TITOLO ORIGINALE: Harry Potter and the Deathly Hallows - Part 2
USCITA ITALIA: 13 luglio 2011
USCITA USA: 15 luglio 2011
REGIA: David Yates
SCENEGGIATURA: Steve Kloves
GENERE: fantastico, avventura, drammatico, azione
Voldemort è sul punto di sferrare l’attacco decisivo contro Hogwarts, mentre Harry, Ron e Hermione chiedono aiuto ai compagni per trovare e distruggere gli ultimi Horcrux e sconfiggere così il Signore Oscuro. Con Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 2, David Yates raggiunge uno dei punti più alti della propria carriera, dirigendo l’epilogo di una delle saghe più importanti e celebri della storia del cinema, il cui merito principale è l’aver rivitalizzato il fantasy al cinema. Un comparto tecnico maturato sotto alcuni punti di vista, ma che non riserva fin troppe sorprese rappresenta e porta su schermo una sceneggiatura imperfetta che però sancisce una rinascita creativa dell’autore Steve Kloves. Non certo un capolavoro, ma un blockbuster con tutti i crismi, da ricordare sul piano cinematografico e commerciale.
Voldemort, al massimo della sua potenza, ruba la bacchetta di sambuco, la più forte al mondo, dalla tomba di Silente e scaglia un incantesimo in cielo. Si apre così il secondo atto de I Doni della Morte, l’apogeo di una delle saghe più amate, importanti e longeve della storia del cinema. Per tutti i dettagli riguardanti la produzione del settimo e ultimo capitolo (bipartito) della serie di film tratti dai romanzi di J. K. Rowling, vi consigliamo di dare un’occhiata alla retrospettiva che abbiamo dedicato alla Parte 1. Tuttavia, per dovere di recensione, andremo a riassumerne alcuni tratti salienti, utili ad una comprensione svincolata dell’articolo che segue.
Non provare pietà per i morti, Harry. Prova pietà per i vivi, e soprattutto per coloro che vivono senza amore.
Albus Silente (Michael Gambon)
Trattandosi del capitolo conclusivo, risolutivo e cumulativo di una mitologia di personaggi, eventi decisivi, fatti, leggende, profezie e tanto altro, la Warner Bros. e la produzione decidono di suddividere I Doni della Morte in due parti. Ciò nonostante, queste due porzioni sono perfettamente identificabili ed analizzabili a sé stante, come due entità dissimili e autonome per toni, atmosfere e, addirittura, genere di appartenenza. Certo, potremmo racchiudere entrambe nel gigantesco calderone del fantasy-drama, ma, superate le fasi iniziali di questo secondo segmento, è fin da subito riscontrabile una profonda divergenza ed evoluzione rispetto a ciò che era la prima parte.
Infatti, se quest’ultima si mostrava come un road movie in salsa potteriana in cui il viaggio costituiva un’opportunità per portare avanti un discorso e un approfondimento interiore dei tre personaggi e della loro percezione rispetto ad un mondo magico che, alla fine dei conti, tanto magico non sembrava e sembra più; la Parte 2, ovviamente arricchita dalla maturità e consapevolezza acquisite nel film precedente, riabbraccia le radici fantastiche e magiche tipiche della saga. Non a caso, questa ottava iterazione vede il ritorno del trio delle meraviglie ai cancelli di Hogwarts, al luogo che li ha accompagnati e cresciuti nelle prime sei pellicole; il luogo “perfettamente retorico” in cui ambientare una resa dei conti decisiva.
Il viaggio di ritorno è stato senz’altro lungo e impervio - oltre che della durata di un capitolo intero -, ma, alla fine, i nostri Harry, Ron e Hermione hanno fatto ritorno alla loro amata scuola per proteggerla e salvarla dalla minaccia di Voldemort e, così facendo, finire l’anno e i propri studi e portare a conclusione una serie di film che ha emozionato e ammaliato gli spettatori per anni e anni. Al timone di una pellicola da record [allora, il quarto maggior incasso della storia, ad oggi, il tredicesimo film più redditizio di sempre e il miglior esordio al botteghino di tutto il Wizarding World], come per l’iterazione precedente, l’ottimo (mestierante) David Yates, affiancato al tavolo della sceneggiatura da uno Steve Kloves tra luci e ombre. E proprio nel lavoro compiuto e nello stile adottato da entrambi si conferma quanto da noi affermato nell’articolo riguardante I Doni della Morte - Parte 1.
