TITOLO ORIGINALE: La stranezza
USCITA ITALIA: 27 ottobre 2022
REGIA: Roberto Andò
SCENEGGIATURA: Roberto Andò, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso
GENERE: commedia
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Primissima co-produzione Rai Cinema-Mediaset, fortunato matrimonio tra Toni Servillo (sempre magistrale, anche in punta di piedi) e Ficarra e Picone (qui alle loro migliori interpretazioni), ma anche storia della genesi di una pietra angolare della drammaturgia italiana e mondiale, La stranezza è un film di per sé coerente con il titolo. Strano, stranissimo. Ma anche bellissimo. Il più raffinato, ricco, divertente, appassionante, coeso ed internamente coerente della filmografia di Roberto Andò. Ma anche il più pirandelliano, forse uno dei film più pirandelliani che il cinema italiano abbia visto, quantomeno dai tempi di Kaos dei fratelli Taviani. Il racconto di un Autore in cerca dei suoi (Sei) personaggi. Una catabasi simil dantesca nel gioioso, vorticoso, vivido limbo della farsa della vita e dell’(auto)esorcizzazione della morte, del genio, del labirinto della mente, della stranezza, del miracoloso tormento dell’arte.
Nomen omen, dicevano i latini. La stranezza di Roberto Andò è strano fin dai suoi presupposti produttivi e creativi, nel suo essere nientemeno che la primissima co-produzione (a cui speriamo ne seguano tante altre) tra le concorrenziali Rai Cinema e Medusa.
Strano, La stranezza lo è inoltre per il matrimonio attoriale che ostenta a buon ragione: quello tra Toni Servillo, uno dei massimi volti italiani e mondiali, un interprete di altissima levatura drammatica, inguaribile trasformista; e (Salvo) Ficarra e (Valentino) Picone, tra i migliori duo comici dello stivale, showmen televisivi e maschere eccellenti di buoni, se non ottimi testi come Il 7 e l'8, La matassa e L'ora legale.
Ed infine, strana, la pellicola di Andò lo è soprattutto per il modo inedito, originale, interessante, stimolante, sofisticato e raffinato con cui racconta (e non spiega, come fanno gran parte delle odierne produzioni nostrane in costume) l’ispirazione artistica, la creatività, la compenetrazione inevitabile, innata, necessaria tra realtà e finzione, tra vita vissuta e vita recitata, per poi giungere infine a ripercorrere la genesi di una pietra angolare del teatro e della drammaturgia italiana.
In maniera simile, o forse più di altri suoi componimenti, Sei personaggi in cerca d'autore è la dimostrazione, inchiostro su carta, di quanto la mente, l'intelletto, la perspicacia e il genio di Luigi Pirandello abbiano anticipato i tempi; abbiano inaugurato la post-modernità ancor prima che la modernità esistesse o addirittura venisse definita tale.
Ebbene, quest’opera - che scardinò dalle fondamenta le regole drammaturgiche, che fu vitale per la nascita della meta testualità, che fece letteralmente esplodere l’edificio teatrale (come dice il rassegnato ed incattivito Giovanni Verga di un magnifico Renato Carpentieri nel film di Andò), che rappresenta tutt'oggi la prima rappresentazione artistica del confronto tra l'Io dell'autore e i fantasmi dell'inconscio, che ispirò Carl Gustav Jung e Marie Louise von Franz, oltre che lo psicodramma di Jacob Levi Moreno, che venne fischiata, insultata, sputata alla sua prima rappresentazione, nel 1921, al Teatro Valle di Roma (un frammento che il regista ricostruisce integralmente, poeticamente e visceralmente nel meraviglioso finale) - nasce, per l’appunto, da una “stranezza”, un modo fanciullesco di definire i pensieri che diventano ossessioni, inventato, patrocinato e custodito gelosamente dallo stesso Pirandello insieme alla sua nutrice.
La stessa (qui interpretata, da viva e da morta, da una dickensiana Aurora Quattrocchi) per il cui funerale il poeta, romanziere e drammaturgo - di ritorno a casa per l’ottantesimo genetliaco del maestro Verga - si ritrova inavvertitamente a ripercorrere i propri passi da bambino, ritrovandosi a faccia a faccia innanzitutto con l’ironia della morte (una bocca di defunta che non vuole chiudersi) che lo ha sempre accompagnato, nella vita e nell'arte, e lo accompagnerà fino alla sua di morte.
Pirandello, che in questo momento non riesce a trovare la scintilla, l’epifania, la folgorazione necessarie a chiudere il suo prossimo testo (che sarà proprio Sei personaggi) e che, proprio per questo, scruta tutti i passeggeri del treno che lo porta in terra agrigentina, per la precisione a Girgenti - il treno, su e grazie a cui, come ci insegna Il fu Mattia Pascal o la novella Il treno ha fischiato, si compiono le decisioni importanti e avvengono stravolgimenti alla propria vita presente.
