TITOLO ORIGINALE: The Woman King
USCITA ITALIA: 1 dicembre 2022
USCITA USA: 16 settembre 2022
REGIA: Gina Prince-Bythewood
SCENEGGIATURA: Gina Prince-Bythewood, Dana Stevens
GENERE: storico, drammatico
DURATA: 135 min
Presentato in anteprima al Toronto Film Festival
The Woman King di Gina Prince-Bythewood è quello che si dice "prendere due piccioni con una fava" o, più concretamente, instillare e raggruppare nello stesso contenitore blockbuster le due principali correnti inclusive dell'attuale industria e politica hollywoodiana. Peccato che, per farlo, Prince-Bythewood e la co-sceneggiatrice Dana Stevens prendano la strada più facile, demagogica, sensazionalistica e - giocoforza - più sciocca ed insulsa, traviando ed appropriandosi della storia vera di un popolo realmente esistito, per farne improbabile paladino delle proprie posizioni. Se già questo dovrebbe mettervi in guardia rispetto alla poca cura del prodotto, vi basti sapere che, pure sul fronte spettacolare, The Woman King si rivela essere un film anacronistico, polveroso, caotico e poco coinvolgente nell'action, retorico nelle sue illazioni pro-Oscar, pure più testosteronico dell’istituzione maschilista e machista di cui vorrebbe essere il controcanto, la risposta, l’aria di novità, l’urlo di libertà.
Prendere due piccioni con una fava: questo è sostanzialmente ciò per cui The Woman King di Gina Prince-Bythewood nasce ed impiega tutte le sue forze. In altre parole, trovare il luogo e l’occasione perfetti per instillare e raggruppare nello stesso contenitore filmico e nello stesso prodotto commerciale per il grande pubblico, le due principali correnti e tendenze inclusive dell’attuale industria e politica hollywoodiana. Da un lato, dunque, la spinta di legittimazione del movimento femminista #MeToo, dall’altro invece il grido di maggior rappresentanza portato avanti da quello Black Lives Matter. Sia subito chiaro, chi scrive non ha nulla in contrario ad una svolta più politicamente corretta, ad un impulso più inclusivo, se è sempre ai fini di una storia ben raccontata e di un'idea di cinema interessante e stimolante.
Peccato invece che Prince-Bythewood, la soggettista Maria Bello e la co-sceneggiatrice Dana Stevens, questo luogo e questa occasione, la trovino nel regno di Dahomey, in Africa occidentale, all’inizio del XIX secolo. Un regno, quest'ultimo, caratterizzato dall’istituzione e dalla presenza delle Agojie, un corpo di guerriere scelte, amazzoni e guardie del corpo al servizio del re. Figure che destarono grande interesse negli esploratori e colonizzatori europei, che le descrissero come donne “in grado di competere con gli uomini in quanto a resistenza e capacità di sopravvivenza alle privazioni”, “resistenti nel corpo e sono in grado di svolgere tutti i lavori pesanti”, ma che spesso altro non erano che giovani ragazzi senza altro futuro se non quello del matrimonio combinato, che venivano offerte dalle famiglie oppure si offrivano loro stesse volontarie per ambire ad una migliore posizione sociale, a patto di rinunciare ad una possibile maternità, oltre che all’amore. Anzi, proprio per questo motivo, queste erano tenute a prestare un voto di castità alla divinità Dewin, per non parlare del ricorso a pratiche molto violente come l’escissione.
Quella rappresentata da queste guerriere scelte era dunque, sì, una femminilità emancipata, diversa, innovativa, antesignana che dir si voglia, ma ci si accorge ben presto che il processo e la tradizione a cui esse venivano sottoposte conduceva irreparabilmente ad una virilizzazione e maschilizzazione di tale femminilità, a tal punto che molti occidentali riferirono di aver difficoltà a distinguerle dai loro commilitoni maschi.
Ma allora perché “peccato”? Ecco, se The Woman King avesse anche solo accennato questo discorso - senz’altro più complesso, ma ciononostante estremamente interessante - di virilizzazione del femminile (probabilmente in riparazione proprio di un’indipendenza chiara, netta, indiscussa di queste donne), ora staremo per scrivere del film con parole del tutto diverse.
Al contrario, purtroppo, Prince-Bythewood (checché ne dica) sceglie la strada più facile, demagogica, manichea, sensazionalistica, pamphlettistica e - giocoforza - più sciocca ed insulsa, dando vita ad una vera e propria appropriazione indebita e conveniente dei fatti, plasmando e passando al setaccio gli aspetti positivi di quella “storia vera” su cui si erge tutto l’impianto marketing del progetto, per farne eccellente pezza d’appoggio, uso e consumo di una retorica languida, limpida, priva del benché minimo chiaroscuro.
Pertanto, laddove l’idea e l’intenzione alla base è chiarissima: raccontare qualcosa che non è mai avvenuto per donare a Sony il suo Black Panther (fuori tempo massimo); subdoli e di fatto immorali, sull’orlo dell’indecenza, sono i modi, gli espedienti, gli artifici e le libertà che The Woman King si concede per lavarsi innanzitutto la coscienza, per poi abbracciare e portare avanti il proprio discorso, il proprio grido (che, nel suo panorama produttivo, giunge forse sin troppo in differita). Partendo dalla descrizione cerchiobottista, edulcorata e falsata, oltre che patetica ed inizialmente caotica, del contesto storico-sociale, passando per la rappresentazione sempre e comunque epica, eroica, mitica, iconica delle Agojie e di tutto ciò che le riguarda, fino ad arrivare alla scelta più disonesta, perversa ed arbitraria di tutte, all’estrema conseguenza, al vizio di forma e alla contraddizione massima della corsa rappresentativa di Hollywood e della grande epopea del cinema americano.
