TITOLO ORIGINALE: Black Panther: Wakanda Forever
USCITA ITALIA: 9 novembre 2022
USCITA USA: 11 novembre 2022
REGIA: Ryan Coogler
SCENEGGIATURA: Ryan Coogler, Joe Robert Cole
GENERE: azione, avventura, fantascienza
DURATA: 161 min
La Marvel è pronta a lasciarsi alle spalle una Fase 4 (nata, evolutasi e conclusasi nel segno di un evidente smarrimento narrativo e di una ricerca disperata di nuovi idoli, di una nuova fonte di energia sostenibile per le proprie storie), una volta superate quelle che, col senno di poi, paiono tre pure formalità. Ossia il rimandatissimo Black Panther: Wakanda Forever, l'omaggio - senz'altro sentito, ma talora forzoso e programmatico - al compianto Chadwick Boseman, e l'elezione di un nuovo, o meglio, una nuova Pantera Nera. Purtroppo, il sequel del fortunatissimo e, per certi versi, rivoluzionario cinecomics di Ryan Coogler si rivela essere un film interessante sotto il profilo meramente attoriale e di production design, tuttavia prolisso, superficiale ed indeciso nelle scelte che accenna e poi non persegue, prevedibile nel racconto, indolente nello storytelling, inetto ed incerto nell'orchestrazione registica, scadente nella computer grafica.
The show must go on, diceva qualcuno. Lo spettacolo deve sempre andare avanti, soprattutto se sei una febbrile e colossale macchina industriale che, ogni anno, fattura miliardi di dollari con i suoi franchise e tutto ciò ad essi collegati, dalle attrazioni in parchi ambitissimi al merchandising. Lo spettacolo deve sempre andare avanti, specie se ti chiami Kevin Feige e devi tenere le fila di una macro-trama che sembra non essersi ancora riabilitata dal cataclisma di Avengers: Infinity War ed Endgame, evitando inoltre che un progetto editoriale già di per sé in una fase di evidente crisi crolli su sé stesso e cominci ad inimicarsi un pubblico finora abbastanza fedele. Lo spettacolo deve sempre andare avanti anche per la piccola, ma forte nazione (immaginaria) del Wakanda, con tutto ciò che, di diegetico ed extradiegetico, ne comporta.
Black Panther è infatti tutt'oggi un film più interessante per ciò che, allora, ben più di quattro anni fa, gli gravitò attorno, che non per l’eccezionalità di ciò che, di meramente filmico, narrativo ed emozionante, proponeva allo spettatore. Una pellicola importante, tanto per lo smisurato mondo Disney, quanto per lo shock che provocò all’interno del tessuto socio-culturale e della storia del prodotto audiovisivo statunitense, assurgendo non solo a primo, vero compimento mainstream di un discorso e di un movimento di emancipazione e grido di riscatto, rappresentatività e consapevolezza della comunità afro-americana - reduce da otto anni di presidenza Obama che avevano cambiato ben poco nell'assetto politico, sociale e culturale, come diceva già Jordan Peele nel quasi coevo Scappa - Get Out -, ma arrivando addirittura ad aggiudicarsi ben tre premi Oscar su sette candidature (tra le quali ricordiamo quella come miglior film - sorprendente, poiché trattavasi della prima nomination di questo tipo per un cinecomics).
Ebbene, anche in nome di tutto ciò che fu ed è tuttora Black Panther per una grossa fetta di pubblico, il seguito Wakanda Forever, sempre diretto da Ryan Coogler, è la lampante dimostrazione che nulla - nemmeno la morte di un attore o, come in questo caso, dell’attore protagonista, dello stesso Pantera Nera, Chadwick Boseman, venuto a mancare nell’agosto 2020 dopo una lunga e silenziosa lotta contro un brutto tumore al colon - può e deve fermare la grande macchina industriale hollywoodiana, la quale non solo corregge in corsa le mire narrative della propria storia, ma fa della morte e della malattia del suo interprete concreto ed utile materiale emozionale e catartico ad uso e consumo della propria finzione.
