TITOLO ORIGINALE: No Time To Die
USCITA ITALIA: 30 settembre 2021
USCITA USA: 28 settembre 2021
REGIA: Cary Fukunaga
SCENEGGIATURA: Cary Fukunaga, Neal Purvis, Robert Wade, Phoebe Waller-Bridge
GENERE: avventura, azione, spionaggio, thriller
Cary Fukunaga raccoglie il testimone di Sam Mendes e prende in mano le redini di una delle saghe più longeve della storia del cinema, confezionando un capitolo (il venticinquesimo, l'ultimo dell'era Craig) che fa di stile, precisione e rigore le sue principali chiavi di volta. Pur non brillando infatti per chissà quali intuizioni registiche o slanci compositivi, No Time to Die custodisce un paio di sequenze e momenti che, da soli, valgono il prezzo del biglietto, merito di una costruzione esatta e ritmata dei frammenti più prettamente action, di un forte senso di coesione ed organizzazione delle anime produttive e della direzione di un ensemble attoriale talmente ben assortito, da essere quasi commovente. Ciò nonostante, la vera punta di diamante di questo Bond 25 è il modo in cui riesce a dar vita ad un racconto che parte da Proust e riesce a sfiorare i canoni degli 007 più classici e pertanto più drammaturgicamente "sciocchi". Il che è tutt'altro che un problema, specie se questo intreccio serve poi per condurre un'analisi interessantissima, spesso demistificatrice, della figura dell'agente doppio zero, qui attore/spettatore di un'avventura alla ricerca del tempo perduto, contro l'unico nemico che non riuscirà mai a fermare. Il tempo.
You know my name. Così, nel lontano 2006, cantava il compianto Chris Cornell nella title track di Casino Royale di Martin Campbell, ventunesimo capitolo della celebre serie dell’agente 007 (di cui funge anche da reboot) ed ouverture per un Daniel Craig chiamato a raccogliere il testimone di Pierce Brosnan e vestire i panni della spia nata dalla penna di Ian Fleming nell’altrettanto lontano 1953.
E il buon Cornell aveva proprio ragione: quello di Casino Royale era un Bond(, James Bond) di cui conoscevamo il nome… e poco altro. Infatti, l’agente lì presentatoci dal duo di sceneggiatori Neal Purvis e Robert Wade - già approcciatosi alla serie con l’amato GoldenEye dello stesso Campbell - era poco meno di un foglio bianco da riempire, scrivere e riscrivere. Su quello stesso foglio, scritta con inchiostro simpatico, l’eredità di un passato - la Guerra Fredda - lontano, mesto ed allora (ed oggi) impossibile poiché politicamente riconoscibile - ormai rievocabile solo attraverso il suadente, ma spietato bianco e nero di un flashback d’apertura -, a cui rifarsi o da plasmare secondo nuove esigenze e nuovi modi di intendere l’eroe o, meglio, l’antieroe d’azione per eccellenza.
Lo 007 di Casino Royale non era altro che uno sbarbatello sicuro di sé e smodatamente egocentrico che pian piano veniva a conoscenza del significato e del valore della famigerata licenza di uccidere. Un personaggio il cui fascino risiedeva innanzitutto nel contrasto perennemente accentuato e tratteggiato - tanto dallo sguardo di Campbell, quanto dalla penna di Purvis e Wade - tra una fisionomia gelida ed inconsueta ed un’analisi psicologica che ne lasciava intravedere un lato più romantico, focoso, appassionato ed appassionante.
Oggi, a ben 15 anni di distanza da quella grandissima rivoluzione che è tuttora Casino Royale (lo era anche solo per la scelta di aggiungere un quarto atto ai tre canonici, oppure quella di sospendere l’azione, sostituendola con un’entusiasmante partita di poker), possiamo affermare con certezza che, di questo Bond, James Bond, conosciamo ben più che il nome.
Merito anche dell’azione senza pretese di Quantum of Solace, di un crepuscolare, folgorante e disilluso Skyfall, e di un (per certi versi) propiziatorio Spectre. Lo 007 di Daniel Craig (anche se, qua e là, sarebbe meglio dire “di Purvis e Wade”) non è solo, a nostro modesto parere, il migliore subito dopo quello di Sean Connery, ma anche e soprattutto il doppio zero del cambiamento, quello più tridimensionale di tutti, più James e meno Bond (per quanto paradossale possa sembrare), più slegato dalla carta stampata, ma al contempo più intrinseco allo/dello schermo. Quello più realmente vicino ai cuori e allo spirito del pubblico, che riesce a comprenderlo e ad empatizzare maggiormente con un personaggio che, a differenza degli "altri prima di lui", appare meno inarrivabile - pur essendo comunque "incredibile".
L’uomo fragile, rotto, relativamente comune, maniacalmente sviscerato e decostruito dall’istanza narrante, che diventa leggenda, mito, icona: quello di Craig è il Bond del XXI secolo (quello post 11 settembre, post Grande recessione, post cybersecurity), suscettibile, talora soggiogato, altre volte espressione di ogni sua tendenza, movimento o rivoluzione, sia essa intra- od extra-filmica.
