TITOLO ORIGINALE: Qui rido io
USCITA ITALIA: 9 settembre 2021
REGIA: Mario Martone
SCENEGGIATURA: Mario Martone, Ippolita Di Majo
GENERE: drammatico, biografico
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Con Qui rido io, Mario Martone torna al teatro, suo nido artistico, e purtroppo ci rimane, confezionando un biopic democristiano in cui tutto è al posto, nel momento e nella forma giusti, tuttavia manchevole di coinvolgimento, di una vera affabulazione, dell’imperfezione di un esercizio cinematografico sentito, commosso, accorato e dell’ebbrezza di un’avventura cinematografica inedita, lontana dall’austerità della didattica, dalla maniacalità registica e dalla paura di offendere qualcuno.
“Non c’è più Pulcinella, ora c’è solo Sciosciammocca”. Così uno spettatore prorompe, tra gli applausi generali di galleria e platea, alla fine di una delle scene della commedia Miseria e nobilità, rapito ed affascinato dalla sublime interpretazione della maschera protagonista dell’opera interpretata, manco a dirlo, da Eduardo Scarpetta, il più celebre attore ed autore del teatro napoletano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nonché capostipite della stirpe teatrale degli Scarpetta-De Filippo e creatore di quello che normalmente si considera il teatro dialettale moderno.
Una figura, quella di Scarpetta, che il regista napoletano Mario Martone intende analizzare e raccontare in Qui rido io, pellicola presentata in concorso nella 78ª edizione della Mostra del cinema di Venezia nella quale un Toni Servillo eccezionale e camaleontico, quello che ormai abbiamo imparato ad amare, pur nei suoi ruoli minori; offre una versione un po’ berlusconiana del celebre commediografo (come fosse rimasto in Loro di Paolo Sorrentino). E non solo nella resa e fattura del make-up, ma anche e soprattutto nella scrittura che di esso ne imbastisce la sceneggiatura, co-firmata da Martone insieme ad Ippolita Di Majo.
Come dichiarato dallo stesso regista, Qui rido io prende il via non tanto da Scarpetta, quanto paradossalmente dal suo erede più noto, Eduardo De Filippo, il quale “per tutta la vita non volle mai parlare di Scarpetta come padre ma solo come autore teatrale. Quando suo fratello Peppino lo ritrasse spietatamente in un libro autobiografico, Eduardo gli levò il saluto per sempre. Venne intervistato poco tempo prima di morire da un amico scrittore: “Ormai siamo vecchi, è il momento di poterne parlare: Scarpetta era un padre severo o un padre cattivo?”. La risposta fu ancora sempre e solo questa: “Era un grande attore”. Qui rido io è l’immaginario romanzo di Eduardo Scarpetta e della sua tribù”.
Martone torna quindi al teatro, suo nido artistico e registico, confezionando un racconto che, tra i vari argomenti che affronta, trova e fa spazio anche alla sempiterna e postulante idea che “il teatro è vita, la vita è teatro”; che vi sia un saldo fil rouge che stringe indissolubilmente la realtà e la rappresentazione, quest’ultima talora più reale e vera della prima.
È questo quello che il regista riesce a comunicare con una sequenza - la preferita di chi scrive; quella in cui Scarpetta nei panni di Sciosciammocca dice al piccolo Eduardo, che interpreta invece la parte di Peppiniello nella commedia, parafrasando “Tu sei mio figlio” - in cui il non detto e la messa in scena lasciano intuire allo spettatore che quello che si sta recitando, in realtà, non è una recita, ma un’anticipazione di quella verità che verrà svelata qualche ora (di film) più tardi, con fini del tutto prevedibili.
Tuttavia, quella appena riportata è forse l’unico segmento di tutto Qui rido io in cui il potere del linguaggio cinematografico, fatto di sottintesi, impliciti, allusioni ma non solo, spadroneggia liberamente sul palco del testo martoniano.
