TITOLO ORIGINALE: Chiara
REGIA: Susanna Nicchiarelli
SCENEGGIATURA: Susanna Nicchiarelli
GENERE: drammatico, storico, musicale
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Dopo Miss Marx, Susanna Nicchiarelli torna in concorso a Venezia con un altro ritratto femminile di emancipazione, precursione e sovversione, ideale conclusione di una trilogia. Quella di Santa Chiara sembrerebbe una storia perfetta per la sensibilità e gli interessi discorsivi della regista capitolina, non fosse per una sceneggiatura incorretta, frettolosa, priva di qualsiasi tipo di tensione e conflitto, e prevedibilissima, poi trasposta su schermo con inaspettata svogliatezza, mortale immobilità e pochissima intensità ed invenzione immaginifica e figurativa. Uno smacco non indifferente, oltre che poco rassicurante, per una cineasta ancora emergente e non così popolare tra il grande pubblico, che speriamo non si limiti e vincoli a questa forma di idea ed ideologia cinematografica.
Questo film doveva essere un musical - e Santa Chiara, una nuova Superstar, per citare il cult di Norman Jewison. È questa l’impressione e il pensiero che sorge spontaneo a mezz’ora dall'inizio della nuova pellicola di Susanna Nicchiarelli, Chiara per l'appunto, che conclude(?) la trilogia iniziata con il buon Nico, 1988 e proseguita con l’ottimo ed interessantissimo Miss Marx.
Una trilogia più simile ad un progressivo viaggio indietro nel tempo (dalla fine del Novecento alla prima metà del XIII secolo), alla scoperta di figure femminili fuori dal loro tempo, emancipate, precorritrici dei discorsi e dei temi fondamentali della contemporaneità, che cadono però vittime di un mondo e di una società legati ad un conservatorismo fallocentrico e patriarcale che sopraffà e tenta, in tutti i modi, di placare i loro moti rivoluzionari, dirompenti e distruttivi. In tal senso, soprattutto Miss Marx, imperniato attorno al ritratto punk rock di Eleanor Marx, figlia minore del più noto filosofo di Treviri, era ed è tuttora una pellicola che riesce a bilanciare abilmente le proprie indoli, facendo della forma e del contrasto tra contesto storico e modi espressivi la principale strada di un messaggio attualissimo e sovversivo.
Tutti pregi che, purtroppo per noi e per la stessa Nicchiarelli (che si trova in un momento molto delicato della propria carriera e, lo sappiamo, non si merita certo simili critiche), non si ritrovano in questo suo terzo film, che racconta la storia di una ragazzina di diciotto anni, discendente di una famiglia facoltosa di Assisi, che, in una notte del 1211, decide di abbandonare ogni agio e privilegio nobiliare per raggiungere il suo amico e concittadino Francesco ed abbracciarne i concetti teologici ed uno stile di vita asservito all’aiuto degli ultimi e alla “povertade”. Da quel momento, la sua vita cambia per sempre ed ella si ritroverà ben presto a dover lottare ed opporsi addirittura al Papa, al fine di vedere realizzati il suo sogno e la sua visione di libertà ed emancipazione per lei e le altre donne che pian piano la circondano.
Quantomeno sulla carta, quella di Chiara si propone pertanto come la storia di una giovane di grande fede, devozione e volontà che diventa una santa ribelle e rivoluzionaria che si scontra direttamente contro un'istituzione ed una dottrina centenaria più interessate alla vita temporale, alle questioni politiche e ai bisogni materiali (e maschili). La storia di un'ispiratrice e, soprattutto, una figura coerente con ciò che professa, a differenza della guida e del precettore San Francesco e di tutti gli uomini facenti parte della gerarchica, della macchina e della discriminatoria organizzazione ecclesiastica.
