TITOLO ORIGINALE: Obi-Wan Kenobi
USCITA ITALIA: 25 maggio 2022
REGIA: Deborah Chow
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: azione, avventura, fantascienza
N. EPISODI: 6
DURATA MEDIA: 39-56 min
Tra le serie live action ambientate nel vasto universo cross-mediale di Guerre Stellari, Obi-Wan Kenobi di Deborah Chow era senz'altro una delle più attese. Forse perché, più della sgangherata The Book of Boba Fett, rappresentava il ritorno di due icone dell'immaginario collettivo, oltre che il ritorno agli estremi e alle atmosfere della trilogia prequel, un'epoca del mondo lucasiano insospettabilmente amata, specie dai fan del nuovo secolo. Ewan McGregor e Hayden Christensen riprendono pertanto i ruoli di maestro e padawan convertitosi alle tenebre in una serie che non fa che confermare la grandezza e il fenomeno The Mandalorian. Obi-Wan Kenobi è l’antitesi più distruttiva, arida e conservatrice dell'impresa folgorante e coraggiosa di Dave Filoni e Jon Favreau. Il campanello di allarme per un franchise che vola alto nel momento in cui (ri)torna davvero a raccontare piccole storie, storie semplici, ma robuste e possenti sotto il profilo della forma, della visione, dell’avventura, dell’immaginazione; e per una saga che sembra non guardare più al futuro, ma anzi continua a perdersi in infinite zone di comfort per aficionados che non hanno più il potere di stupire, la joie de vivre tipica dei prodotti lucasiani e la capacità di immaginare.
Il problema, forse, è che The Mandalorian ci ha abituati sin troppo bene. Oppure che, sempre The Mandalorian, è l’unica delle tre serie live action ambientate nell’universo di Guerre Stellari finora distribuite a non avere per protagonista una grande icona della controparte cinematografica.
Altrimenti, non si spiegherebbe perché tanto The Book of Boba Fett, quanto Obi-Wan Kenobi dimostrino così poca ispirazione. A dire il vero, per quanto riguarda la serie che ripesca dalle sabbie (del tempo) di Tatooine uno dei più potenti cavalieri Jedi, una spiegazione per cotanta modestia la si potrebbe ritrovare nei numerosi problemi che ne hanno scandito la lavorazione, sia in fase di sceneggiatura, ché produttiva, tra l’insoddisfazione della presidente Kathleen Kennedy e le pressioni della stessa Lucasfilm, diverse sostituzioni in itinere ed altrettante riscritture della sceneggiatura inizialmente proposta (anche per un film spin-off) dall’iraniano Hossein Amini. Tutti problemi che, uniti ai disagi annessi e connessi al periodo pandemico, hanno senz’altro privato la serie dell’afflato epico ed epocale e delle smisurate ambizioni narrative che tenta comunque, invano, di raggiungere.
Ciò detto, ancor prima della nostra percezione e della scelta del protagonista, la vera ragione di un dislivello qualitativo così drastico tra The Mandalorian e i suoi due successori potrebbe risiedere nella dispersione del matrimonio creativo tra Dave Filoni e Jon Favreau, che, come ribadito nella recensione della serie su Boba Fett, sono gli unici, quantomeno in ambito seriale, ad averci aperto gli occhi su quanto potenziale inespresso si celi ancora, tuttora, nei meandri e nelle pieghe meno battute della galassia lontana lontana.
Ebbene, di questa impresa folgorante, quasi epifanica di Filoni e Favreau, la (mini?)serie di sei episodi ideata e diretta da Deborah Chow (già regista di due episodi di Mando) rappresenta l’antitesi più distruttiva, arida e conservatrice. Il campanello di allarme per un franchise che vola alto nel momento in cui (ri)torna davvero a raccontare piccole storie, storie semplici, ma robuste e possenti sotto il profilo della forma, della visione, dell’avventura, dell’immaginazione. O ancora, il punto di rottura per una saga che sembra non possedere una meta ben precisa, non guardare più al futuro, rinunciare al suo posto d’avanguardia tecnico e fantastico, e perdersi in circuiti autoreferenziali, conformisti, volti solo ed esclusivamente alla soddisfazione di un fandom permaloso e spesso tossico; in infinite zone di comfort per aficionados che non hanno più il potere di stupire, la joie de vivre tipica dei prodotti lucasiani e, ahinoi, la capacità di immaginare.
Se - e di questo se n'è detto felice lo sceneggiatore Joby Harold - una delle priorità di una serie dedicata ad uno dei personaggi più amati e riconosciuti della saga, è spiegare perché il figlio di Leia si chiamerà Ben nella trilogia sequel, significa che si è giunti davvero al limite del depauperamento di un universo divenuto ormai sacrale, intoccabile, immobile, fin troppo devoto ai propri miti per staccarsene davvero.
Piccole crepe, queste ultime, che sono sì intestine e radicate, prima di tutto, nel mondo di Guerre Stellari, ma che Obi-Wan Kenobi porta alle estreme conseguenze, dando vita ad un racconto di fantasmi, il cui unico vero spettro è il senso.
