TITOLO ORIGINALE: A Haunting in Venice
USCITA ITALIA: 14 settembre 2023
USCITA USA: 15 settembre 2023
REGIA: Kenneth Branagh
SCENEGGIATURA: Michael Green
CON: Kelly Reilly, Kenneth Branagh, Michelle Yeoh, Kyle Allen, Jamie Dornan
GENERE: poliziesco, drammatico, thriller, giallo, orrore
DURATA: 103 min
A poco più di un anno di distanza da Assassinio sul Nilo, Kenneth Branagh torna dietro e davanti la macchina da presa delle avventure di Hercule Poirot con Assassinio a Venezia, una pellicola nella quale ci si discosta dalla matrice christieana ma che, nel farlo, si dimentica dell'intrigo e della precisione che caratterizzano ogni giallo che si rispetti. Quasi come se si vergognasse della sua primaria natura escapista e di puro intrattenimento.
Un po’ come ai suoi (tanto folti e rigogliosi, quanto graficamente improbabili) baffi, all’Hercule Poirot di Kenneth Branagh piace cambiare, trasformarsi, trovare nuovi modi e nuove forme attraverso cui esprimere la sua indubbia arguzia, gli impeti protagonistici (che vanno al di là della finzione), i suoi brillanti procedimenti mentali, e i suoi clamorosi trionfi deduttivi. Dalla rivisitazione coattamente e rumorosamente hollywoodiana e dall’innecessario e sacrificabile profluvio di star del primo Assassinio sull’Orient Express, siamo passati quasi alla farsa, alla parodia, alla contraffazione pacchiana proprio di quel tipo di operazione, col successivo Assassinio sul Nilo, quest’ultimo, affogato nelle acque e nella sabbia iper-digitali di un Egitto culla di fantasmi posticci, artificiosi, sintetici; solo per arrivare, giusto un anno più tardi, ad una storia di fantasmi non meno affettati, ma quantomeno giusti e giustificati.
Sì, Assassinio a Venezia (questo il titolo della terza avventura christieana dell’attore e regista di Belfast) è una ghost story nel vero e pur(issim)o senso del termine. Una pellicola per cui l’atmosfera è davvero tutto. Forse pure troppo, a tal punto da dimenticarsi l’ingrediente primario che qualsiasi mistero, giallo, whodunit, thriller che dir si voglia, dovrebbe contemplare e prevedere: l’intrigo.
Se da un lato è apprezzabile infatti la scelta inevitabile, se non proprio imprescindibile, di Branagh e del sodale sceneggiatore (per i film su Poirot) Michael Green di andare oltre il mero adattamento, di superare la matrice letteraria per trovare una dimensione nuova, o comunque un’idea ed un racconto del tutto freschi (la pellicola è invero solo vagamente ispirata ad uno dei casi “terminali” del detective belga, conosciuto in Italia come Poirot e la strage degli innocenti, da cui riprende nomi, dettagli, elementi di contorno, e la contiguità con la festa di Halloween); dall’altro questi non riescono comunque a dotare questa loro reinvenzione apocrifa di una nota, di un tocco, di un senso, nonché della precisione e del rigore tipici dei componimenti di Agatha Christie.
Pertanto, Branagh si affida appunto alle suggestioni, all’esoterismo, al fascino, al mistero, alle luci di una Venezia fantasmatica, uggiosa, arcana, che, con i suoi palazzi schiaccianti e i suoi canali tortuosi, resiste strenuamente, eternamente, al passare e all’evolversi del tempo - il quale la vorrebbe invece reliquia alla deriva, in lento inabissamento -; una Venezia che egli ricostruisce e tratteggia con occhio devoto e particolareggiato e gusto cinefilo (tra pellicole quali A Venezia... un dicembre rosso shocking e Repulsione, e il giallo all'italiana alla maniera del Dario Argento anni ‘70); per mascherare l’inerzia, l'insopprimibile verbosità da radiodramma e la ridotta quota seduttiva del proprio intreccio. Per convincerci della complessità e della stratificazione di un Assassinio, di cui viceversa è troppo semplice individuare i pilastri narrativi, la chiave di volta, nonché prevedere i possibili risvolti, i colpi di scena, il o forse i colpevoli. E ancora, per affabularci, peggio di uno spiritista o di un chiromante poco convinto, e proporci, quando non venderci la parvenza di qualcosa che, in fin dei conti, non c’è. O meglio, che non è espresso in maniera adeguata, avvincente, memorabile.
È proprio questo il caso del mélange di generi ed estetiche, della commistione fra il giallo più classico, quello di estrazione teatrale, con l’horror gotico, di fantasmi e di possessioni. Peccato che, all’infuori di qualche jump-scare puerile, dell’uso pleonastico del grandangolo, e del lavoro combinato di scenografie e sound design, quel che resta ad Assassinio a Venezia da offrire siano perlopiù piccoli brividi, e che ogni intento emotigeno, tensivo e pauroso prima del copione e poi della messa in scena venga completamente guastato e compromesso da un cast ancora meno stellato di quello di Assassinio sul Nilo, ma allo stesso tempo pure meno valido e funzionale.
Eccezion fatta infatti per il piccolo Jude Hill, protetto e pupillo branaghiano (sotto e lontano le luci dei riflettori, come lascia intendere una delle ultime sequenze del film), nessuno dei volti e dei nomi qui coinvolti viene diretto ed apporta al testo una cifra od un coinvolgimento tali da decretarne la giustezza nei panni di quello o di quell’altro personaggio. Chiunque avrebbe potuto vestire i panni di qualunque sospettato e non sarebbe forse cambiato nulla ai fini e nell’economia della pellicola. Kyle Allen, Camille Cottin, Tina Fey (ingessato comic relief dagli accenni metatestuali, un po’ alla Omicidio nel West End), un ritrovato Jamie Dornan, Kelly Reilly, nemmeno il nostrano Riccardo Scamarcio, o addirittura la neo premio Oscar Michelle Yeoh (protagonista di una scena a dir poco ridicola) sono in grado di far dimenticare a chi guarda di star assistendo alle vicende di pedine di un'opera la cui grossolanità recitativa è direttamente proporzionale alla sua finezza latitante.
Di un giallo che forse non lo è neppure, in quanto - e, in questo, Assassinio a Venezia è una riconferma - Kenneth Branagh sembra più interessato ai fantasmi visibili, reali, storici del Novecento (e, va da sé, del nostro tempo), che non a quelli ectoplasmatici, soprannaturali, mitici, iconici, cinematografici. Per il regista, la figura di Hercule Poirot diventa perciò, di nuovo, un facile pretesto per raccontare, con grande presunzione, il mistero (tutt’altro che enigmatico) dell’uomo. Per assecondare le orizzontalità della serializzazione e dipingere un profilo, un identikit del detective, delle sue ferite (dietro i baffi), dei suoi dubbi, del suo scetticismo, della sua spiritualità, così come delle sue idiosincrasie ed eccentricità.
Per elevare insomma le ambizioni dell’operazione e del franchise, senza tuttavia erigerne, rafforzarne, disporre dapprincipio delle basi di dignitoso e nobilissimo racconto escapista, volto esclusivamente ad un buon intrattenimento e, come viene puntualizzato qui, a "rendere meno spaventose (e disordinate) le nostre vite”. Una missione, una natura primaria, questa, di cui, a differenza di quanto avviene nei romanzi di Agatha Christie, a momenti Assassinio a Venezia e lo stesso Branagh sembrano quasi vergognarsi.
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