TITOLO ORIGINALE: C'è ancora domani
USCITA ITALIA: 26 ottobre 2023
REGIA: Paola Cortellesi
SCENEGGIATURA: Furio Andreotti, Giulia Calenda, Paola Cortellesi
CON: Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Vinicio Marchioni, Giorgio Colangeli, Romana Maggiora Vergano
GENERE: commedia, drammatico, storico
DURATA: 118 min
Presentato e premiato alla Festa del Cinema di Roma 2023
Paola Cortellesi esordisce dietro la macchina da presa con un dramma che rievoca vezzosamente i fasti (nostalgici) di un neorealismo spurio ed inattendibile per mettere in scena un mondo mostruoso, raccapricciante, da cui non dovremmo ancora smettere di imparare e che non dovremmo tantomeno dimenticare. Sospeso tra commedia e dramma, tra leggerezza e tragicità, tra realismo e surrealismo, tra ieri e oggi, C'è ancora domani è un racconto insieme intimo e collettivo, che sa farsi pop, popolano e popolare, senza per questo rinunciare alle proprie ambizioni, trainato da una Cortellesi equilibratissima.
Inizia con uno schiaffo, C’è ancora domani di e con Paola Cortellesi. Lo schiaffo di un uomo, Ivano, nei confronti della moglie, Delia, al risveglio, al posto del solito buongiorno. Uno schiaffo che diventa la cadenza, il ritmo, l’accento a scansione della vicenda alla base dell’esordio dietro la macchina da presa di una delle attrici più amate, riconoscibili e talentuose del cinema italiano, ché ancor prima di rievocare, ricostruire, sintetizzare vezzosamente i fasti, le atmosfere, le sfumature, i temi, gli ambienti di un neorealismo idealizzato, spurio ed inattendibile (poiché cieco alla diversificazione e all’evoluzione registrate da questa particolare corrente cinematografica), sembra riportare i propri e i nostri occhi al musical classico.
Sono i toni e i motivi del film musicale, infatti, a guidare i movimenti (filmici e pro-filmici) della primissima sequenza. La quale, nello schiaffo di cui sopra, trova l’attacco di quella che molti hanno definito, non a caso, una “sinfonia” femminile e (finalmente) femminista che guarda e ricorda, con acre leggerezza, un mondo mostruoso, raccapricciante, purtroppo tuttora non propriamente risolto: quello dell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra.
È nella Roma del maggio 1946 che facciamo la conoscenza di un’umile famiglia di borgata, sottoproletaria, qualcuno direbbe di miserabili, che vive nel seminterrato di una delle tante case popolari che affollano la capitale, di fatto al di sotto di tutto e di tutti (si pensi a quel che vedono dalla finestra). Ciò nondimeno, pure in questo microcosmo sociale, c’è chi è ritenuto più miserabile solo perché di sesso opposto. Proprio come la nostra Delia, massaia e madre, infelicemente sposata con Ivano (un Valerio Mastandrea che rifà coppia, in tutti i sensi, con Cortellesi dopo Figli, qui impegnato in un ruolo ostico e complesso), uomo aggressivo e dispotico, nervoso, dice (vantandosi), poiché coraggioso ed ardito reduce di due guerre, anche se forse la verità è un’altra; quasi il personaggio di una fiaba, nel senso di un essere mutaforma che, dopo aver stregato la nostra protagonista nei primi momenti della loro conoscenza ed essersela sposata, ha cambiato volto e fattezze, diventando un orco, un povero Barbablù o, se preferite, un secondino.
Se non dovesse correre di qua e di là, su e giù per le strade della città, per arrotondare il magro stipendio familiare con numerosi lavoretti o per svolgere le commissioni necessarie, ella sarebbe ed è, in fin dei conti, del tutto segregata tra le quattro mura di casa, ad eseguire qualsiasi ordine del consorte e a pagarne le conseguenze in caso di inadempienza od errore, a subire gli imprevedibili e repentini sbalzi d’umore di quest’ultimo, e ad occuparsi del suocero - un trombone con un passato di truffe e ruberie, costretto a letto dalla vecchiaia, interpretato da un perfetto Giorgio Colangeli - e dei tre figli: i due piccoli, ormai irreparabilmente traviati ed inevitabilmente destinati a seguire le orme - di violenza, disonestà e sopraffazione - dei maschi di casa e dell’ideale maschilista e misogino che spadroneggia nel mondo là fuori; e la maggiore, Marcella (un’intensa Romana Maggiora Vergano), (per il padre) ormai in età da moglie, e quindi già considerata alla stregua di Delia, nella sua funzione e funzionalità economica e sociale.
Questa scruta le vessazioni e le brutalità sofferte quotidianamente dalla madre con fastidio e risentimento giovanili, compassione, ma anche ingenuo desiderio di esserle diversa, di avere un destino difforme dal suo. Cosa che - come constaterà Delia in primis - purtroppo non sarà. Anche Marcella, solo inconsapevolmente e in modo diverso, si troverà a ripercorre le orme di un genitore (della madre, appunto), quando incontrerà, si innamorerà e sceglierà infine di promettersi a Giulio, giovane rampollo di una famiglia borghese, dunque più agiata della sua, arricchitasi durante la guerra (come tanti altri, del resto) con la borsa nera e collaborando coi nazifascisti, proprietaria del bar più frequentato del quartiere, il quale sin dai primi momenti dimostra i primi sintomi di un carattere possessivo, liberticida e maschilista.