Una figura ed una vita, quelle di Santa Chiara, che sembrano quasi fatte su misura per la sensibilità e gli interessi discorsivi di un’autrice peculiare come Susanna Nicchiarelli. Peccato soltanto che, diversamente da entrambi i suoi lavori precedenti, Chiara si erga su una sceneggiatura - scritta dalla stessa regista - abbastanza incorretta in termini di grammatica cinematografica e costruzione della protagonista (non viene infatti spiegato, né mostrato il motivo per cui la ragazza sceglie di andarsene); frettolosa, specie all’inizio, nell’esposizione di alcuni passaggi e nella resa della temporalità della vicenda; priva di alcun tipo di tensione forte (anche sessuale) e conflitto palpabile tra i personaggi; oltremodo prevedibile nelle allegorie che propone e nei simboli che usa; a cui inoltre sembra non interessare più di tanto ciò (e il mondo) che sta raccontando, al di là dalla mera contrapposizione tra la modernità ed emancipazione di Chiara e l’incoerenza e l'atteggiamento retrivo della Chiesa.
Sceneggiatura, quest'ultima, che Nicchiarelli, coadiuvata da una fotografia talora suggestiva, ma prevalentemente televisiva di Crystel Fournier, traspone poi su schermo con inaspettata svogliatezza, mortale immobilità e pochissima intensità ed invenzione immaginifica e figurativa (tra l’altro minata da una pessima effettistica digitale). Difatti, eccezion fatta per il finale, la macchina da presa segue indolente e apatica lo svolgersi, il rompersi e il rinsaldarsi del rapporto tra Chiara (una Margherita Mazzucco fin troppo limitata nelle espressioni, eccessivamente mansueta, priva di quel fuoco, di quella “rabbia giovane”, di quell’ardore eversivo e ribelle che hanno sempre caratterizzato le protagoniste dei film della regista capitolina) e Francesco (un Andrea Carpenzano ambiguo ed inestricabile, che dovrebbe interpretare un personaggio di Assisi ma finisce per tradire, in maniera distruttiva ed evidente, la propria romanità).
Tra sequenze musicali improvvise e fortuite, mal coreografate, riprese e montate in maniera fiacca e ridondante, e momenti che vorrebbero denunciare, criticare, dissacrare norme ed usi sociali e religiosi, oltre che personaggi (vedasi il grottesco Conte Ugolino interpretato da un Luigi Lo Cascio sottoutilizzato) cruciali per la storia dell'Italia duecentesca, Chiara tenta invano di rendere viva e melodica una lingua volgare, viceversa, alquanto labile, mutevole e contaminata, complice un sonoro fallace che rende incomprensibili molti passaggi e scambi.
Attraverso la “profanazione” ed attualizzazione della biografia del personaggio femminile più famoso del suo trittico, pertanto, Nicchiarelli prova neanche troppo strenuamente ad affermarsi, una volta per tutte, quale “sora delle sore”, quale maggiore cantrice italiana di una femminilità che non accetta e non si piega di fronte alle imposizioni e alle strutture fallocratiche.
Sfortunatamente, il risultato è un’opera stanchissima, raffreddata, molto meno sfaccettata, complessa e stimolante della sua predecessora, povera (e pure troppo) nei discorsi che vuole sviluppare e nei modi, anche visivi e scenografici, con cui intende farlo. Un prodotto con grandissime probabilità di insuccesso commerciale (evidenza a cui, ahinoi, ci siamo ormai abituati), ammaestrato da uno sguardo che non giustifica e prescrive la visione sul grande schermo; più simile ad uno screen test monco, ad una copia lavoro girata, rassettata e montata in fretta e furia per poter ambire ad una presenza sulla passerella del Lido.
Uno smacco non indifferente, oltre che poco rassicurante, per una cineasta ancora emergente e non così popolare tra il grande pubblico (e neppure per sua responsabilità diretta), che speriamo non si limiti e vincoli a questa forma prevedibile di idea ed ideologia cinematografica. Allora è bene ripeterlo: forse sarebbe proprio stato meglio (e, senza dubbio, più interessante) se Chiara avesse abbracciato la via e la fede del musical.
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