Etico o meno, è proprio con il tentativo fallimentare da parte di Shuri, sorella di T’Challa e principessa del Wakanda, di salvare il fratello dalla malattia, e con il conseguente funerale e omaggio al re - uno con tutti i crismi di sorta, dai ralenti da videoclip alla colonna sonora, passando per la commozione, evidentemente autentica, dei coinvolti -, che si apre Black Panther: Wakanda Forever. Ed è appunto per questo motivo, per “rispettare” e preservare la memoria, l’importanza, l’iconismo, insomma, tutto ciò che Boseman ha rappresentato fuori e dentro il Marvel Cinematic Universe, che gli sceneggiatori, ossia lo stesso Coogler e Joe Robert Cole, sono stati costretti, volente o nolente, a deviare da quella che avrebbe potuto essere la strada ideale e logica, e concentrare, viceversa, gran parte dei loro sforzi per garantire a tutti quei personaggi (la principessa, la regina madre Ramonda e la compagna Nakia) che, da secondari com’erano nel film del 2018, diventano pertanto obbligatoriamente protagonisti; un adeguato percorso di elaborazione del lutto.
Venuti dunque a mancare i due cardini narrativi e veicoli discorsivi del fortunatissimo primo capitolo (nella finzione, Killmonger e, nella realtà, T’Challa), la serie di Black Panther e il Wakanda si fanno donna, passano nelle mani di un matriarcato che si ritrova catapultato in uno scenario geopolitico nel quale la "piccola, ma potente" nazione afrofuturista diventa il polo di maggiore attrattività per i paesi occidentali, per le infinite risorse e i numerosi giacimenti di vibranio.
In un certo senso, Coogler asseconda quindi la profezia pronunciata, in punto di morte, dal villain interpretato da Michael B. Jordan (senz’altro uno degli aspetti più riusciti, nonché il personaggio più complesso del primo film) e prende la strada del post-colonialismo, portando quindi la dialettica e lo scontro fortemente politico di posizioni alla base di Black Panther (che, ricordiamo, trovava una sintesi alle visioni, da un lato, di Martin Luther King e, dall’altro, di Malcolm X) ad un livello teoricamente superiore, più collettivo e collettivizzante, ambizioso, complesso, stratificato, oltre che sott’acqua.
Già perché, in Wakanda Forever, un ruolo di primo rilievo è giocato da una nuova, grande forza. Vale a dire il popolo sottomarino di Talocan guidato dal re/mutante/dio serpente piumato mutuato direttamente dalla tradizione azteca Namór [il motivo per cui l’accento cambia rispetto alla controparte cartacea viene specificato ed è quanto di più sciocco e ridicolo], molto affascinante in termini mitopoietici, immaginifici ed iconografici, seppur evidente debitore (per una volta) di quanto fatto da DC/Warner e James Wan in Aquaman.
Ciò detto, superata una prima parte di requiem senz’altro sentito da chi lo “interpreta” e di grande atmosfera, ma che ciononostante, e malgrado la sommaria amabilità di scambi e relazioni (vecchi e nuovi), non commuove, né emoziona mai come vorrebbe, apparendo anzi, a tratti, addirittura programmatico e forzoso; Black Panther: Wakanda Forever apre i propri orizzonti ad un intrigo spionistico che sembrerebbe riecheggiare i fasti di Captain America: The Winter Soldier (ad oggi, uno dei Marvel movies). Peccato che, pur con tutte le buone intenzioni, Coogler non sia poi in grado di approfondire, esplorare, esprimere e portare alle estreme conseguenze questo itinerario narrativo ed estetico e, con esso, gli attacchi diretti all’Occidente, al suo perbenismo e alle sue ipocrisie, ancora figlie di un atteggiamento colonialista e suprematista; e i temi di profonda e scottante attualità - da un lato, la corsa alle risorse energetiche, dall’altro, la futuribile minaccia acquatica provocata dal riscaldamento globale e dal cambiamento climatico -, i quali perdono il loro mordente, rivelandosi in tutta la loro pochezza, superficialità e puerilità, una volta che l’intreccio cambia nuovamente di pelle.