Il regista napoletano torna quindi al teatro, ma, purtroppo, lì rimane (e no, non bastano i quadri allegorici, una messa in scena metaforica ed un ambiente comunicativo). Il tutto in un tripudio di dialoghi pedanti, monologhi che non smuovono ciò che dovrebbe e per cui sono stati composti, e momenti finalizzati ad esprimere, in modo pure ripetitivo, gli stessi tre concetti a rotazione, proponendo un ritratto di Scarpetta che, se ha il pregio di essere tutt’altro che agiografico, dall’altro lato calca un po’ troppo la mano sulla stessa coppia di nevrotici e ridondanti argomenti, tra cui quelli su cui si fonda la nostra definizione (berlusconiano) del protagonista di Toni Servillo.
A metà tra genio e bruto, tra (meno) luci e (più) ombre, tra padre di famiglia caloroso ed amorevole e capo spietato e parziale [eloquente, in tal senso, la sequenza della porzionatura del cibo] di una famiglia che definire allargata sarebbe un eufemismo, Scarpetta ama le donne, ha una vita sessuale estremamente libertina ed intensa, si circonda di un grande numero di amanti (spesso pure imparentate con la moglie, la quale, a sua volta, è perfettamente a conoscenza, quando non pure amministratrice di questo harem), con le quali ha e ha avuto un totale di nove bambini, tra figli e figliastri, i quali, malgrado questa loro peculiare parentela, quasi ogni domenica pranzano alla stessa tavola. Come se non bastasse, è pieno di soldi, sperpera a destra e a manca, pensa - anche quando ormai tutti gli voltano le spalle - di essere al centro del mondo e, quando è in pubblico, si mostra sempre come un uomo del popolo, che deve a quest’ultimo tutto ciò che possiede e tutto ciò che è.
Pertanto, quella che rimane alla fine di Qui rido io, volere del regista o meno, è l’immagine di un imprenditore freddo e maschilista che, nel tempo libero, era anche un genio del teatro. Un ritratto, quest’ultimo, che - malgrado tutti i pregi del caso e seppur all’interno di un testo che avanza l’idea basilare e retorica secondo cui il mondo di Scarpetta altro non è che un’eterna farsa - cozza con un impianto produttivo che fa di tutto per esaltare Servillo e il suo tentativo di “riportare in vita” Scarpetta e proporsi al pubblico con un biopic fatto e finito, pur trattando solo un frammento della sua vita (nello specifico, la denuncia per diffamazione da parte di D’Annunzio per la parodia del suo La figlia di Iorio).
Sì, la scenografia è semplicemente fenomenale nella sua sontuosità (nonostante la pellicola non faccia respirare a sufficienza Napoli, o almeno nel modo in cui riesce invece a farla respirare la concorrente È stata la mano di Dio), la colonna sonora è magnifica, i costumi e il trucco sono l’espressione, ancora una volta, del prestigio della “bottega dei mestieri” del cinema italiano, le interpretazioni sono tutte di altissimo livello, così come la fotografia, funzionale ad evidenziare anch’essa le luci e le ombre dello spettacolo teatrale e della vita. In breve, tutto è al posto, nel momento e nella forma giusti.
Ciò nonostante, quello che manca al film di Martone è il coinvolgimento, la vera affabulazione, l’imperfezione di un esercizio cinematografico sentito, commosso, accorato, e l’ebbrezza di un’avventura cinematografica inedita, lontana dall’austerità della didattica, dalla maniacalità registica (Martone punta ad essere il nuovo Visconti) e dalla paura di offendere qualcuno.
Al contrario, Qui rido io si mostra come un film estremamente democristiano che dà un colpo al cerchio ed uno alla botte, senza fare del male a nessuno e soddisfacendo delle premesse produttive che si avvicinano più ad uno splendido sceneggiato d’altri tempi che ad una pellicola del 2021 (non fosse per la qualità fotografica dell’immagine).
Anche quando parrebbe voler suggerire un ragionamento sulla definizione di opera d’arte e di opera di largo consumo, od intentare una denuncia (estremamente attuale) ad “un’Italia in cui non si può più ridere di chi è al potere”, il tutto è così intrasistemico ed innocuo da farci chiedere quand’è che uscirà un nuovo Miss Marx.
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