TITOLO ORIGINALE: Knock at the Cabin
USCITA ITALIA: 2 febbraio 2023
USCITA USA: 3 febbraio 2023
REGIA: M. Night Shyamalan
SCENEGGIATURA: M. Night Shyamalan, Steve Desmond, Michael Sherman
GENERE: orrore, thriller, giallo
DURATA: 100 min
Il re dei twist M. Night Shyamalan torna al cinema con l'adattamento (a suo modo) del romanzo horror La casa alla fine del mondo di Paul G. Tremblay, da cui trae un film che costituisce la sintesi massima, estrema, ultima, più diretta, semplice e schietta del suo cinema, sul punto di non ritorno, quattro minuti prima che scocchi l'orologio dell'apocalisse. Non solo thriller hitchcockiano precisissimo e consapevole sulla scia dell’individualismo patologico, del catastrofismo esistenziale, del complottismo politico, della post-verità, del delirio condiviso post-trumpiani e post-pandemici, Bussano alla porta è anche e soprattutto un micro-universo che racchiude non solo l’essenza e il motore, ma anche tutti i film di M. Night Shyamalan, e che ci ricorda che il più grande ed inaspettato stravolgimento possibile oggi è credere nell'immagine (cinematografica).
Credere. È su questo Verbo che si fonda tutto il cinema di M. Night Shyamalan. Lo sappiamo, sembra banale dirlo giunti ormai al quindicesimo lungometraggio, dopo picchi assoluti e pietre angolari del filone thriller-horror (Il sesto senso, Unbreakable, Signs), ma pure scivoloni clamorosi e abbagli più dolorosi che accecanti (qualcuno se li ricorda L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth?). Eppure, è quanto di più palese ed immediato emerge sin dalla primissima visione di Bussano alla porta, l’ultima e forse più sintetica delle sue opere.
La sintesi che si può raggiungere in un momento così definitivo, inevitabile, risolutivo, come può essere la fine del mondo; uno in cui si è chiamati a tirare le somme di ciò che si è fatto. La sintesi che il cineasta rinviene nel romanzo horror La casa alla fine del mondo di Paul G. Tremblay, che, pur essendo conforme allo stile, alla poetica, alla sensibilità, persino alla narratologia di Shyamalan - a tal punto che non è del tutto inverosimile pensare ingenuamente che quanto narrato su schermo sia davvero frutto di una sua idea e di un suo soggetto -, egli traspone e adatta tutt’altro che fedelmente, modificandone anzi il finale in modo da farlo aderire quanto possibile alla prospettiva e al lato che più gli interessa della storia.
Quale storia? Quella di Eric e Andrew e della loro piccola figlia (adottiva) Wen, i quali, mentre si stanno godendo le vacanze in un cottage sul lago isolata fra i boschi del New Hampshire, ai confini della realtà, ricevono la visita di quattro misteriosi ed inquietanti figuri. I loro nomi (fittizi) sono Leonard, Redmond, Adriane e Sabrina, e sono stati incaricati di indirizzare ed aiutare i tre a compiere una scelta che potrebbe salvare il mondo intero e tutti “i sette miliardi e più” che lo abitano dall’irreparabile fine, o, al contrario, per condannarlo e condannarli all’oscurità eterna per i loro peccati.
Chi sono e cosa vogliono realmente questi quattro? Chi (o, sarebbe meglio dire) cosa li ha mandati lì, interrompendone le mediocri, banali eppure preziose vite quotidiane e assegnandogli questo gravoso ed infausto compito? E perché loro hanno accettato di ubbidire? Ergo: ciò che il quartetto - quasi sempre con maniere accomodanti ed inquietantemente benevoli - va blaterando corrisponderà di fatto al vero?
Sono questi i quesiti che arrovelleranno Eric, Andrew e Wen nel ruolo preassegnato(?) di protagonisti di un disaster movie in interni, , come molti lo hanno già definito; di un home invasion nel quale, ad un certo punto, diventa più importante e vitale l’evasione da quell’ambiente assediato ed irrimediabilmente espugnato e reso claustrofobico da una scelta preponderante di primi e primissimi piani, così come di inquadrature isolanti.
