TITOLO ORIGINALE: Leonora addio
USCITA ITALIA: 17 febbraio 2022
REGIA: Paolo Taviani
SCENEGGIATURA: Paolo Taviani
GENERE: drammatico
PREMI: Premio FIPRESCI al festival del cinema di Berlino 2022
Il maestro Paolo Taviani torna dietro la macchina da presa, per la prima volta da solista, quattro anni dopo la scomparsa dell'amato complice artistico, ancor prima che fratello, Vittorio, intrecciando il racconto del travagliato viaggio da Roma ad Agrigento delle ceneri di Pirandello con l'adattamento de Il chiodo, l'ultima novella da lui scritta prima di morire nel 1935. Assistito dalla fotografia elegante, al limite della perfezione, di Paolo Carnera, il cineasta dà anima e corpo ad un’opera che ripensa la morte e il ricordo di chi non c’è più. Una creatura filmica sofisticata, coerente, caotica, libera e incrollabile come l’esordio di una nuova voce, ma anche sintetica e minimale, come si confà all'ultima, grande fatica di un maestro altrettanto grande. Un film che ci ricorda quanto sia forte il legame tra la morte, il lutto e il bisogno di esprimersi.
La maggior parte di voi (e anche chi scrive), alla domanda “che cos’è la morte?”, risponderebbe semplicemente la fine della vita o, più filosoficamente, il fluire naturale e logico delle cose, la non-vita, dandone pertanto un’immagine chiara, netta, precisa, limpida, spiegabile, comprensibile. Con voi (e anche con chi scrive) non sarebbe d’accordo il maestro Paolo Taviani, che insieme al fratello Vittorio, dagli anni Cinquanta fin proprio ai giorni nostri, dopo una lunga attività documentaristica, è stato il promotore di un cinema suggestivo, ironico, via via più epicizzante, ricco di innesti letterari, straniamenti brechtiani, echi del primo neorealismo e della sintesi michelangiolesca, fedele all’utopia, al sogno di un cambiamento e alla disciplina come pratica necessaria per liberarsi degli ingombranti fardelli terreni e raggiungere così l’ascesa [parafrasando Brunetta, 2003].
La morte, Paolo Taviani, l’ha toccata con mano e con cuore poco meno di quattro anni fa, il 15 aprile 2018, giorno in cui il suo Vittorio lo ha (e ci ha) lasciato a seguito di un periodo difficile e problematico, ma pur sempre caratterizzato da un’immersione e dedizione assolute nella creazione di immagini (l’ultimo loro film insieme, Una questione privata, da Fenoglio, risale infatti al 2017).
Ed è proprio in memoria del suo sodale complice artistico, ancor prima che fratello, che Paolo oggi torna dietro la macchina da presa con Leonora addio, recentemente premiato con il premio Fipresci al festival del cinema di Berlino - a cui il regista fa ritorno dieci anni dopo la vittoria dell’Orso d’oro, insieme a Vittorio, per il loro Cesare deve morire, intelligentissima opera di ispirazione e discendenza shakespeariana.
Il film, intitolato dall’omonima novella di Luigi Pirandello con cui (solo!) narrativamente ha ben poco a che spartire, racconta la rocambolesca ed incredibile odissea, presieduta da un Fabrizio Ferracane magnifico in continua sottrazione, delle ceneri del grande drammaturgo, scrittore e poeta italiano. Da un cimitero di Roma, nel quale vennero inizialmente deposte da un regime fascista che, nonostante il prestigio internazionale, non ha mai provato una particolare devozione nei suoi confronti; e lì lasciate per dieci anni (di “guerra, paura, barbarie”), dal 1936 al 1946; fino ad Agrigento, suo paese d’origine, dove Pirandello avrebbe voluto essere “riposto” in maniera umilissima, senza grandi complimenti, marce od onoranze funebri.
Volontà che, come ci racconta quasi beffardamente l’istanza narrante mediante una didascalia, ci si impiegherà giusto quindici anni per soddisfare, quando Pirandello non sarà niente più che una manciata di polvere da far entrare in un contenitore ancor più piccolo della bara di un bambino (l’unica disponibile dopo un’influenza mortale che ha decimato la popolazione agrigentina - chi vuol capire, capisca).
A questo zoppicante e sgangherato racconto on the road, Taviani decide poi di accompagnare la trasposizione (si fa per dire) de Il chiodo, l’ultima novella di Pirandello ante-mortem, che racconta, a sua volta, le vicende di Bastianeddu (un Matteo Pittiruti favoloso), giovane ragazzo siciliano emigrato, con il padre, a New York - più precisamente a Brooklyn -, che si macchia, suo malgrado, di un violento omicidio ai danni di una bambina dai fluenti ed ardenti capelli rossi: l'anima del racconto, l'incarnazione del fratello Vittorio, la componente più "focosa" del duo.
