TITOLO ORIGINALE: Il pataffio
USCITA ITALIA: 18 agosto 2022
REGIA: Francesco Lagi
SCENEGGIATURA: Francesco Lagi
GENERE: commedia, storico
Giunto al suo terzo lungometraggio, Francesco Lagi adatta per il grande schermo uno dei romanzi più curiosi e buffi di Luigi Malerba, un racconto tra il serio e il faceto, che parla di un Medioevo pidocchioso, misero e disfatto, per tracciare davvero collegamenti e parallelismi critico-satirici con l’Italia di fine anni ‘70. Peccato che, nel trasporla, il cineasta si dimentichi di aggiornarla e di riportarla allo spirito, ai timori e alle ossessioni dei giorni nostri, ottenendo, di conseguenza, un film antiquato e afono, nel quale un cast di interpreti si spende anima e cuore per rendere briosa e viva una sceneggiatura priva di verve e di estro, comicamente fallimentare, che procede indolente fino agli agognati titoli di coda, inanellando sequenze e situazioni tra loro praticamente autosufficienti e regalando qua e là poche, belle intuizioni.
Qualche settimana fa, in occasione della presentazione del programma dell’ultima edizione, il direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia Alberto Barbera ha detto che “non sono i soldi che mancano al cinema italiano. Manca la qualità e mi duole dirlo. Ho visto una buona parte dei 250 film realizzati quest’anno e posso dire che si sia investito più sulla quantità. Qualcosa che non dovremmo aspettarci da un cinema con una tradizione così importante. Ci sono luci ed ombre e sono meno ottimista rispetto all’anno scorso”.
Come abbiamo scritto e ribadito più volte in molte delle nostre recensioni circa la produzione nostrana contemporanea, quello che è mancato e, per certi versi, manca tuttora al cinema italiano è il rischio del flop commerciale e della conseguente e proverbiale “macchia sul curriculum”, che, in altri contesti audiovisivo-industriali (come quello hollywoodiano) è la molla che favorisce la vertigine della sperimentazione, del genio, della "sopravvivenza artistica".
Il cinema italiano sta vivendo una fase di profonda stasi, in tutte le sue anime ed espressioni. Una situazione che, riprendendo anche Barbera, da un lato, porta all'indomito sostegno economico e produttivo di centinaia di pellicole senza un preciso target di riferimento, pensate e confezionate solo perché vi è la possibilità, perché vi è un contributo od una sovvenzione da sfruttare, o semplicemente in nome di un’improbabile missione artistica e/o pedagogica. Missione, quest'ultima, che il cinema in generale, ma soprattutto il nostro cinema, non ha da svariati decenni; dall’altro, invece, alla già consistente, ma comunque progressiva diserzione di un pubblico che, col passare delle settimane, dei mesi, degli anni, diventerà sempre più impossibile riconquistare, “riportare a bordo”.
Ciò detto, viene quasi naturale chiedersi se, tra quel paio di centinaia di film a cui Barbera fa riferimento, vi fosse anche Il pataffio di Francesco Lagi - quest’ultimo già videomaker e sceneggiatore televisivo, ma anche regista cinematografico di inattesa sensibilità e brillantezza, come ha dimostrato nel più recente Quasi Natale -, che decide di adattare uno dei romanzi più buffi, calviniani e singolari di Luigi Malerba, ambientato in un Medioevo affamato, scorticato, cencioso, puzzolente, ridicolo, cugino prossimo di quello de L'armata Brancaleone di Mario Monicelli.
Un romanzo peculiare soprattutto per la lingua creata ad hoc dall’autore: un mélange maccheronico, onomatopeico e sgangherato che intreccia suoni, parole e vezzi del romanesco e latino, oltre a termini ed espressioni del tutto originali; fautrice di un’atmosfera rarefatta, immobile, curiosa, quasi suggestiva pur fluendo in un mondo le cui bruttezze, immoralità e viltà vengono accentuate a dismisura, per fini ironici, risibili, ma anche critici.
Sì, perché in fondo è proprio questo, Il pataffio di Luigi Malerba: un racconto, tra il serio e il faceto, che parla di un Medioevo pidocchioso, misero e disfatto, per tracciare infine collegamenti e parallelismi con l’Italia di allora, quella di fine anni ‘70 [il romanzo, infatti, è del 1978]. Con un’Italia in cui la fame è quella del potere e in cui coloro che, questo potere, lo detengono, lo sciupano, e coloro che lo anelano finiranno per farsi prendere la mano e pervadere da sogni libertini, di cambiamento dal basso, di giustificazionismo. Un’Italia nella quale istituzioni come la Chiesa sono popolate da orchi opportunisti, che tentano sempre di intercettare ed insinuarsi, in maniera quasi camaleontica, in ogni minimo cambio di direzione e prospettiva. Un paese dove la piccola-media borghesia - quella che, da un lato, serve i padroni, pur guardando da lontano e comprendendo, dall’altro, le ragioni del proletariato - si ritrova sempre e comunque legata ad un destino di asservimento e sacrificio incondizionato.
Ebbene, se questo è lo scritto di Malerba (che abbiamo tentato di inquadrare sommariamente e nel miglior modo possibile), tutt’altro discorso riguarda invece la trasposizione che, di esso, ne trae Francesco Lagi, che, dal canto suo (e in qualità di regista e sceneggiatore), si limita a riproporre quanto più fedelmente e stancamente - senza dunque aggiornarla ai giorni nostri - un’opera nata e dialogante con un’Italia altra, diversa nelle aspirazioni e nello spirito, forse più disillusa di quella odierna, ottenendo, di conseguenza, un film antiquato e afono. Uno all’interno di cui i disagi, le sofferenze e le insoddisfazioni del 1978 si trasformano poco più che in uno schiamazzo proveniente da una soffitta ammuffita e abbandonata a sé stessa, da un luogo in cui sono andati a morire i sogni, i moti e le idee di una nazione e di una generazione intera.
Lagi si bea pertanto di un cast di interpreti - in ordine, un Lino Musella sprecatissimo, un Alessandro Gassman che ricorda il Guido Ruffa della Melevisione, un Giorgio Tirabassi misurato e di ottima presenza, un Valerio Mastandrea convincente ed una Viviana Cangiano radiosa - che si spende anima e cuore per rendere briosa e viva una sceneggiatura priva di verve e di estro, comicamente fallimentare (a sprigionarsi durante la visione, sono più che altro risate isteriche e commiserative), che procede indolente fino agli agognati titoli di coda, inanellando sequenze e situazioni tra loro praticamente autosufficienti e regalando qua e là poche, belle intuizioni (vedasi, per esempio, quella del megafono).
Difatti, giunti al secondo atto, Il pataffio pare più che altro la jam session di un collettivo di attori a cui è stata data carta bianca, senza una vera impalcatura - narrativa e tecnico-estetica - ad accompagnarli, sorreggerli, regolarli. Al contrario, la messa in scena (televisiva) di Lagi, inquadrata da Diego Romero e personalizzata da Stefano Bollani, sembra più interessata ad offrire una certificazione - l’ennesima - del pregio dei mestieri del cinema italiano, che non una costruzione filmica progettualmente sensata. Od un prodotto che abbia o lasci quantomeno intravedere un cuore dietro lo smaccato opportunismo. Che sia realizzato per un motivo ben preciso, e non tanto per dire di averlo fatto.
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