Difatti, pur condividendone gli assiomi tipici, la Parte 1 era la creatura forse meno potteriana di tutto l’universo cinematografico tratto dai romanzi della Rowling, giacché - partendo dal ritmo fino ad arrivare alle dinamiche delle situazioni - si presentava molto più come un dramma interiore e psicologico, piuttosto che come l’abituale mystery in salsa fantasy, fatto di avventura e divertissement. Ebbene, come affermato sopra, la Parte 2, in qualche modo, riporta l’equilibrio e sancisce un ritorno "modificato" a quelle atmosfere e a quei luoghi che hanno formato i ragazzi e, di conseguenza, lo stesso pubblico. Perché modificato? Perché ovviamente il mondo magico è ancora tutt’altro che salvo e immune al pericolo del Signore Oscuro e dei suoi accoliti e perché il ritorno a quei toni e a quegli scenari è stato pagato a caro prezzo e tra mille evoluzioni, tragedie e modificazioni dai personaggi e dagli spettatori.
In qualche modo, potremmo paragonare - a livello di impostazione e di influenza, non certo di qualità - questo I Doni della Morte - Parte 2 a Il ritorno del re (ultimo capitolo della trilogia de Il Signore degli Anelli), in quanto entrambi sono le rispettive conclusioni di due saghe che hanno rivoluzionato il fantasy al cinema, nobilitandolo (chi più, chi meno), rivitalizzandolo e rendendolo uno dei generi di punta del cinema dello scorso decennio. Pur essendo approdati sullo schermo nella stessa annata (2001), Il Signore degli Anelli ha tagliato prima il traguardo (nel 2003 usciva il terzo e ultimo film), mentre Harry Potter è stato un fenomeno ben più longevo. Pertanto, nel dover affrontare l’epilogo della propria avventura, i creativi Warner hanno certamente buttato un occhio all’ultimo atto - vincitore di 11 premi Oscar - della trilogia di Peter Jackson e, in particolare, alla sua epica e solenne battaglia finale.
Non fraintendeteci, David Yates non è certo un regista capace, magniloquente e accorto come Jackson e la battaglia di Hogwarts non raggiunge - e non aspira nemmeno a farlo - le dimensioni e il calibro di quella contro Sauron e le sue forze. Tuttavia, mediante una messa in scena elaborata e funzionale, un’eccezionale uso e sfruttamento degli attori ed un coordinamento e dosaggio magistrale di tutte le componenti dell’opera, Yates riesce comunque ad infondere in questa grande battaglia sufficiente pathos, graffiante emotività, piena incisività ed un senso di perenne mortalità - seppur traspaia, in modo abbastanza chiaro, la necessaria immortalità cinematografica perlomeno del trio protagonista. Infatti, non ci vergogniamo nell'affermare che, con I Doni della Morte - Parte 2, il regista britannico raggiunge uno dei punti più alti della propria carriera, firmando un’esecuzione indubbiamente più performante e degna di nota rispetto a quella della (comunque ottima) Parte 1.
Dal momento che si cambia Parte, ma non cambia il comparto tecnico, non ci soffermeremo più di tanto sugli aspetti estetico-rappresentativi dell’ultima iterazione della saga più magica di tutte. Come indicato, la regia di David Yates si mantiene solida e affidabile nella trasposizione su schermo dello script, dando vita ad alcuni dei momenti più importanti, memorabili e commoventi dell'intera serie. Detto ciò, il vero e proprio passo in avanti dell’impalcatura filmica del britannico è fornito da una messa in chiara limpida ed efficiente che istituisce alcuni interessanti parallelismi visivi con le pellicole precedenti, assurgendo pienamente agli scopi originari della rappresentazione. Questa è successivamente coadiuvata da un montaggio forse più composto ed equilibrato rispetto a quello della Parte 1, ma ben più razionale e valido all’atto pratico, il quale contribuisce nella composizione di un ritmo sostenuto e travolgente che, a sua volta, è ingrediente principale del concentrato di tensione, turbamento emotivo e shock che, alla fine dei conti, è I Doni della Morte - Parte 2.
