TITOLO ORIGINALE: The Book of Boba Fett
USCITA ITALIA: 29 dicembre 2021
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: azione, avventura, fantascienza
N. EPISODI: 7
DURATA MEDIA: 37-51 min
Riprendendo le fila della scena post-credit di The Mandalorian 2, lo showrunner Jon Favreau firma The Book of Boba Fett, il primo spin-off del sottomondo di Din Djarin e del piccolo Grogu, architettando un racconto che è sia il prosieguo delle avventure del redivivo ed invecchiato ex cacciatore di taglie, sia una specie di storia d'origini interessata a conferire al personaggio una propria tridimensionalità psicologica ed una consistenza scenica che vada oltre la sfavillante, ma superficiale iconicità estetica che ne ha sempre contraddistinto il fascino. Assistito da un Robert Rodriguez del tutto inadatto al compito, Favreau fallisce però nel rendere credibile e convincente un Temuera Morrison che, nella sua inettitudine drammaturgica in quelle sequenze dal piglio serio e commosso ed improbabilità atletica in quelle invece d’azione pura, mette a serio repentaglio le speranze intrattenitrici della serie. Per fortuna, giunge in loro aiuto l'ingombrante ritorno delle grandi superstar e delle promesse registiche della serie ammiraglia. Insomma, The Book of Boba Fett non è proprio la Via di Star Wars.
“Ti stai rammollendo con l’età”. Un monito infausto? Una precoce promessa di pensionamento? Un’innocua battuta di spirito? O forse lo slogan più azzeccato per The Book of Boba Fett, nuovo addendo serial-televisivo del galattico (di nome e di fatto) universo di Star Wars, ma anche primo, vero spin-off di The Mandalorian, fino ad oggi l’unico prodotto seriale live action ambientato nella galassia lontana lontana, che, con la sua seconda stagione, ha dimostrato quanto potenziale inespresso si celi ancora nei meandri di questa saga ultradecennale.
Per chi non se lo ricordasse, The Mandalorian 2 si chiudeva proprio con il nostro redivivo ed invecchiato ex-cacciatore di taglie mandaloriano, al secolo storica nemesi di Han Solo e figlio di Jango Fett, che, con l’aiuto dell’assassina Fennec Shand (una Ming Na-Wen efficace ed efficiente), occupava il trono che, un tempo, era stato del suo principale committente, Jabba the Hutt, autoproclamandosi così nuovo Daimyo del pianeta Tatooine.
Almeno nei suoi piani originari, The Book of Boba Fett si configurerebbe quindi sia come il prosieguo delle avventure dell'ex sicario post-Mandalorian, sia come un racconto interessato ad esplorare, dopo anni, la figura di Boba Fett, dandole una propria tridimensionalità psicologica ed una consistenza scenica che vada oltre la sfavillante (sabbia del deserto permettendo), ma superficiale iconicità estetica che ne ha sempre contraddistinto il fascino. A tal proposito, la filosofia a guida di questa operazione - che porta nuovamente il nome di Jon Favreau, già showrunner, insieme a Dave “The Clone Wars” Filoni, del serial su Mando e il piccolo Grogu, e fa tornare, tra gli altri, Robert Rodriguez dietro la macchina da presa dell’universo lucasiano - è quindi del tutto opposta e, per certi versi, più rudimentale di quella che viceversa ha sempre ispirato la serie madre, perlomeno fino al finale della seconda stagione.
Laddove infatti, in The Mandalorian, Favreau e Filoni cercano di raccontare l’interiorità e la psicologia di un personaggio nuovo di zecca, caratterizzato da grandi conflitti di natura morale, religiosa e ascetica, da un background tragico e da un’emotività che dovrà ritrovare e riacquisterà pian piano, facendo leva paradossalmente su un’esteriorità algida, inespressiva, stilizzata, assai riconducibile ai canoni della saga e dunque potenzialmente anonima; in The Book of Boba Fett, (il solo) Favreau fa togliere la maschera al suo protagonista per sondarne ed approfondirne storia, sensazioni, coscienza e sentimenti; riflette e attua un disvelamento interiore tramite uno esteriore. Un procedimento che, nell'universo di Star Wars, è già stato tentato con il personaggio di Kylo Ren nella trilogia sequel.
Ed è proprio qui, in questa scelta specifica, che The Book of Boba Fett commette il suo peccato originale. Dalla sua infatti, Kylo Ren poteva contare sull’indiscutibile caratura attoriale, il profilo peculiare e il naturale carisma di un interprete del calibro di Adam Driver per condurre questo tipo di discorso. Al contrario, nel caso di Fett, Favreau e Rodriguez falliscono nel rendere credibile e convincente un Temuera Morrison che, nella sua inettitudine drammaturgica in quelle sequenze dal piglio serio e commosso ed improbabilità atletica in quelle invece d’azione pura, mette a serio repentaglio le speranze intrattenitrici della serie intera.
Un racconto, quello composto dallo stesso Favreau, che inizialmente (ovvero nei suoi primi quattro capitoli) sfrutta le numerose immersioni di Fett nella vasca di Bacta [una vasca guaritrice che il cacciatore usa per rigenerarsi] per impostare un tanto classico e stoico, quanto tremendamente banale e ripetitivo andirivieni temporale tra il passato del protagonista - quello ambientato post-Episodio VI, subito dopo la sua “fuga” dalle grinfie del Sarlacc, in cui il nostro farà la conoscenza ed entrerà a far parte di una tribù di predoni del deserto di Tatooine, i Tusken - e il presente post-The Mandalorian 2, dove questi dovrà risolvere alcune questioni politiche legate alle sue pretese di dominio sul pianeta desertico, sui suoi traffici e sui suoi cittadini, e annientare il tentativo di supremazia economica (e non solo) da parte del sindacato Pyke, proprietario delle maggiori tratte di spezia, una sostanza narcotica molto preziosa. (E, per chi se lo stesse chiedendo, no, non è né del sequel né dello spin-off di Dune.)