E sono gli stessi (quesiti) su cui Shyamalan regola tutto il suo gioco thrilling, il quale non fa altro che confermare e ricordarci (dopo - per chi scrive - le relative delusioni di Glass e Old) le indubbie ed innate abilità di uno dei registi che più e meglio di tanti suoi contemporanei è riuscito e riesce a muoversi abilmente tra il volere del monopolio produttivo ed esecutivo hollywoodiano e le sue personalissime ossessioni autoriali; tra l’industria ed una cifra stilistica e discorsiva rintracciabile di pellicola in pellicola (pure in quelle meno riuscite). E che riesce in questo solo (si fa per dire) contando e traendo il massimo profitto dalla natura manipolatrice e manipolativa dell’immagine (cinematografica).
Egli crede infatti talmente tanto al valore, al peso, all’essenza e ai meccanismi che regolano il mezzo, il linguaggio, lo spettacolo, la macchina-cinema da essere parallelamente tra i pochi che riescono così impeccabilmente a farcene dubitare, a cambiare continuamente la nostra percezione delle cose, della realtà e del mondo che ci viene proposto, a prenderci in contropiede (tante volte) nel bene e (ahinoi, altrettanto spesso) nel male. In definitiva, a fare di questa manipolazione non tanto un qualcosa di limitativo, sterile, pretestuoso, indulgente, quanto un tratto ed un elemento che responsabilizzano il pubblico, lo interpellano continuamente, lo prevedono sempre all’interno della costruzione, offrendogli di conseguenza un’esperienza funzionante, appagante, utilitaria, tuttavia mai accomodante e conciliatrice, a cui si deve scegliere di credere, al cui regolamento ci si deve prestare e sottoporre volontariamente, accettandone gioie e rischi.
Un po’ come avviene ai protagonisti di questa (di nuovo) sintesi, figurativizzazione ed incarnazione massima, estrema, ultima, più diretta, semplice e schietta del suo cinema, chiamati a compiere una scelta che, qualsiasi essa sia, e malgrado i modi affabili dei quattro messaggeri, li segnerà e ne segnerà indelebilmente il destino.
Ciò detto, qualora foste alla ricerca di segni concreti a supporto di questo nostro discorso, vi basti pensare a come viene gestito lo strumento, ineccepibilmente tensivo ed apparentemente superfluo, del telefono nei primissimi minuti proprio di Bussano alla porta. A tal proposito, riprendiamo l’intuizione e visione di Giulio Sangiorgio nell’editoriale di FilmTv 5/2022: “Fuori da una baita ci sono quattro persone che bussano insistentemente alla porta. Dentro ce ne sono tre impaurite [...]. Uno di loro, per chiedere aiuto, tenta di usare, prima di tutto, un telefono fisso. Non un telefonino o uno smartphone. Ecco qui: lo spettatore si infastidisce, non ci crede [...] Ma attenti. Nel libro di Tremblay da cui il film è tratto lo si dice fin da subito, che in quella casa, non c’è campo. Shyamalan ce lo svela solo poi. Ce lo dice solo dopo averci indotto un pensiero che mette in crisi la credibilità del film, solo dopo aver crepato la possibilità delle sue immagini di essere verosimili [...] vuole che non crediamo prima, per poi provare a farci credere di nuovo. [...] È una scelta piccolissima, ma è già una filosofia”.
Appunto, un piccolo, insignificante dettaglio, capace ciononostante di ribaltare del tutto le sorti di una pellicola e risparmiarlo da ogni sterile critica di proverbialità ed anonimia. Un dettaglio, che, sommato ad altri elementi che, in una visione epidermica come può essere la prima, possono risultare quasi scontati ed istintivi - come la composizione dei piani che racconta già da sé, senza bisogno di alcun dialogo, la voragine incolmabile (quella che hanno tentato invano di appianare in forma materiale e simbolica, correggendo ed aggiustando letteralmente la congenita spaccatura sopra il labbro di Wen) di pensiero, fede, atteggiamento, reazione, che si viene a creare tra Andrew ed Eric, tra un pessimista razionale, pragmatico, concreto ed individualista ed un energico fideista, sentimentale, religioso ed ipersensibile, mentre sono soggetti agli insistiti e cordiali tentativi di persuasione dei quattro invasori - nonché a quei pregi incontrovertibili di cui sopra, tra cui un controllo ferreo, preciso ed alchemico degli ingredienti (il montaggio di Noemi Katharina Preiswerk, la fotografia di Jarin Blaschke, le musiche tonanti e robuste di Herdís Stefánsdóttir) ed un casting al limite della perfezione: la forte dicotomia tra il fisico imponente e la caratterizzazione arrendevole, timida, buona del personaggio di un Dave Bautista qui al suo ruolo migliore non solo è una scelta(!) disorientante ed efficace a dir poco, che conserva in sé tutta la forza e i discorsi della pellicola, così come azzeccatissimi sono Jonathan Groff e Ben Aldridge nei rispettivi panni di Eric e Andrew; fanno di Bussano alla porta uno dei pochi, se non proprio l’unico modo di essere hitchcockiani oggi, conservando al contempo qualcosa da dire senza cadere invece nel bieco, futile e sterile omaggio (La ragazza del treno, La donna alla finestra, Watcher).