Cosa vuole essere la serie di Deborah Chow? L’arco disilluso, affranto, minato dai sensi di colpa di un’icona della saga? Un tentativo di approfondimento psicologico di uno dei cattivi più emblematici del grande schermo? Il battesimo di un nuovo personaggio chiaroscurale e moralmente ambiguo? Il racconto del primo incontro post-Ordine 66 di Obi-Wan e Darth Vader? O di quello tra lo stesso Ben e la piccola principessa Leia? Un ponte tra trilogia prequel e trilogia classica? Un modo per ridare lustro drammaturgico e dignità a tutti quei personaggi che le tre pellicole prequel, eccezion fatta forse per La vendetta dei Sith, non sono riusciti a sviluppare appieno? Oppure, un affresco socio-politico della galassia lontana lontana nel periodo oscurantista successivo alla caduta della Repubblica? Sì, sì e ancora sì.
Peccato soltanto che, nel mediare tra tutti questi diversi stimoli, la sceneggiatura di Joby Harold, Hannah Friedman, Hossein Amini e Stuart Beattie prenda quasi sempre la strada meno indicata e dispendiosa, tanto in termini produttivi (si tratta del primo prodotto Star Wars in cui si sentono davvero il peso e le limitazioni di un budget “televisivo”), quanto in materia creativa, in una china discendente che gira su sé stessa, senza sapere cosa raccontare, e lascia indietro, tra l’altro, lo spirito avventuroso, da sempre elemento cardine della saga.
Inoltre, come se non bastasse, Obi-Wan Kenobi si dimostra sorprendentemente carente pure sotto il profilo più prettamente tecnico. Il quarto episodio, su tutti, è una masterclass su come non si dirige l’azione o, al contrario, sui più disparati modi in cui è possibile annientare dalle fondamenta l’immedesimazione, l’emozione e il sense of wonder di ciò che si sta rappresentando.
Diversamente da quanto dimostrato in The Mandalorian, Deborah Chow - forse intimorita da una missione ed un’eredità più grandi di lei o perché ancora acerba nei panni di showrunner - dà infatti prova di un’idea action fiacca, traballante, incerta ed inconsapevole, intaccata e sminuita, a sua volta, da un montaggio rigidissimo e lacunoso e da una fotografia piatta e monotona. Cosa che, per uno show che fonda la propria ragion di spettacolo sui combattimenti con le spade laser, equivale a morte certa.
Per riprendere dunque le domande poste qualche riga sopra: sì, Obi-Wan Kenobi è la decostruzione e messa in crisi di un pilastro mitologico di Guerre Stellari e, anche se non si percepisce mai davvero la sua passione e attaccamento al progetto (un progetto fattogli nostalgicamente su misura), Ewan McGregor è magnifico.
Sì, la serie cerca di condurre un approfondimento, attraverso il rapporto e lo stretto legame con il suo maestro, su una figura che è ormai parte del nostro immaginario e che, proprio per questo, sembrerebbe non aver più nulla da dire, quando, in realtà, ha ancora moltissimo potenziale. Potenziale che, così come lo stesso Hayden Christensen, Obi-Wan Kenobi non sfrutta, né sviluppa più di quanto pretestuosamente gli serva.
Sì, il racconto immaginato da Joby Harold & co. è anche l’introduzione di un personaggio, Reva Sevander, la Terza Sorella del gruppo degli Inquisitori Imperiali, su cui si avrebbe potuto puntare moltissimo e che avrebbe potuto donare nuova linfa vitale all'universo lucasiano, ma il cui arco narrativo, nonostante l’interpretazione appassionata di Moses Ingram, viene sacrificato prima di subito sull’altare dell’inespressività.
Sì, Obi-Wan Kenobi sposta quasi del tutto il baricentro del proprio racconto - e lo fa con un’azzeccata (questa per davvero) mossa di marketing - e, al posto di affrontare i primi contatti tra lo Jedi e Luke (Skywalker), decide di costruire tutta l’avventura sulla missione di salvataggio e poi sul rapporto di una giovane, precoce e ribelle(!) principessa Leia con il nostro Obi-Wan. E, malgrado l'interpretazione abbastanza scarsa della piccola Vivien Lyra Blair non riesca poi tanto a restituire l’ombra di ciò che sarà e di ciò che rappresenta tutt'oggi il suo personaggio, è forse negli scambi e nelle interazioni tra lei e il torvo e diffidente maestro che la serie dà il meglio di sé, dando forma a brevi parentesi di dolcezza che scaldano il cuore e regalano a quest'ultima un tratto prezioso.
Per finire, è vero, la serie si apre e muove in un universo oscuro, soffocato dalla tirannia dell’Impero, impaurito dai suoi alfieri oscuri, ma è solo un minimo ed insignificante orpello di sceneggiatura, un elemento a margine dell'inquadratura, all’interno di una serie dove una mediocre realizzazione, una costruzione casuale, un’avventura inesistente, la poca varietà di pianeti e situazioni, una scrittura triviale, o forse proprio le aspettative “stanno (sempre) più in alto” di una sequela di idee potenzialmente ottime.
Come si suol dire, la (nuova) speranza è l’ultima a morire, ma a volte, forse, è meglio andare (tornare?) a dormire. Vero, Obi-Wan?
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