Completano questo nostro mosaico tecnico, una fotografia che tratteggia il castello di Hogwarts in maniera inedita, contrastando e allontanandosi, al contempo, da quell’ideale assoluto che vedeva la scuola di magia come un luogo fatato, imperituro e fondamentalmente buono (nonostante le trappole e i suoi segreti arcani e pericolosi), un grandissimo cast - caratterizzazione permettendo -, una colonna sonora (sempre firmata da Alexandre Desplat) semplicemente da brividi - contraddistinta da un recupero massiccio ed emotivamente utile di alcuni temi classici di John Williams -, un comparto scenografico che, pur svolgendo “un lavoro in prestito” - vista la classicità delle ambientazioni -, esplica al meglio la massima distruzione del mondo di Harry ed effetti talmente validi (anche se talvolta quasi videoludici) da meritarsi una nomination all'Academy Award.
Se in ambito produttivo non vi sono dubbi o grandi sorprese, lo stesso non si può dire del lavoro di sceneggiatura di Steve Kloves, imperversato da gigantesche falle, ma anche da altrettanti momenti dalla scrittura a dir poco favolosa. Mettiamo fin da subito le cose in chiaro: il ritorno a Hogwarts da parte di Kloves coincide con un ritrovamento da parte dello stesso di un’ispirazione creativa e traspositiva da tempo assente. Infatti, nonostante avessimo lodato alcuni frammenti di scrittura della Parte 1, l’opera era funestata da difetti che la saga si portava dietro da Il prigioniero di Azkaban e che hanno visto proprio in quella settima iterazione una loro prima evidente e traumatica emersione.
Dal momento che questa seconda parte è incentrata maggiormente sul duello risolutivo e definitivo tra lato chiaro e lato oscuro, tali difetti presentano un minor rilievo rispetto alla prima porzione del racconto - volta a chiarire le posizioni ed impostare lo status quo da cui sarebbe poi scaturito il duello in essere. Ciò non significa però che gli stessi non siano ugualmente presenti - seppur in minima parte - in tutti quei frammenti narrativi imperniati sulla delineazione del ruolo vitale di Piton nella lotta contro Voldemort, sulla trattazione del rapporto tra l’ex insegnante di Pozioni e la madre di Harry, sulla chiarificazione della profezia che lega il maghetto occhialuto al fu Tom Riddle e sulla successiva reazione del primo all’apprendere la notizia che dovrà morire per estirpare il male dal mondo magico.
Nello specifico, questi fantomatici scivoloni sono individuabili soprattutto nella caratterizzazione di tutti coloro menzionati sopra, con la sola aggiunta della figura di Silente - del cui passato si taglia quasi completamente il racconto approfondito fatta eccezione per il fratello Aberforth (che qui compare per la prima volta, ma in modo quasi casuale). Per quanto riguarda Piton e Voldemort, la loro scrittura distinta ma tutto sommato superficiale è dovuta, come accennato precedentemente, alla presenza risicata, talvolta quasi marginale, riservata ad entrambi nei capitoli antecedenti.
Poiché il flashback del pensatoio ristabilisce in maniera strabiliante, anche se non integrale, il ruolo del Principe Mezzosangue nell’ecosistema della saga (oltre a superare di gran lunga la qualità e utilità di quelli del sesto capitolo), fra i due, Voldemort è probabilmente quello più denigrato e mal reso da questo processo di scrittura. Infatti, seppur contraddistinta da un’intuizione geniale e immediata a livello di messa di scena (il fatto che ad ogni Horcrux, Voldemort inizi a “rompersi”), la figura del Signore Oscuro non riesce ad essere sempre minacciosa quanto basta, riducendosi, alle volte, ad uno psicopatico ridicolo che urla avada kedavra ogni due per tre.