Giunti a metà film, infatti, il vero fulcro del sequel di Ryan Coogler diventa la disputa, le tensioni e le schermaglie tra due popolazioni (finzionali!) idealmente e storicamente sorelle. Un segmento, quest'ultimo, in cui, ahinoi, l’impalcatura visiva, narrativa, spettacolare ed esperienziale di Black Panther: Wakanda Forever rivela tutte le sue enormi debolezze, prima inciampando nell’approssimazione e nella svogliatezza della scrittura di un intreccio fin troppo semplicistico per una durata così generosa (poco più di due ore e quaranta, che fanno del film il secondo più lungo dell’universo Marvel, subito dopo Avengers: Endgame), poi schiantandosi, in maniera decisamente più eclatante di quanto già avviene nella prima metà, contro i limiti di una computer grafica spesso scadente e mai performante (il risultato inevitabile, come già approfondito in altre sedi, dello sfiancante tour de force a cui sono sottoposti i vfx artists della major), ed infine pagando amaramente l’incapacità ed incertezza, ancora evidenti e purtroppo fortemente debilitanti, di Ryan Coogler tanto nell’orchestrazione e nella resa fluida (leggasi il montaggio ridondante e scriteriato di Michael P. Shawver, Kelley Dixon e Jennifer Lame) delle sequenze più prettamente action, quanto nella tenitura, nel controllo e nella supervisione dei ritmi, dei toni, degli equilibri nel racconto dei personaggi, dell’intensità, del passo o del cosiddetto momentum del proprio affresco.
Difetti, questi ultimi, semplicemente inaccettabili non solo per un blockbuster da 200 milioni di dollari, ma anche e soprattutto per l’inserto di un progetto che, negli anni, tra semplici mestieranti e voci registiche più intraprendenti (seppur sempre e comunque nei limiti di un rigido controllo produttivo), ci ha abituato a standard di confezionamento e rifinitura ben più soddisfacenti e compatti.
Esaurito il sense of wonder per la scoperta di un nuovo mondo, Black Panther: Wakanda Forever pecca inoltre di pochissima personalità, tanto nelle scelte che accenna e poi non persegue (in questo senso, per chi scrive, la sequenza mid-credit è un gesto ed intervento alquanto vigliacco), quanto nella caratterizzazione e vivacizzazione di un intreccio dalla progressione indolente e prevedibile e dalla conclusione indecisa e politicamente confusa.
Ciò che rimane è allora una rappresentazione sbiadita, annacquata e macchinosa che, purtroppo, non riesce a trovare speranze di riscatto né in un comparto costumi ed un design di produzione ricchissimi in fatto sia di estetica, che di significati (come sempre avviene, d’altronde, nei film Marvel, in cui ogni oggetto e materiale arriva ad esprimere sempre qualcos’altro, qualcosa di più grande ed elevato del mero fascino artistico), né tantomeno in una colonna sonora, sempre firmata da Ludwig Göransson, di nuovo accattivante e di nuovo perfetto strumento per sopperire alle mancanze epiche della costruzione visiva di Coogler, né in un ottimo parterre di interpretazioni (tra cui sono da citare quelle di un ambiguo e teatrale Tenoch Huerta, di una vibrante Letitia Wright e di una regale Angela Bassett), doppiaggio permettendo ed ovviamente nei limiti di un ecosistema filmico di non facile soggiorno e di una scrittura non sempre brillante. Una scrittura, che, tra le sue principali responsabilità, ha anche quella di sminuire il potenziale di due personaggi interessantissimi come Nakia o la neoarrivata Riri Williams, quest'ultima già pronta per una serie solista su Disney+.
D’altronde, come già ripetuto, lo show deve andare avanti e la Marvel, sbrigata quella che, alla fin fine, appare soltanto una pura formalità, ossia l’omaggio a Boseman (indubbiamente meno d’impatto e romantico di quello fatto invece a Paul Walker in Fast & Furious 7), è ora pronta a voltare pagina e a chiudere, una volta per tutte, il capitolo su una Fase 4 sospesa tra punte di splendore e sperimentazione ed altre di assoluta mediocrità.
Invero, è proprio su Black Panther: Wakanda Forever, o, in altre parole, su questa crasi di tre episodi filler, che si giocherà il destino più prossimo dei Marvel Studios, tuttora traumatizzati dalla perdita del loro geocentrismo, disarticolati, smarriti, alla disperata ricerca di nuovi idoli, di un futuro possibile, di una nuova fonte di energia sostenibile per le proprie storie (e il proprio portafoglio). Insomma, del loro vibranio. Come direbbero loro, how ironic.
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