Lui, che viene continuamente sorpreso da visioni disturbanti, inquietanti, fumose di persone (legate al suo passato?) e personaggi che gli chiedono insistentemente colloquio. Che è sempre immerso nella scrittura, nei propri pensieri, nelle proprie allucinazioni. La cui vita è sempre stata e sempre sarà in bilico tra commedia e tragedia (dalla pazzia della moglie alla sua morte).
Pirandello, che, ne La stranezza, proprio durante questa discesa siciliana, fa la fortuita conoscenza di Nofrio e Bastiano, due becchini e attori e drammaturghi “dilettanti professionisti”, intenti a mettere in scena una tragicommedia dialettale intitolata “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu”, a metà tra leggenda e realtà, che paiono fuoriusciti dritti dritti da Kaos dei fratelli Taviani (e le coincidenze continuano dal momento che, proprio quest’anno, Paolo Taviani ha firmato un bellissimo film, Leonora addio, che, di questo, è insieme, praticamente, controcanto e seguito spirituale).
La pièce dei due becchini - assolutamente sgangherata e scritta a partire dalle dicerie e dai pettegolezzi di paese (appunto, l’inevitabile compenetrazione di realtà e commedia) - alle cui prove Pirandello assisterà di nascosto, ma anche i personaggi veri, quelli dietro le quinte, a sipario chiuso; fungeranno da spunto eccellente per il capolavoro del poeta premio Nobel, nel quale, non a caso, deciderà di omaggiare la realtà, la commedia della vita, facendola comparire in scena dalla platea, ovvero da quella porzione del teatro in cui è seduto il vero spettacolo (e spettacolare sarà proprio vedere le reazioni del pubblico a cotanta anarchia grammaticale, ardita romanticamente dall'autore).
Tutto questo è La stranezza, il film più raffinato, ricco, divertente, appassionante, coeso ed internamente coerente di Roberto Andò. Ma anche il più pirandelliano, forse uno dei più pirandelliani che il cinema italiano abbia visto - quantomeno dai tempi, appunto, di Kaos dei fratelli Taviani.
Più che dalle mere citazioni o dal semplice e didattico nozionismo (seppur presenti), La stranezza è pervaso infatti dallo spirito di Pirandello. Lo è innanzitutto nel suo tentativo di svelare il meccanismo e la magia della creazione artistica, il passaggio dalla persona al personaggio, “dall'avere forma all'essere forma”. Dunque, nella decostruzione dello spazio e dell’ambiente teatrale e nella messa in scena dalla colpevolezza dell’autore. Ma anche e soprattutto nella scomposizione delle strutture drammatiche, o, più semplicemente, nel gioco di scatole cinesi che imposta e su cui si destreggia continuamente, nella scrittura di rapporti compromessi sul nascere, di una solitudine senza rimedio, oltre che (anche se meno del dovuto) nella frammentazione della linea temporale - secondo Pirandello, infatti, la vita non segue un corso lineare.
Benedetto dalla sorprendente sceneggiatura da lui scritta assieme ad Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, Andò orchestra, senza timori o complessi di sorta (vero Pupi Avati?), un film bellissimo, sentito, passionale, capace di fare della comicità più semplice e vernacolare di Ficarra (più brighella e amabile) e Picone (più intellettuale, appassionato e spigoloso), qui nelle loro migliori interpretazioni, e della gravitas interpretativa di un Toni Servillo che aggiunge un’altra magistrale interpretazione al suo elenco stellare - una fatta quasi esclusivamente di sguardi, silenzi, ascolto, di entrate sommesse, in punta di piedi -; un composto omogeneo, logico, naturale.
Quasi un Qui rido io più affabile e meno magniloquente, La stranezza è soprattutto un'opera immersiva. Una in cui il regista palermitano riesce a far risaltare ogni singolo elemento e dettaglio della propria messa in scena: dalla fotografia ad olio di Maurizio Calvesi ai magnifici costumi di Maria Rita Barbera, dalla colonna sonora di Michele Braga ed Emanuele Bossi (capace di coniugare la farsa e la riflessività, che è poi la dicotomia alla base del film) alle finalmente vive scenografie di Giada Calabria, fino ad arrivare all’elegante montaggio ellittico di Esmeralda Calabria.
Un Autore in cerca dei suoi (Sei) personaggi. Una catabasi simil dantesca (con tanto di Virgilii) nel gioioso, vorticoso, vivido limbo della farsa della vita e dell’(auto)esorcizzazione della morte, del genio, del labirinto della mente, della stranezza. Un limbo di “sospesi”, perché la sospensione dell’incredulità, il “rendere plausibile quello che non lo è” è ancora il miracolo e il tormento, o meglio, il miracoloso tormento dell’arte.
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