Discorso da parte è da riservare invece all’evoluzione dello stesso Harry Potter, il quale alterna momenti di palpabile maturità (il salvataggio di Draco) ad altri dall’ingenuità disarmante e perciò irreale, come, ad esempio, la reazione che egli ha alla scoperta della vera entità della profezia e alla notizia che debba morire per fare in modo che quest’ultima si compia. A differenza della controparte cartacea, in cui accetta con responsabilità e coscienza ciò che dovrà compiere per il bene comune, nella pellicola sembra quasi sottomettersi controvoglia e con rassegnazione al compiersi del destino (tanto da chiudere gli occhi di fronte all’incantesimo mortale di Riddle).
Lo stesso discorso è applicabile alla celeberrima sequenza quasi onirica con Silente alla stazione di King’s Cross, durante la quale è ben visibile, nonostante tutti i pericoli che ha affrontato e le verità che ha disvelato, la dipendenza del ragazzo rispetto alla figura di una guida e di un mentore. Così facendo, la sceneggiatura di Kloves annulla in parte quella parvenza di autonomia e crescita che il maghetto ha acquisito con il tempo e il succedersi delle pellicole, nuovamente ribadito e rivitalizzato invece dall’ultima porzione del racconto - in particolare dalla rottura della bacchetta di Sambuco.
Malgrado questi ruzzoloni (tra cui un incipit che avrebbe potuto essere parte integrante e finale del primo atto, a sostituzione di quell’orribile cliffhanger), con questa Parte 2, Steve Kloves riacquista nuovamente una vena creativa che, visti i pregressi, nessuno avrebbe mai previsto. Tra combattimenti all’ultimo respiro, sequenze entrate a far parte dell’immaginario collettivo (e non solo degli aficionados della saga), momenti struggenti e ad alta emotività ed una commistione di elementi, fatti e influenze da tutte e 7 le pellicole precedenti, la creatura di Yates e Kloves riesce a coronare un viaggio iniziato dieci anni prima con un capitolo che sa dosare perfettamente ogni propria anima compositiva, artistica o tecnica che sia, coadiuvando, allo stesso tempo, ogni personaggio e la sua utilità nel modo migliore. Certo, qualcuno è più importante di altri, tuttavia sceneggiatura e messa in scena trovano un giusto compromesso tra efficacia, giustizia rappresentativa e memorabilità.
Detto ciò, ci avrebbe sicuramente fatto piacere vedere quello che altri registi - anche ben più blasonati e talentuosi di Yates - avrebbero saputo creare con, nelle mani, lo script de I Doni della Morte. Tuttavia, pensiamo che il cineasta britannico se la sia cavata egregiamente e che, con questa Parte 2, abbia, seppur parzialmente, riabilitato l’infausto nome fattosi con prodotti come Il principe mezzosangue e L'Ordine della Fenice, riportando la serie agli standard qualitativi dei primi capitoli. Un ottimo popcorn film da ricordare e rivalutare sia sotto il profilo economico e di incassi, sia se inquadrato come parte costitutiva di un progetto commerciale di grandissimo successo.
In definitiva, non certo un capolavoro e neanche il capitolo più riuscito dell’intero universo potteriano, ma uno degli epiloghi migliori di questo decennio senza alcun ombra di dubbio. La nota di chiusura di una saga che ha fatto la storia, che è cresciuta e maturata con il suo pubblico e che, come se non bastasse, continua a vivere nella mente e nei cuori di tutti i suoi spettatori (più o meno profani). Una saga e un mondo che, nonostante le note dolenti, rivedremo e riscopriremo Sempre, anche a 1(9)0 anni di distanza, con la nostalgia e il brivido della prima volta.
Giunge così al termine la nostra retrospettiva sulla saga fantasy per antonomasia.
Grazie a tutti coloro che sono stati con noi durante tutte queste settimane, seguendoci articolo per articolo, recensione per recensione.
A domani (4 gennaio, ndr) con la classifica di tutte e otto le pellicole della serie!
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