Nel caso la vostra curiosità si fosse in qualche modo risvegliata nel leggere queste poche righe di sinossi, non disperate: sono solo parole. Ciò che vedrete sul vostro dispositivo infatti non si avvicinerà neanche lontanamente all’idea che potreste esservi fatti in questo preciso istante. Se l’arco narrativo ambientato nel passato segue tutti i passaggi obbligati del racconto western alla Balla coi lupi [l’incontro, le incomprensioni e lo scontro iniziali, il sodalizio di sangue, la rivincita e ribellione contro il nemico e la disfatta finale], con tanto di adrenalinica sequenza di assalto al treno, la trama presente, quella più politica, basata su intrighi, complotti, tradimenti, guerra d’astuzia, ecc…, quella che avrebbe potuto veramente ridefinire l’immaginario della saga; viene completamente sacrificata ed insieme semplificata, a favore (questa volta, purtroppo) dei soliti luoghi comuni dell’epopea e del mondo di Star Wars.
Creature nuove nel loro essere già viste, sequenze di comicità e gags riciclate senza pudore dalla trilogia originale, ambienti monotoni e monocromatici: tutti sintomi di una creatività, una vitalità ed una esuberanza immaginifica completamente assorte, inquadrati e (ri)raccontati, a loro volta, con estrema svogliatezza, dall’autore di uno degli episodi più insipidi di The Mandalorian. Robert Rodriguez, uno dei registi (a nostro avviso) meno adatti al paradigma starwarsiano, prende in mano le redini registiche di The Book of Boba Fett, disattendendo e smontando nei modi più ridicoli e sgradevoli ogni aspettativa che la serie riesce a creare nello spettatore.
A tal proposito, uno degli esempi più lampanti e chiacchierati è senza dubbio quello della banda di teppisti che nel terzo episodio viene reclutata dal neo Daimyo per guardargli le spalle. Ove la sceneggiatura di Favreau parrebbe anticipare una prima incursione del canone di Guerre Stellari in atmosfere tra il cyberpunk e l’animazione giapponese, prefigurando appunto un gruppo di ragazzacci “modificati”, con arti ed occhi cibernetici e prolungamenti meccanici vari ed eventuali, Rodriguez, questo prestito iconografico, lo trasforma in un’improbabile squadra, messa in scena in modo ancor più ridicolo ed improbabile, che, da un lato, ricorda i suoi Spy Kids, dall’altro si avvicina quasi ad una perversione dei Power Rangers, con tanto di moto colorate, di per sé esteticamente incoerenti con la classica ambientazione che è Tatooine.
Se a tutto questo e ad un Temuera Morrison simil Lando Buzzanca che non riesce a tener salda l’attenzione dello spettatore, uniamo una direzione dell’azione che, perlomeno nei primi quattro episodi, si dimostra approssimativa e carente (anche e soprattutto in termini di montaggio), capite bene quanto vertiginosamente si azzerino le probabilità di successo di The Book of Boba Fett, specie se confrontata con la fortunata serie madre.
Per fortuna, con il quinto episodio, quella stessa “serie madre” sotto forma di una delle sue più preziose ed apprezzate promesse registiche, Bryce Dallas Howard, e del suo stesso creatore, Dave Filoni, tornano in scena, stravolgendo del tutto gli orizzonti narrativi ed artistici dello show, innalzando le ambizioni del pasticciato mosaico immaginato da Jon Favreau, reintroducendo quello stimolante discorso sui generi di cui The Mandalorian si è sempre fregiata, dunque distogliendo i riflettori dal naufragio della macchina fantastica di Robert Rodriguez (che fortunatamente riesce a rialzarsi, ma non certo a redimersi, con un finale di stagione orchestrato con grande ritmo ed un ritrovato senso dell’azione).
Giusto per farvi capire l’entità di questo “sfratto”; di una serie editorialmente affascinante - come morbosamente affascinante può solo essere un incidente o, peggio, una tragedia -, passate quattro ore, The Book of Boba Fett ha bisogno del ritorno massiccio delle superstar del canone starwarsiano (nuovo e classico), quindi Mando, Grogu, Cobb Vanth, Peli Motto, addirittura l’Ahsoka di Rosario Dawson ed un Luke Skywalker tecnologicamente strabiliante e di certo più espressivo dello stesso Morrison; per riconquistare l’appoggio o, anche solo, l’interesse degli spettatori - probabilmente anche di quelli più affezionati.
La presenza di Boba Fett si avvicina quasi al cameo, per più episodi ci si allontana dai luoghi in cui si stanno consumando i giochi di potere tra il Daimyo e i Pyke, e la serie stessa passa dall’essere un‘appendice più o meno accessoria, a rivelarsi quale ostico e sofferto tassello chiave per la comprensione non solo della terza stagione di The Mandalorian, ma anche della macrotrama e, con essa, dei destini della galassia lontana lontana. Che finora hanno sempre e soltanto risieduto in un’improbabile coppia che, di Star Wars, è sempre stata la cifra espressiva più alta o, come direbbe uno di loro, la Via.
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