanta e inizia a frequentare la Creekwood High School - lo stesso istituto di Tuo, Simon. Qui, viene a conoscenza della storia di Simon e (confuso e turbato, ripetiamo) decide di iniziare a scrivergli su Instagram, chiedendogli dei consigli a proposito di quanto sta attraversando. Dando il via dunque ad un altro rapporto epistolare. Solo di tutt’altra natura e dinamiche.
Fin dalla stessa sinossi - o, ancor prima, dalla sigla (e dalla canzone di Tyler Glenn), che, seppur gioiosa e confortante, costituisce una perfetta sintesi del clima interiore del nostro Victor -, è pertanto evidente come, allo stesso modo del film del 2018, anche questo spin-off imperni la propria narrazione (spalmata su 10 episodi) sulla soggettività e su un’idea del protagonista come conduttore e tramite per un mondo ed un’intimità che sono sempre e comunque suoi, ma che noi pubblico riusciamo a penetrare e comprendere grazie al mezzo e alla macchina da presa. Di suo, la sceneggiatura sembra inoltre concepire ed immaginare l’intreccio dello show non solo come un rapporto epistolare tra (l’eroe) Victor e (il mentore, la guida, il mito) Simon, ma anche tra lo stesso protagonista e lo spettatore - che diventa un tutt’uno con il ragazzo, le sue riflessioni e gioie, i suoi dolori e la sua esplorazione interiore.
A testimonianza di questo ruolo preponderante riservato all’immedesimazione e all’empatia - di fatto soggettive - del pubblico con Victor (ma non solo), vi basti pensare all’ottavo episodio: quello dalla struttura più atipica (contestualmente al prodotto in sé e per sé), forse il vero e proprio punto di svolta del racconto e delle caratterizzazioni, i 20 minuti in cui questa connessione tra la soggettività del protagonista - al suo primo approccio con la scena gay di New York - e l’audience si rivela con maggior forza e decisione.
Unitamente a sinossi e colonna sonora, è anche e soprattutto un'estetica colorata e zuccherosa a trarre - funzionalmente - in inganno lo spettatore medio o non informato rispetto al tono e alle intenzioni della serie. Ad una prima occhiata, Love, Victor potrebbe infatti dare l'idea del classico teen drama senza infamia e senza lode, come ce ne sono tanti. Di uno di quei serial coming of age che - da Buffy e Dawson’s Creek in poi - hanno preso d’assalto gli schermi televisivi e, successivamente, le piattaforme streaming. Di una di quelle serie: per citare le più recenti, High School Musical: The Musical: La serie (anch'essa disponibile su Disney+), Glee, Riverdale, Stranger Things o I am not okay with this; in cui, riprendendo il canone hughesiano anni ‘80, un gruppo di teenager è chiamato ad affrontare, quasi sempre con leggerezza, una serie di sfide ed ostacoli intra- ed extra-adolescenziali.
Nulla di più inesatto. Love, Victor infatti, e visti soprattutto i suoi intenti comunicativi di partenza, è più facilmente inquadrabile all’interno di un secondo filone (più fresco) di questa rinnovata tradizione teen, maggiormente improntato su situazioni e finalità pseudo-pedagogiche. Serie come (la prima stagione di) Tredici e Sex Education (o la più cruda e matura Euphoria, che chi scrive escluderebbe da questo paragone) sono i perfetti parenti di questo spin-off televisivo di Tuo, Simon.
Uno spin-off - Love, Victor - che, ciononostante, non ci pensa due volte prima di disfarsi di eventuali comunanze e paragoni. Difatti, pur ricorrendo inevitabilmente a modalità di costruzione dell’intreccio abbastanza consolidate e a tutto quel ricettario di elementi e leitmotiv tipici del filone di cui fa parte, questo gioca con il genere, con le forme e i modelli precostituiti, presenta una serie di novità sostanziali (anche rispetto al suo stesso capostipite) e, grazie ad una scrittura realistica e vera dei personaggi e ad ottime interpretazioni, raggiunge vette di identificazione del tutto inattese.
Forse non cadrà mai nell’eccessivamente maturo e nel “vietato ai minori”, non spazierà nell’intero catalogo di problematiche e nevrosi adolescenziali (tra cui droga e dipendenza), non sarà duro e crudo o chissà quanto serioso, ma quello che dovrebbe e vorrebbe fare, nel suo piccolo - e nella sua identità di prodotto comunque leggero, spensierato e facilmente fruibile -, lo fa. E lo fa anche molto bene, ricordandoci che nulla è poi così difficile o faticoso se fatto col cuore e riuscendo inoltre ad offrire allo spettatore una serie di violenti scossoni emotivi che difficilmente scorderà. E questo senza alcun bisogno di avvertenze o disclaimer tanto affabulatori quanto sleali.