Colpisce, in tal senso, l’accuratezza, il modo e il soggetto con cui questo percorso di cambiamento e rivisitazione raggiunge il suo culmine e si compie, una volta per tutte, in No Time to Die di Cary Fukunaga, venticinquesimo film di questa epopea ultradecennale, quinto ed ultimo film dell’era Craig, primo a vedere dietro la macchina da presa un regista non anglosassone.
In base a quanto scritto sopra dunque, quale migliore dimostrazione di questa capacità di registrazione della contemporaneità se non un'opera che, se nei suoi personaggi, propone ed incorpora con naturalezza e coerenza filologica le recenti spinte #metoo, già solo dal soggetto, offre invece un racconto dell’attuale situazione pandemica talmente profetico da risultare inquietante (specie considerando che la pre-produzione è iniziata nel 2016)?
Il canto del cigno della gestione Craig, Neal e Purvis - aiutati qui dallo stesso Fukunaga e da Phoebe Waller-Bridge (investita e richiesta a gran voce dallo stesso attore per rimaneggiare le prime stesure dello script) -, lo costruiscono infatti attorno alla minaccia di un terrorista, Lucifer Safin (un Rami Malek efficiente), intenzionato a vendere al migliore offerente fialette di un virus, soprannominato Heracles, contenente nanobot che si diffondono al tatto e sono codificati su specifici filamenti di DNA, cosicché che siano pericolosi solo se programmati secondo il codice genetico di un individuo.
Questo richiamo all’azione e all’avventura coglie Bond nel mezzo del suo vagare senza meta in compagnia di Madeleine Swann (interpretata da un’incantevole Léa Seydoux, la quale si riconferma come uno dei volti più singolari, intensi ed affascinanti dell’intera serie), la figlia di uno dei fedelissimi della Spectre, Mr. White, che nel film omonimo di Sam Mendes rubava il cuore all’agente, il quale ciononostante non pare aver ancora dimenticato del tutto l’amore e la passione per Vesper Lynd.
A tal proposito, è proprio il ricordo o, meglio, l('esplosione dell)a tomba di quest'ultima a trascinare l’agente nuovamente nel reame delle ombre del passato, costringendolo ad imbracciare le armi un’ultima volta e fare squadra con il vecchio team del MI6, quest’ultimo recentemente arricchitosi di Nomi (una Lashana Lynch che si fa ricordare), agente talmente brillante da riscuotere il vecchio numero identificativo del nostro Bond...
No Time to Die è uno 007 tipico e atipico, classico e moderno (talora, addirittura rivoluzionario), prevedibile e sorprendente al tempo stesso. Questo, Fukunaga, appare chiaro fin dal primissimo segmento, nel quale, subito dopo la consueta sequenza gunbarrel d'apertura, si imbastisce un lunghissimo flashback sullo sfondo di una Norvegia immersa nella neve, iconograficamente simile a quella dei thriller scandinavi alla Larsson, alla Nesbø, alla Läckberg, alla Uomini che odiano le donne, per intenderci; che diventa scenario di quel grande e recondito trauma (l’omicidio della madre) che Madeleine Swann rievocava a James in uno dei migliori frammenti del già citato Spectre. È questa solo un'oncia di un testo, No Time to Die, che, sulla parola e sul concetto di ricordo e reminiscenza, fonda gran parte del proprio racconto, del proprio senso e dei propri discorsi.
Da un lato, abbiamo quindi i ricordi di un “passato futuro” che tornano a galla (così come torna letteralmente a galla Madeleine nella sequenza subito successiva a quel flashback di poco sopra), da cui è bene guardarsi le spalle (in riferimento ad una delle battute della Swann a Bond nel film precedente, che torna anche qui), impossibili da seppellire, da custodire su foglietti di carta che verranno poi bruciati, che possono esplodere, opprimere, ferire e (perché no?) uccidere, ma capaci, al contempo, di rinnovare il classico impianto bondiano.
Dall’altro, parliamo invece di ricordi di un “futuro passato” che portano l’istanza narrante a riflettere e ragionare, smontare e rimontare, demistificare e celebrare, revisionare ed attualizzare la figura di Bond, dando forma a quella che potremmo considerare una delle visioni più complesse ed affascinanti del personaggio, qui protagonista (proustiano) di un’avventura (alla ricerca del tempo perduto, con tanto di madeleine, termine che, per l'autore francese, indica una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore, un sapore o un profumo capaci di evocare ricordi del passato) di cui sarà attore e spettatore. Che lo farà soffrire come mai prima d’ora, ma gli farà anche toccare vette drammaturgiche del tutto impensabili. E che, alla stregua del racconto ideato dal trio Purvis-Wada-Fukunaga, ne mostrerà la forma e l’incarnazione più matura, che corrisponde paradossalmente ad una delle sue costruzioni e concezioni più classiche.
Stiamo parlando, ad esempio, del Bond di Licenza di uccidere o di Al servizio segreto di sua maestà, capitolo (il sesto) a cui No Time to Die deve moltissimo - al di là di qualche somiglianza in termini prettamente narrativi e della scelta di utilizzare We Have All The Time in The World di Louis Armstrong per accompagnare i titoli di coda - principalmente poiché presenta, per la prima volta, uno 007 più umano e sentimentale, diametralmente opposto al mito conneriano.