In altre parole, dando forma, vita e respiro, come già anticipato sopra, alla sintesi, ad un ipertesto, ad un compendio, ad un glossario comunicante, ad un micro-universo che racchiude non solo l’essenza e il motore, ma anche tutti i film di M. Night Shyamalan - specie quelli prodotti ed usciti prima dei due grandi flop di pubblico e critica e della conseguente rinascita con Blumhouse ed interessante, eppure capriccioso tentativo di serializzazione con Split e il già citato Glass.
E se allora - prendendo a prestito e parafrasando le parole di Leonard - la fine fosse già avvenuta tempo prima e noi non stessimo assistendo ai fuochi d’artificio, bensì alle ultime scintille? E se Bussano alla porta avesse avuto inizio già ai tempi di Signs, sia lo strascico apocalittico di The Village e il seguito spirituale di E venne il giorno?
I simboli, parallelismi, riferimenti e citazioni alla dottrina cattolica e alla Bibbia ci sono (il sacrificio di Isacco, i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, le cavallette dell’inizio, nella cui disposizione all’interno di un barattolo si ricerca quel clima di empatia ed altruismo impossibile da trovare nel resto del mondo). E sono presenti, allo stesso modo, quelli alla mitopoiesi greca (si pensi ad Euripide e alla sua Ifigenia), l’importanza dei colori tanto di The Village, quanto di E venne il giorno, l’idea del barricarsi, la linea melodrammatica che impone un paragone tra intimo e collettivo, l'assunto secondo cui “le coincidenze non esistono”, l’uso atemporale, tensivo e semantico dei flashback e dei flashforward…
Cambia solo la ragione dell’incubo, l’innesco della visione, il peccato primigenio, che non è più il senso di profonda disillusione e di cieca inquietudine, l’idea di una minaccia esterna, sconosciuta, misteriosa, invisibile, la schizofrenia deresponsabilizzante successivi agli attentati dell’11 settembre, quanto piuttosto l’individualismo patologico, il catastrofismo esistenziale, il complottismo politico, la post-verità, il delirio condiviso post-trumpiani alla QAnon e post-pandemici. E tutto questo, Shyamalan si limita a farcelo intuire, percepire, immaginare facendo leva perlopiù sulle parole incalzanti e i sentimenti travolgenti di Leonard, Redmond, Adriane e Sabrina, nelle loro visioni, nei quattro racconti individuali ma simili che vanno a comporre un altro film, interno e precedente a questo. Il film che giusto una decina di anni fa il nostro Shyamalan avrebbe diretto e firmato e di cui noi spettatori vediamo solo le lineari, truci e spietate (nei limiti, ahinoi, di un PG-16) conseguenze.
E il twist? Dov’è l’inconfondibile marchio di fabbrica della premiata ditta M. Night Shyamalan? Ebbene c’è, solo non nella maniera che molti si aspettano.
Perché se è vero che il film più tipicamente shyamalaniano avviene prima e fuori campo, è altrettanto vero che, in una realtà effimera, sfuggente, caotica, labile come la nostra, credere nella veridicità di ciò che si sta rappresentando, continuare a guardare nel più luminoso abisso, nel più oscuro specchio, attraverso la finestra su un cortile globalizzato, non distogliere mai lo sguardo anche se apparentemente incredibile od invisibile, anche se la risoluzione non è un granché (senz'altro meno coraggiosa di quella del libro), nonostante, come sottolinea lo stesso regista nel suo solito ed immancabile cammeo, quello in cui si creda (e che si compri) è semplicemente “aria fritta”; ecco, tutto questo è forse il più grande ed inaspettato stravolgimento possibile.
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