TITOLO ORIGINALE: Dante
USCITA ITALIA: 29 settembre 2022
REGIA: Pupi Avati
SCENEGGIATURA: Pupi Avati
GENERE: biografico, storico
Parte da una grande intuizione di soggetto (tratta da un romanzo dello stesso regista), il Dante di Pupi Avati: raccontare il Sommo Poeta attraverso gli occhi del suo massimo esegeta, Giovanni Boccaccio, e il suo pellegrinaggio nei luoghi simbolo della sua vita. Peccato che, oltre a questo, ad una manciata di buone interpretazioni e a qualche sequenza effettivamente riuscita, la pellicola del maestro bolognese abbia davvero poco di nuovo ed interessante da offrire. Tra personaggi che si muovono in scenografie spoglie, desolate, mai realmente vissute, combattimenti e sesso sempre lasciati fuori campo, il voice over onnipresente di un narratore esterno ed onnisciente che ragguaglia lo spettatore sui punti salienti della biografia del poeta, il voice off di Dante che declama versi e componimenti, ed una fotografia eufemisticamente televisiva, dai pochissimi sprazzi ispirati e pittorici, il film di Pupi Avati si limita ad essere un compitino di servizio pubblico neppure troppo soddisfacente o adeguato a quel target liceale che sarà interessato (o costretto) a vederlo.
Parte da una grande intuizione di soggetto, l’ambizioso Dante di Pupi Avati. Ovvero, raccontare la vita e, in particolare, la giovinezza del Sommo Poeta attraverso il pellegrinaggio (nei luoghi simbolo del suo esilio, da Firenze a Ravenna) che il suo massimo esegeta, Giovanni Boccaccio, è chiamato a compiere, per ordine dei Capitani di Orsanmichele, al fine di consegnare a Suor Beatrice, figlia dell’Alighieri, un sacchetto con dieci fiorini d’oro, un risarcimento tardivo delle pene da lui subite in vita proprio per mano degli stessi fiorentini.
D’altronde, è proprio questa la storia che lo stesso Avati racconta nel suo ultimo romanzo, L'Alta Fantasia - Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, frutto di più di vent'anni di studio e riscoperta della travagliata biografia e dell'opera fondativa e paterna del Vate, a partire proprio dal Trattatello in laude di Dante del Boccaccio. Un romanzo, in cui il regista, con uno sguardo partecipe e nuovo, si mette alla ricerca del lato più umano, fragile, sensibile, terreno del poeta, ben lontano, dunque, dall’immagine sacrale ed intoccabile che il mondo accademico ne ha dipinto per secoli e che già la televisione ha tentato invano di attualizzare e svecchiare (nella figura di un certo Roberto Benigni).
Ciò detto, seppur, tanto nel libro, quanto in questo Dante cinematografico (o perlomeno in alcuni dei suoi frammenti), si percepisca effettivamente un simile desiderio e simili intenzioni da parte del maestro bolognese, è anche vero che ciò che si riesce ad intuire, con forza ancor maggiore, durante la visione del film, è purtroppo la paura di contrariare, offendere, apparire profano agli occhi dei massimi conoscitori e studiosi danteschi. Timore, quest’ultimo, che, non a caso, lo stesso Avati sottolinea, ricorda e racconta in ognuna delle interviste da lui rilasciate finora.
Pertanto, malgrado l’intento originario fosse effettivamente quello di distruggere, seppur in punta di piedi, l’iconologia ed iconografia assodate e proverbiali del Poeta Vate, quello che vediamo nell’ultima fatica di Pupi Avati non differisce poi molto da ciò che sempre ci hanno raccontato e sempre immaginiamo quando pensiamo a Dante e alla sua vita. Ritroviamo quindi l’incontro, l’innamoramento e l’adorazione di Beatrice, l’amicizia con Guido Cavalcanti, la guerra contro Arezzo e Pisa, il matrimonio infelice con Gemma Donati, l’elezione a priore, lo scontro con Bonifacio VIII e il conseguente esilio da Firenze.
