TITOLO ORIGINALE: La Bête
USCITA ITALIA: 2023
REGIA: Bertrand Bonello
SCENEGGIATURA: Bertrand Bonello
CON: Léa Seydoux, George MacKay, Guslagie Malanga, Philippe Katerine, Parker Henry
GENERE: fantascienza, drammatico, horror, thriller, sentimentale, storico
DURATA: 145 minuti
In concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Liberamente ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James, Bertrand Bonello racconta una storia d’amore attraverso il tempo, ostacolata dalle naturali conseguenze del mondo e, con sé, dell’artificio cinematografico. Un film profondamente teorico che non rinuncia tuttavia agli strumenti del mestiere del racconto, con due magnifiche interpretazioni di Léa Seydoux e George MacKay.
“Omnia vincit amor”, scriveva Virgilio nell’Egloga X parlando dell’ineluttabile potenza dell'amore, come sentimento e valore che non si arrende di fronte a nessun ostacolo. Qualche secolo più tardi, Caravaggio intitolava uno dei suoi più celebri dipinti (quasi) nello stesso modo, rappresentando la vittoria dell'amore - incarnato da un angelico fanciullo alato - sulle arti, riassunte nella partitura, nei libri e negli strumenti musicali ai suoi piedi. Andando ancora avanti di qualche altro secolo, arriviamo ai giorni nostri è (ri)troviamo il regista francese Bertrand Bonello (De la guerre, L'Apollonide - Souvenirs de la maison close, Saint Laurent) e il suo ultimo lavoro, La Bête, liberamente ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James, con cui sembra quasi voler confutare o, per meglio dire, aggiornare ai giorni nostri, al tempo in cui viviamo, questa espressione eterna e proverbiale.
Lo si può desumere dalla primissima sequenza, nella quale troviamo la protagonista, Gabrielle, una modella ed attrice di spot pubblicitari col sogno di sfondare al cinema, durante l’audizione per quello che pensiamo essere un thriller o un horror. La particolarità sta però nello spazio straniante in cui si trova: una stanza completamente verde dentro cui viene condotta e diretta dal regista o dal casting director che le fornisce, come di rito, tutte le indicazioni della scena. Tra cui quella di immaginarsi(!) un mostro avvicinarsi e reagire di conseguenza, urlando, strabuzzando gli occhi, dimenandosi. Chiusosi (con uno sfaldamento dell’immagine) questo primo segmento, ci si aspetterebbe che prendesse il via l’ennesimo film incentrato sul dietro le quinte - magari ironico e pungente - dell’attuale mondo ed industria del cinema. Quello che invece si apre di fronte ai nostri occhi è un melodramma in costume, ambientato nella Parigi del 1910, dove ritroviamo - con abiti, un piglio, ed una vita totalmente diversi - la nostra Gabrielle insieme ad un vecchio conoscente, di nome Louis, che è forse qualcosa di più.
E poi via, veniamo sbalzati nel 2044. Ad accoglierci c’è sempre Gabrielle, qui impegnata in quello che sembrerebbe un colloquio di lavoro. In realtà - lo scopriremo poco più tardi - le è stata offerta la possibilità di entrare in programma per “purificare” sé stessa, attenuare l’impatto di qualsiasi sua emozione sulla sua vita, e così poter aspirare ad un lavoro migliore o, addirittura, ad una posizione altolocata.
In questo futuro distopico, infatti, l’intelligenza artificiale ha salvato l’umanità - tant’è che si dice sia diventata essa stessa umana - e preso il controllo. Diventati una minaccia per il quieto ed ormai apatico, grigio, solitario vivere quotidiano, sentimenti ed emozioni sono stati appunto messi al bando e silenziati attraverso una macchina (che ricorda una delle vasche del Barone Harkonnen di DUNE) che fa rivivere a chi vi si sottopone le proprie vite precedenti, in una sorta di rigurgito macchinico della dottrina buddhista. Da qui spiegate quella versione di lei nella Parigi dei primi del Novecento o, come vedremo in seguito, quella da aspirante attrice in una Los Angeles del 2014.
Un modo facile per definire La Bête, lo avrete intuito, è “melodramma fantascientifico”. Ma non è del tutto corretto. Difatti, quella a cui dà vita, idea e forma Bertrand Bonello (che ne firma pure la sceneggiatura assieme a Guillaume Bréaud e Benjamin Charbit) è un’opera fortemente teorica che - non lo nascondiamo - necessita, nel seguirne le elucubrazioni, di una certa dose di attenzione e dedizione, ma che ripaga lo spettatore con uno dei testi più precisi, puntuali e stimolanti non solo sul presente cinematografico, ma sul mondo in cui abbiamo vissuto, in cui viviamo e in cui vivremo. Se ci vivremo davvero. Un mondo disposto a non provare alcuna emozione per non cadere mai più preda di ansie e paure (che sono connaturate ed essenziali ad ogni sentimento che si definisca tale); apatico, disumano, anestetizzato, incapace di stupirsi, di sognare, di vedere, di sentire senza l’ausilio di artifici digitali o dispositivi vari, intrappolato nel comfort di una nostalgia innaturale e sintetica (“goduta” in zone franche).
Tuttavia, malgrado questa sua forte impronta concettuale, figurativa e criptica (talora pure troppo e non necessariamente), La Bête non dimentica gli strumenti del mestiere del racconto. Appassiona, diverte, sorprende, ipnotizza, eccita, provoca con cognizione e costrutto, il film di Bonello, grazie a soluzioni a dir poco geniali (la sequenza dei pop-up sul desktop è incredibile), un mirabile, inquietante ed elegante utilizzo del fuoricampo, e l’apporto decisivo dei suoi due attori protagonisti. Che sono una Léa Seydoux al solito impeccabile, seducente, estremamente espressiva pur nel forte segno e nella linea decisa del suo volto, versatile e camaleontica al pari della pellicola, che inserisce questo suo discorso con coerenza in un mix postmoderno di generi e di estetiche (mutevole è infatti, in primis, la fotografia di Josée Deshaies); ed un George MacKay in un ruolo (che inizialmente spettava al compianto Gaspard Ulliel) inedito che interpreta con un ampio spettro di approcci e gradazioni, anche prendendosi esilarantemente in giro.
Ma chi o cos’è allora questa Bête, questa Bestia? L’ineluttabile e distruttivo egocentrismo (anche nel vittimismo) dell’essere umano? L’indifferenza? Un individualismo ormai irrevocabile? La solitudine? La tecnologia (disuminanizzatrice, come sottileano i non-crediti)? L’abulia e pigrizia digitale dello spettacolo, dell’artificio, del mezzo cinematografico? La consapevolezza che potremmo essere destinati anche noi ad essere prima o poi degli artifici? O forse proprio la finzione del cinema stesso, rivelata nel pieno del suo sfasamento ed instabilità, oltre che nella primordialità delle ombre cinesi? Forse tutto, forse niente. Una cosa è certa, però: al netto di qualche puerilità e di una derivazione evidente (ma ben rielaborata, da Lynch, dalla letteratura di Philip K. Dick, dall’opera di Gondry), quella di Bonello è una delle più belle lettere di (dis)amore per il cinema.
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