Assistito dalla fotografia elegante, al limite della perfezione, di un Paolo Carnera che, per tutto il segmento delle ceneri, rigorosamente in bianco e nero, si rifà alla lezione di grandi maestri come Giuseppe Rotunno, Tonino Delli Colli, Gianni Di Venanzo, Otello Martelli e Aldo Tonti, per poi virare sul Delli Colli leoniano (C’era una volta in America su tutti) nel successivo viraggio al colore dell'epilogo; Paolo Taviani dà anima e corpo ad un’opera che ripensa la morte e il ricordo di chi non c’è più [riprendendo quindi l’aria del Trovatore verdiano citata nell’omonima opera pirandelliana] nella sola ed unica maniera - la più eccezionale e singolare - in cui un maestro del suo stampo può metterli in scena.
Leonora addio è una creatura filmica sofisticata, coerente, caotica, libera e incrollabile come l’esordio di una nuova voce, ma anche sintetica e minimale come si confà all'ultima, grande fatica di un maestro altrettanto grande. Un testo evidentemente sperimentale e sofisticato nel riutilizzo e nella contestualizzazione di pezzi di Vergano, Rossellini, Zurlini e Antonioni, così come di cruenti cinegiornali d’epoca (come quello dedicato all’esecuzione del capo della polizia fascista Pietro Caruso), al fine di (ri)comporre una lucidissima ed originale cronistoria per immagini di un paese caduto nel sibillino giogo (anzitutto culturale) degli americani. Che, una volta finita la guerra, è crollato in un baratro esistenziale fatto di uno straniamento, un’oscurità ed un’angoscia forse minori, ma parimenti mortiferi a quelli del periodo pre-bellico.
Una nazione in cui tutto ciò che rimane è soltanto la certezza della morte, attraverso le cui crepe possono sì filtrare una battuta, qualche fugace risata (“lì dentro c’è un nano”), l’amore e la passione carnale, magari un barlume di speranza - accarezzati, a loro volta, dalle dolci e rassicuranti note di un Nicola Piovani che si riconferma quale erede unico e assoluto della lezione morriconiana -, ma che sono sempre e comunque ottenebrati dal sentore di fine. Una fine che fa paura, ma che costituisce appunto anche lo stimolo per momenti anche grottescamente ilari.
Pertanto, un'Italia superstiziosa e crepuscolare, quella di Leonora addio, dove le ceneri di Pirandello possono fungere da doloroso totem, monito assordante ed ossessivo, illusione di un’ancora passatista e poetica salvezza, legame con una storia collettiva su cui porre fisicamente e metaforicamente le basi per una rinascita, solo in nome dell’azzardo, del guadagno e del soldo (la cassa contenente il vaso funerario verrà usata infatti come tavolo da gioco da alcuni passeggeri dello spento e segnato carrozzone italico in cui si ritroverà a viaggiare il personaggio di Ferracane).
In termini prettamente cinematografici, le ceneri sono però anche e soprattutto l’oggetto profilmico attraverso cui Paolo Taviani sceglie di portare avanti un discorso di quantificazione, concretizzazione, spiegazione, ordinamento, comprensione, plasmazione, circoscrizione, oggettivazione del fenomeno della morte che si rivela impossibile ed inconciliabile man mano che si prosegue nel racconto.
La morte sfugge ai confini della logica e della ragione, è indefinibile, è astratta, è impalpabile; diventa, per Taviani, niente più che una contraddizione. Aspetto solo che congruo con un film che fa del contrasto antitetico una delle sue chiavi di volta: b/n e colore, analogico/digitale e quindi materico/artificioso, grandezza poetica/piccolezza fisica e concreta, commedia/dramma, morte concettuale/vitalità tecnico-estetica. Invero se si potesse spiegare e quindi oggettivare la morte, non esisterebbe poi quell’esperienza personale ed intima con essa, il lutto, che, oltre ad essere la scintilla creativa ed artistica di questo Leonora addio, è da sempre il motore intrinseco della vita umana e dei suoi comportamenti.
In tal senso, se accettassimo la morte come dato di fatto, l’arte, il bisogno di esprimersi, di lasciare un segno del proprio passaggio su questa terra non esisterebbero di conseguenza. Come scriveva lo stesso Pirandello, “figlio del C(K)aos”, “bisogna che il tempo passi, il mio l’ho già avvolto e messo sotto il braccio”.
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