E umano, il Bond di Craig e, in particolar modo, di No Time to Die, lo è. Tanto. E non solo per ciò che gli accade sul finale (a nostro avviso, una perfetta lettera di dimissioni), ma anche per come si dà e mostra al pubblico, o anche solo per le molteplici nuance espressivo-recitative con cui l’attore interpreta ed incarna quella che è la scrittura di Purvis, Wade, Fukunaga e Waller-Bridge.
D’altro canto, contestualmente all’era Craig, No Time to Die è forse il capitolo che, più di tutti, recupera, restituisce e ricorda (eccolo che torna) quel senso di assoluta affabulazione, di divertimento innato, di vibrante esotismo e di varietà contenutistica delle iterazioni-pilastro della serie. Come non rituffarsi nelle acque della Giamaica, sfondo del primissimo 007, nascondiglio per l’isola-base segreta del Dr. No ed utero per Ursula Andress e la sua Honey Ryder (la prima, unica ed inimitabile Bond girl), alla sola vista del rifugio di Safin - che, di quello del dottore, ne condivide il fato? Per non parlare poi dell’inverosimiglianza di alcuni risvolti di trama che sembrano fuoriusciti direttamente dai capitoli con Pierce Brosnan. O della cura effettistica, dell’ironia pungente e della svolta pseudo-fantascientifica, tutti elementi tipici dei Bond con Roger Moore. Ma anche di quel senso di obsolescenza (già introdotto in Skyfall e approfondito in Spectre) che è uno degli assiomi fondamentali del periodo (Timothy) Dalton.
Cary Fukunaga prende le redini della serie, raccogliendo un’eredità non facile, quella di Sam Mendes e dei suoi due Bond - che, tecnicamente parlando, sono a dir poco ineccepibili -, riuscendo tuttavia a non sfigurare, anzi confezionando un capitolo che fa di stile, precisione e rigore le sue principali chiavi di volta.
Pur non brillando infatti per chissà quali intuizioni registiche o slanci compositivi (fatta eccezione per il modo in cui “reinventa” e “reimmagina” il gunbarrel), No Time to Die custodisce un paio di sequenze e momenti che, da soli, valgono il prezzo del biglietto; capaci di fissarsi indelebilmente nella mente e nel cuore degli spettatori (siano essi più o meno affezionati o, addirittura, conoscitori della serie).
Grandi pezzi di cinema che devono tutto il proprio successo ad una costruzione esatta e ritmata dei frammenti più prettamente action, ad un forte senso di coesione ed organizzazione delle anime produttive, alla direzione di un ensemble attoriale ben assortito (tra cui è d’obbligo citare una Ana De Armas sbalorditiva), alla fotografia semanticamente impegnata di un Linus Sandgren che sa raccontare gli spazi, scandire i momenti e dosare i toni del racconto, ed, ultima ma non per importanza, alla colonna sonora di un Hans Zimmer che, grazie soprattutto all’arrangiamento della title track di Billie Eilish, si redime da quel collage disimpegnato e pressapochista che è la soundtrack di Dune. Non fosse per quello spudorato riciclo del tema de Il cavaliere oscuro sul finale, avremmo potuto urlare al ritorno in pompa magna dello “Zimmer di un tempo”.
Quando si potrà ritenere giusto morire? Ma poi cosa significa veramente morire? Qual è il senso della vita? È come sfruttiamo il tempo a nostra disposizione, quello che cerchiamo di afferrare invano? Oppure è ciò che ci lasciamo alle spalle, sia esso una tomba esplosiva, una famiglia o una leggenda che, in fin dei conti, “è solo un numero”? Sono queste le domande che, come crepe nel ghiaccio, si dischiudono di fronte agli occhi, nostri e di Bond.
Dopo una vita passata ad inseguire, pedinare, sparare, pugnalare, soffocare, annegare, pestare, indagare, sospettare, rintracciare, vivere, morire e resuscitare, 007 è chiamato a scontrarsi con il suo acerrimo nemico, l’unico che non riuscirà mai a fermare. No, non Safin, ma il tempo. Quello che scorre lento ed inesorabile, inghiottendo, tra le sue sabbie, gli idoli di una vita, di una serie, di un’eredità. Ma anche quello che può separare due missili dall’impatto. Quello socio-culturale che si ripercuote irrimediabilmente sulla percezione che, dell’agente Bond, James Bond (attuale e passato), abbiamo oggigiorno. Oppure ancora quello presente di una pandemia che, tra neologismi di vario tipo (smart working, lockdown), ci ha tolto la possibilità di toccarci, sentirci, amarci e viverci.
È allora questo il motivo per cui è venuto il tempo di morire? Forse sì, o almeno lo è per Craig. Non certo per Bond, la cui storia vivrà ancora a bordo di una Aston Martin che imbocca una galleria (o sarebbe meglio dire un gunbarrel?) all’ora del Vespro.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.