A partire dal protagonista: ispanico, figlio di un contesto ed un ambiente ristretto mentalmente ed economicamente, quindi non bianco o borghese (come Tredici o lo stesso Tuo, Simon); passando per il suo primo contatto con la scuola (già il primo giorno riesce a fare colpo sulla ragazza più popolare della scuola e ad entrare nella squadra di basket; non segue il prototipo del nerd sfigato), fino ad arrivare a figure e caratteri secondari - come il miglior amico (cui evoluzione è forse la più riuscita), il bullo della scuola (che, in alcuni frangenti, viene mostrato in tutta la sua umanità e fragilità) e la reginetta (pettegola) della scuola (con il suo chiaroscuro essere/apparire e il retaggio della madre presentatrice) -, Love, Victor si conferma essere lo show che meglio (tra i summenzionati original Netflix) incorpora quel canone à la Breakfast Club nella gestione dei rapporti, e lo scopo pedagogizzante, senza incorrere nella stereotipia. E, soprattutto, dimostrando la giusta sensibilità e delicatezza nella trattazione delle varie tematiche.
Difatti, come nella migliore tradizione teen drama, l’argomento fondante l’intreccio (in questo caso, la scoperta della propria sessualità) lascia spazio anche ad un flebile (ma palpabile) gusto voyeuristico e ad altrettante sfere di senso e significato. Nel caso di Love, Victor, tra le tante argomentazioni messe in campo, quella che riveste un ruolo di maggior rilievo è sicuramente quella concernente la dimensione familiare, con tutte le sfumature e varianti di sorta. La famiglia viene intesa quindi come provenienza, retaggio, contesto sociale, economico, sessuale e umano, patrimonio, ostacolo ideologico, ma anche come nido, focolare e ambiente da preservare ad ogni costo. Anche quando non accetta chi si è.
A tal riguardo, lo show dimostra maggior consapevolezza, perspicacia e tatto di tanti suoi concorrenti, sfruttando la longevità e le possibilità di estensione narrativa favorite dal medium e dal modello serial-televisivo, per dedicare una porzione di tempo (e di racconto) anche all’introduzione, sviluppo e risoluzione di piccoli drammi intra-familiari e -genitoriali che si intrecciano, in più di un’occasione, con la storyline principale.
Tutto a ciò, a beneficio sia dei personaggi (che, dalla famiglia, emergono e che, anche grazie a questo legame così ben sviscerato, appaiono ancor più tridimensionali) sia della serie in sé, che riesce così a svincolarsi e sorpassare la concorrenza, presentando figure genitoriali - finalmente - credibili, autentiche e complesse (i genitori di Victor ne sono l’esempio perfetto). Vero, Tredici?
Queste sono solo alcune delle ragioni (altre potrebbero essere il lavoro impercettibile della messa in scena, l'ottima valorizzazione scenica delle prove attoriali e l’estetica dolciastra e smielata, ma non per questo nauseante) per cui chi scrive considera Love, Victor il futuro e il prodotto che dovrebbe essere preso a modello e bussola dell’attuale panorama del teen drama/coming of age e del suo futuro.
Una serie forse proverbiale ed “impalettata” nella struttura (in questo, viene sicuramente in aiuto il rilascio degli episodi a cadenza settimanale, che si rivela essere - ancora una volta - il metodo di fruizione più corretto ed efficiente), prevedibile in certi suoi risvolti e sbrigativa nella gestione dei rapporti all’incedere del finale di stagione, ma tutt’altro che scontata e banale nei modi in cui porta avanti sottotrame e discorsi, caratterizza i personaggi o estrinseca la loro interiorità. Questo (e tanto altro) è Love, Victor, a cui vi consigliamo comunque di dare un’occhiata, sempre nella speranza che la seconda stagione - già annunciata - sia all’altezza e migliori la formula ormai ben oliata.
E’ quindi quasi contraddittorio che, all’uscita di Love, Victor, il nostro sia un presente in cui una major così (s)facciatamente progressista come la Disney giudica un serial del genere (leggero, senza nudità o volgarità, concepito primariamente per un pubblico di teenager) un “prodotto per adulti” e decide dunque di trasferirlo da Disney+ a Hulu (sempre di mamma Disney, ma dal catalogo più maturo) in America e all’equivalente Star da noi. Che il nostro sia un mondo in cui un bacio tra due ragazzi è ancora discriminato da logiche di mercato e di editoria. E che la nostra sia una realtà in cui la casa di Topolino continua a sfornare prodotti, seppur pregevoli e ben riconoscibili, in cui l’omosessualità non è tanto una delle varie forme della sessualità, quanto più un personaggio, una macchietta ancora dai toni effeminati (vedi la serie di High School Musical).
Un presente, un mondo e una realtà del genere sono la cartolina di un oggi che ha bisogno di Love, Victor e simili, ancor prima che come via e orientamento di un filone televisivo, come forma di consapevolezza e consapevolizzazione. Cosicché si possa intraprendere realmente quel percorso progressista tanto sbandierato e professato, ma in fin dei conti solo di copertina.
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