TITOLO ORIGINALE: Zamora
USCITA ITALIA: 4 aprile 2024
REGIA: Neri Marcorè
SCENEGGIATURA: Maurizio Careddu, Paola Mammini, Neri Marcorè, Alessandro Rossi
CON: Alberto Paradossi, Marta Gastini, Neri Marcorè, Anna Ferraioli Ravel, Giovanni Storti, Walter Leonardi
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 100 min
Neri Marcorè è l'ennesimo attore italiano a fare il suo esordio alla regia. Zamora è una tipica storia di vita come sport e sport come vita, tutta giocata su un'intenzione nostalgica e su un gruppo di mattatori e caratteristi in forma smagliante. Eppure, a differenza della maggior parte dei debutti di "auttori", quello di Marcorè è un film gentile, tenero, che sa dosare e trasmettere tutto il cuore di cui dispone, grazie anche e soprattutto alla presenza e bravura di Alberto Paradossi, una vera (ri)scoperta.
Quanti esordi alla regia di attori italiani ci sono stati negli ultimi dodici mesi? Qualcuno potrebbe dire “pure troppi”, ma ciò non toglie che abbiano di fatto raggiunto una quota considerevole, per certi versi deleteria, per altri rara, un'anomalia tutta nostrana. Per farsi un’idea di quanti “auttori” siano nati nello scorso anno, basta dare un’occhiata veloce ai titoli menzionati agli ultimi David di Donatello. Eppure, se la maggior parte di questi tentativi dietro la macchina da presa non brilla mai per guizzi e intuizioni degne di nuove e interessanti voci registiche, ci sono anche le piacevoli eccezioni, come Palazzina LAF di Michele Riondino e, soprattutto, C'è ancora domani di Paola Cortellesi.
Da oggi, a questa ristretta cerchia, si somma Zamora, il debutto di Neri Marcorè, che sceglie di ispirarsi all’omonimo romanzo del compianto giornalista sportivo Roberto Perrone e narrare una dolce, tenera storia di vita e sport, nel senso di vita come sport, e di sport come vita. Del parare le cose, le finte e i falli che la vita ci calcia in porta, e dell’imparare letteralmente l’arte e la tecnica del portiere. Curiosamente però, nel fare questo, egli ha l’accortezza e l’eleganza di sapersi mettere di lato, di ritagliare per sé il ruolo in sottrazione del mentore, non connotando quindi interamente la pellicola attraverso la propria presenza, ma solo grazie all’energia e ad un tratto tipico della propria recitazione, che insuffla nell’ossatura e nell’anima del racconto.
Difatti, qualunque sia il ruolo affidatogli, Marcorè è di natura un interprete estremamente morbido, rassicurante, paterno, anche vivace ma pur sempre con una punta di malinconia, quella buona e avvolgente. Una firma, quest’ultima, che scorta Zamora dal primo all’ultimo passo, ne informa il tono e l’estetica, guida la fotografia color seppia, elegiaca, mai viziosa di Duccio Cimatti, e permea la ricostruzione di una Milano anni ‘60, in pieno boom economico, quando al cinema venivano proiettati ad una sala di distanza Non sono degno di te con Gianni Morandi e Giulietta degli spiriti di Fellini. Una Milano da giocare - più che da bere o da lavorare - popolata da industriali, commessi, commendatori, cavalieri, ragionieri, baristi approfittatori, e tramontati miti del giuoco del pallone.
Caratteri, insomma, virtualmente mostruosi, che il neoregista tratta, ciò nonostante, con dignità e delicatezza, riuscendo a far emergere ognuno in egual misura, aiutato in sceneggiatura da Maurizio Careddu, Paola Mammini e Alessandro Rossi, e dalla sinergia e complicità di un ensemble di mattatori, volti riconoscibili della nostra commedia e grandi professionisti, qui dotati di uno spiccato senso di squadra e dedizione. A partire dal “ganassa” Giovanni Storti - che si scontrerà nientemeno che con Giacomo Poretti in un delizioso siparietto, gustosa regalia per gli affezionati del trio -, passando per un crudele e odioso Walter Leonardi, una specie di riecheggio anacronistico del De Sica yuppie in una pellicola, d’altronde, moderna e modernista nella scrittura dei personaggi femminili, portati in scena con classe ed eleganza da Marta Gastini e Anna Ferraioli Ravel. Per non parlare di Giovanni Esposito e Antonio Catania, entrambi impegnati in piccoli ruoli che sanno però farsi ricordare; oppure ancora, di un’esilarante Pia Engleberth nella parte della segreteria-automa Dolores, Ale e Franz e Pia Lanciotti.
In sintesi, quando parliamo di Zamora parliamo di un’operazione che, a differenza di tanta coeva produzione italiana, mette il cuore in ogni cosa che fa e, malgrado gli si possa riconoscere di giocare sicuro, riesce comunque a dosarlo. Marcorè sa come tenere e regolare il passo del melò, gentile, garbato, romantico, quando assecondare qualche vezzo stilistico o indulgere nei riferimenti (tra Fantozzi e Sergio Leone), e sa infine trasmetterlo effettivamente allo spettatore, tutto questo cuore a sua disposizione.
Pur tuttavia, la pellicola non riuscirebbe ad arrivare in modo tanto genuino, sincero e piacevole se non avesse per protagonista Alberto Paradossi, qui al suo primo, vero ruolo da protagonista. Collante emotivo, di affabulazione e credibilità drammaturgica, questi scivola dentro non soltanto al personaggio che è chiamato ad interpretare, ma anche al periodo storico, a quell’epoca ben precisa che il suo savoir-faire recitativo deve contribuire a rianimare. E, quasi fosse un “period piece”, rappresenta insieme la miglior fortuna e la (ri)scoperta più folgorante di Zamora. Uno di quei tiri in porta che, ogni tanto, il cinema italiano si ricorda ancora come calciare.
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