Inoltre, in questa sua deferenza e premura nel raccontare tutto a modo, in maniera assolutamente filologica e storicamente comprovata, il cineasta si dimentica forse la cosa più importante: dar vita ad un film nel senso più puro e stretto del termine.
In tal senso, non bastano purtroppo una manciata di buone interpretazioni - nello specifico, un Sergio Castellitto accoratissimo, un Alessandro Sperduti che buca letteralmente lo schermo od una Carlotta Gamba perfetta nei panni di una Beatrice perturbante, ipnotica, davvero aliena) - né tantomeno una composizione originale del quadro, od un paio di momenti azzeccati, dotati di uno sguardo unico, di grande capacità immaginativa e di pregevolissima atmosfera: pensiamo, per esempio, allo zoom iniziale su un’iride del volto di Dante, simile ad una maschera funerea, all’ultima, catartica sequenza, o ai momenti onirici dalle tinte horror che, pur cozzando terribilmente con l’anima e l’idea alla base del progetto, lasciano intravedere lo slancio e l’inconfondibile tocco di un maestro italiano che il genere lo sa maneggiare ancora benissimo.
E non bastano, soprattutto, se la pellicola viene poi attraversata da imperdonabili cadute di stile, scelte stilistiche ed estetiche discutibili, effetti visivi vergognosi, ed una recitazione amatoriale da parte delle figure secondarie e comprimarie (tant’è che alcuni di questi necessitano di un ri-doppiaggio evidentissimo e, proprio per questo, disarmonico ed inascoltabile), nonché caratterizzata da un approccio fuori tempo, pudicissimo e timidissimo alla materia, al contesto storico e al filone biografico.
Tra personaggi che si muovono nelle solite scenografie medievali fuoriuscite direttamente da un set di Cinecittà: spoglie, desolate, mai realmente vissute (vedi alla voce Il pataffio e Chiara); titoli di testa che ricordano quelli di un qualsiasi episodio di SuperQuark (senza nulla togliere!), combattimenti e sesso sempre lasciati fuori campo, il voice over onnipresente di un narratore esterno ed onnisciente che ragguaglia lo spettatore sui punti salienti della biografia del poeta (anche se non proprio bastevoli per chi è totalmente a digiuno di storia dantesca), il voice off di Dante che declama versi e componimenti (che verranno, in seguito, anche parafrasati da qualche personaggio in scena), ed una fotografia eufemisticamente televisiva, dai pochissimi sprazzi ispirati e pittorici; il film di Pupi Avati sembra piuttosto un Il giovane favoloso che non ce l’ha fatta, con meno cinema al suo interno ed ancora meno spirito e verve.
Una pellicola in cui l’amore, l’attaccamento e l’emozione del proprio regista nei confronti del Padre italiano per antonomasia che deve far rivivere ed omaggiare, si dissipano pian piano, lasciando posto alla parvenza di un compitino di servizio pubblico neppure troppo soddisfacente o adeguato a quel target liceale che sarà interessato (o costretto) a vederlo.
Un'occasione sprecata, anche se solo per il fatto di non fare del forte legame platonico e di sguardo tra Dante e Beatrice finalmente una vera "questione cinematografica", o di non sfruttare la condizione di esulo del poeta per tracciare un'interessante parabola col presente.
Al contrario, arroccato com'è nelle sue posizione stantie e polverose, sembra quasi che, per Pupi Avati e il suo film, l'essere provocatori, nuovi ed iconoclasti equivalga al mostrarci Dante mentre defeca in un fiume, con tanto di sesso esposto ed inquadrato. Se questa è l'alternativa, ci facciamo bastare e ci teniamo volentieri il buon Il signor Diavolo di qualche anno fa. Quantomeno quello, un briciolo di impeto, lo dimostrava.
E non fraintendete: dispiace sempre parlar male e stroncare un grande maestro del nostro cinema - specie considerato l’evidente attaccamento al progetto che chi scrive percepì dalla sua voce quando lo intervistò qualche mese fa -, ma purtroppo l‘unico e il solo ad uscire profanato e desacralizzato da Dante è Pupi Avati.
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