È solo per aiutare la figlia, permetterle di avere un futuro più raggiante e con maggiori possibilità, e di vivere in un paese nuovo, forse pian piano anche migliore, ché Delia deciderà infine di non subire più, di cominciare progressivamente ad alzare lo sguardo e a guardare e percorrere il mondo a testa alta, di organizzarsi e agire…
Un po' come nel caso analogo di Micaela Ramazzotti, quel che più colpisce di C’è ancora domani e che pure sorprende, trattandosi comunque dell’esordio alla regia di una mattatrice indomita e assoluta della commedia italiana e non solo, è la capacità di Cortellesi di comprendere quanto il contesto, il mondo diegetico, i suoi abitanti, nonché un racconto ed una messa in scena il più attenti, sentiti ed approfonditi di tutti questi elementi, siano importanti ai fini e nell’economia della pellicola. E ancora, di riuscire a far trasparire e manifestare (la complessità e la differenziazione di) tutto ciò che avrebbe potuto facilmente essere relegato a mera cornice, a mero sfondo, pur non rifiutando in toto un solipsismo ed un protagonismo congeniti e commercialmente utili, anzi concentrando su di sé l’intero (o quasi) fascio di luce dei riflettori, e mantenendosi per la maggior parte del tempo al centro del racconto e(rgo) dell’inquadratura.
In tal senso, C’è ancora domani è un film che innesta in un’atmosfera e in una composizione fortemente musical(i) o, per altri versi, da neorealismo rosa (quel cinema successivo all’esaurimento e all’involuzione del neorealismo più tipico, caratterizzato da uno spostamento verso temi meno crudi e meno drammatici, ed interamente dominato delle “maggiorate fisiche”, come Claudia Cardinale e Sophia Loren), immagini, suggestioni e motivi più attigui al neorealismo ideale, quello di Visconti, Rossellini, De Sica e Zavattini.
Ma, nel film di Cortellesi, c’è anche l’impostazione (soprattutto scenografica) della fiction à L'amica geniale, tanto teatro nel rapporto con gli ambienti e nella concezione di alcuni momenti (in particolar modo, di quelli fra Dalia e l’amica Marisa, portata su schermo da una complice Emanuela Fanelli), ed altrettanta commedia all’italiana, invece, nella perizia e nel gusto dimostrati nella scelta dei visi, delle facce dei personaggi comprimari, i quali contribuiscono a dare veridicità, concretezza, carattere ed animo a questo mondo e ad un film che, pur abbandonandosi a didascalismi da pamphlet e non negando(si) un’importanza, una responsabilità, una missione testimoniale (“Ricordiamoci” canta Achille Togliani ad un certo punto), ha solo in parte pretese di fedeltà, esattezza, di documento storico. Come non lo è, d’altronde, il suo lavoro di rievocazione e reminiscenza del passato cinematografico italiano, tradito, inconsapevolmente, per quel che riguarda l’immaginario neorealista e, consapevolmente, nell’inserimento anacronistico di canzoni (come Aprite le finestre, La sera dei miracoli di Lucio Dalla, M’Innamoro Davvero e A bocca chiusa di Daniele Silvestri) a commento della vicenda narrata.
Dal canto suo, Paola Cortellesi (che firma anche soggetto e sceneggiatura al fianco di Furio Andreotti, sodale del compagno Riccardo Milani, e Giulia Calenda) riesce con abilità a districarsi nel caotico groviglio sociale e umano - quello di fronte a cui sfila in uno dei carrelli che aprono il film, con cui interagisce, nel quale si immerge e fra cui, al contempo, svetta, come notiamo fin dalla locandina - e tra le varie anime ed ispirazioni della sua creatura.
La neoregista diventa così l’unico e solo possibile collante, l’Anna Magnani e la Sophia Loren, la perfetta espressione del doppio registro - comico e leggero, drammatico e tragico - attraverso cui si articola il discorso, ma anche, tramite lo sguardo, del decorso e, tramite il corpo, dello spettro di potenzialità di un film che, nel chiaroscuro fotografico e nel suo sapore agrodolce, scova la chiave, la lente più giusta, anche se non immune da contraddizioni di fondo (nell’ambiguo rapporto col passato). Di un racconto che è insieme intimo e collettivo, che sa farsi pop, popolano e popolare, senza per questo rinunciare all’aspirazione di un tableaux sociale di matrice volpediana, di un nuovo quarto o addirittura di un quinto stato, e al personalissimo desiderio di affermare, o comunque di suggerire un inizio di cifra poetica e stilistica, evidentemente debitrice del surrealismo del compianto Mattia Torre (più efficace a livello concettuale, che negli esiti effettivi).
Inizia con uno schiaffo, e finisce con uno schiaffo, C’è ancora domani. Uno schiaffo che, per (sua e nostra) fortuna non è più rivolto a Delia, bensì allo spettatore, di cui vengono disattesi aspettative e pregiudizi ed allargati infine l’orizzonte. È un finale, quello ideato da Andreotti, Calenda e Cortellesi, che fa coincidere ed andare di pari passo la rivoluzione intima della nostra eroina con una rivoluzione più ampia, epocale, sottintesa ed indicata più volte durante il corso della pellicola, di cui si cerca di riaffermare (qui sì!) la verità storica, le tracce, l’identità, la natura, il colore (possibilmente rosso). E quindi, ricordiamoci: se c’è ancora oggi, è perché c’e(ra) ancora domani.
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