Ossia dotare - sempre ai sensi del marchio di garanzia della “storia vera” - il regno di Dahomey di una spinta riformista e progressista mai avvenuta, o meglio stravolgere, dalle fondamenta e in un batter d’occhio, l’ordinamento, le cronache, la memoria di un intero popolo, noto e arricchitosi, nei decenni, grazie ad una delle più grandi tratte di schiavi dell’Africa occidentale, per farne utile, affettato ed istantaneo paladino e portabandiera di posizioni anti-schiaviste e femministe. Per il mero tornaconto di un testo irresponsabile che, a differenza di quanto dice una delle attrici coinvolte, dubitiamo sarà “un nuovo modello” per il cinema statunitense.
Uno che annega i suoi moti nell’abisso di una contraddittorietà, ipocrisia e falsità davvero irritanti, poco perspicace nel sottovalutare la reperibilità delle informazioni su Internet e quindi nel traviare una storia di cui si può leggere e scoprire tutta la verità con qualche semplice click (una ricerca illuminante che vi consigliamo vivamente di fare), paradossalmente stereotipato quando esula dall’elemento femminile, ed infine ricolmo di errori di percezione, come, ad esempio, quello di far dipendere e decidere del futuro e dell’ascesa della Donna Regina del titolo ad un uomo, rappresentante dispotico e assoluto di una società maschilista e fallocratica (il re Ghezo portato in scena da un anestetizzato, esiguo e fievole John Boyega).
Ora, sappiamo benissimo che alla maggior parte del pubblico che vedrà il film di Gina Prince-Bythewood importerà il giusto quanto di vero (ed etico) c’è nella storia delle Agojie. Fra l'altro, ognuno è liberissimo di credere alle fiabe e alle utopie che preferisce, anche quelle che reprimono e denunciano la violenza razziale con altrettanta violenza, fanno opera di revisionismo, o trattano letteralmente(!) la Storia come un qualsiasi capitolo di Guerre Stellari.
Sappiate però che se pure vi approccerete alla visione per il mero spettacolo e il valore intrattenente della produzione, The Woman King potrebbe non riservarvi poi grandi gioie, soddisfazioni e sorprese. D'altro canto, se tutti sono liberi di credere alle verità studiate a tavolino dall’ingranaggio di una grande macchina turbocapitalista, ognuno è anche libero di accontentarsi di una pellicola che, nel suo tentare invano di rifarsi e riportare in auge il grande kolossal epico di fine anni ‘90 - inizio 2000 - solo adattato allo zeitgeist odierno -, finisce per sembrare fatalmente antiquato ed anacronistico.
Accontentarsi, insomma, di una pellicola che procede indolente e programmatica, stiracchiandosi a dismisura fino a raggiungere la fatidica durata di due ore e dieci (con un finale eufemisticamente diluito), che affida ad un melò tanto proverbiale ed inconsistente da divenire apatico, dalle soluzioni ridicole (il dente di squalo!), tra una love story che mette a disagio per la differenza d’età percepita dei suoi due protagonisti, incursioni nel romanzo di formazione e contaminazioni da film sportivo; il compito di compensare l’imperizia di una componente action caotica nell’orchestrazione delle sequenze, poco chiara nella distribuzione e descrizione delle forze in campo e, in generale, poco coinvolgente, malgrado alcune coreografie acrobatiche niente male.
Un film, The Woman King, che oscilla costantemente tra scambi e dialoghi pomposi ed enfatici da peplum anni ‘60 e monologhi pamphlettistici ed evidentemente retorici, in cui ogni attore, a turno, tenta di aggiudicarsi una candidatura durante la prossima stagione dei premi. In primis, Viola Davis che fa di tutto per collimare la poca sostanza di una scrittura-manifesto con una prova intensa e febbrile. Ma anche la giovane protagonista Thuso Mbedu (già apprezzata ne La ferrovia sotterranea) e la lanciatissima Lashana Lynch (la più credibile del mucchio come eroina e corpo action, dopo l’esperienza come nuova 007) ci provano e talora riescono a reggere interamente sulle loro spalle le magre speranze dello script e di una produzione che appare preconfezionata, assemblata quasi da un’intelligenza artificiale, secondo un modulo precompilato: dalle ambientazioni insipide, più simili a fondali inerti, all’orrenda fotografia di Polly Morgan, fino ad arrivare alle musiche di Terence Blanchard.
A dirla tutta, sembra quasi un film Netflix mancato, The Woman King. D’altronde l’ultimo di Prince-Bythewood, The Old Guard, altro emulo dell’estetica e del cinema supereroistico, proprio lì era andato a finire. Ciò nonostante, mostrava idee e portava sul piatto questioni ben più interessanti (purtroppo mal sviluppate) ed un racconto decisamente più convincente (seppur registicamente fosse altrettanto blando) di questo: polveroso nell’idea di spettacolo che porta avanti, estremo nel modo in cui innesta discorsi ed inquietudini del presente all’interno del racconto per farne mera apologia, ultimo esemplare di un cinema forse addirittura più testosteronico dell’istituzione maschilista e machista di cui vorrebbe essere il controcanto, la risposta, l’aria di novità, l’urlo di libertà.
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