TITOLO ORIGINALE: The Batman
USCITA ITALIA: 3 marzo 2022
USCITA USA: 4 marzo 2022
REGIA: Matt Reeves
SCENEGGIATURA: Matt Reeves, Peter Craig
GENERE: noir, thriller, poliziesco, azione, drammatico
Robert Pattinson è un eccellente Batman acerbo, sbarbato, immaturo, ricolmo di odio, rabbia e d'una sete di vendetta mascherata da finta giustizia in The Batman di Matt Reeves, sesta incarnazione cinematografica del leggendario personaggio a fumetti creato nel maggio 1939 da Bob Kane e Bill Finger. Il noir, l'hard-boiled, il neo thriller di David Fincher, la sanguinità della saga di Saw l'Enigmista si mischiano in un tipico racconto poliziesco procedurale che riesce a far confluire tutti questi diversi stimoli in un pastiche abile, coinvolgente ed equilibrato, il cui più grande vanto è forse proprio il non voler celare a tutti i costi questo rifarsi e riferirsi continuamente a qualcos’altro. Purtroppo, dopo novanta minuti a dir poco fenomenali, il film di Matt Reeves si sgonfia, allenta e allunga il racconto a dismisura, sembra indeciso sul finale da darsi, arrivando a sfiorare le tre ore di durata ed interrompendo l'eccellente fluire dell’investigazione.
“Il rinnovamento è una bugia” si dirà ad un certo punto di The Batman di Matt Reeves, sesta incarnazione cinematografica (live action, s'intende) del leggendario personaggio a fumetti creato nel maggio 1939 da Bob Kane e Bill Finger sulle pagine di Detective Comics (il numero 27, per essere più precisi).
“Il rinnovamento è una bugia”. Niente più che una sacrosanta verità nel caso difranchise come quello di Batman, che, nonostante tutti i possibili stravolgimenti e i differenti approcci registico-produttivi, dovrà sempre rimandare ed essere legato indissolubilmente a tutta una serie di archetipi fondanti ed identificativi. Ma anche una provocazione travestita da dichiarazione d'intenti che esplicita chiaramente la natura dell’operazione di reboot qui intrapresa da Matt Reeves, uno dei geni del blockbuster contemporaneo, noto soprattutto per come è riuscito a rivitalizzare e irrobustire una saga disorientata come Il pianeta delle scimmie, a nostro parere, mal compresa ed interpretata da quello stesso Tim Burton che, nel lontano 1989, compì invece un vero e proprio miracolo con il primo, vero adattamento cinematografico delle avventure del Crociato di Gotham.
E oggi, come si suol dire, il cerchio si chiude.
Tuttavia, prima di continuare, ai fini della recensione è bene ricordare ai più inesperti le origini editoriali del personaggio, dal momento che - lo si poteva ben intendere, ma non certo fino a questo punto - la versione dell’eroe incappucciato di The Batman pesca a piene mani proprio dall’idea iniziale ed iniziatica di Kane e Finger. Il primissimo Pipistrello, infatti, altro non era che un calderone che raggruppava al suo interno tutti gli stimoli. le influenze, gli elementi caratteristici provenienti da ciò che, allora - ovvero sul finire degli anni ‘30 - aveva più successo. Ritroviamo quindi le storie di detective nevrotici, contradditori e moralmente ambigui che vagano senza meta in città corrotte e degradate su cui si concentrano i romanzi hard-boiled di autori come Dashiell Hammett, Raymond Chandler e James Ellroy, ma anche e soprattutto influssi dei primi noir e horror hollywoodiani, così come quel senso di ruvidezza e oscenità tipico dei più “popolari” e “bassi” pulp magazine.
In altre parole, tra le varie anime e sfaccettature di un personaggio ormai ultraottantenne, Matt Reeves sceglie - strano ma vero - quella meno trasposta o, se proprio vogliamo considerare “detection” l’attività del Batman di Christian Bale nella trilogia de Il cavaliere oscuro, mai approfondito a dovere; mai reso anima portante dell’intreccio.
Pertanto, dopo una prima sequenza che, a dispetto del mantra di cui sopra, sembrerebbe davvero offrire una nuova prospettiva al personaggio, in termini di espressione puramente cinematografica (per dirlo meglio: una prima sequenza in cui, con una singola e affannata soggettiva, The Batman parrebbe quasi rimandare ad un discorso meta (trito e ritrito, ma “batmanianamente nuovo”) sullo sguardo, rifacendosi quindi ai modelli del thriller hitchcockiano, del giallo (all’italiana), dello slasher, oppure ancora del cinema di un eccellente proselita come Brian De Palma [d’altronde, a lanciare Matt Reeves è stato proprio un film, Cloverfield, in cui la soggettiva era praticamente tutto] -, ci pone di fronte ad un Batman degli inizi, ben più acerbo, sbarbato e amorfo di Begins, immaturo, ricolmo di odio, rabbia, nonché d'una sete di vendetta mascherata da finta giustizia, come dimostra il suo stile di combattimento brutale, nervoso e rude, mutuato in pieno da quello caratteristico della serie di videogiochi Batman: Arkham.
Un Batman, dunque, ancora temuto e scrutato con sospetto, diffidenza e circospezione dalla popolazione di Gotham e dal suo dipartimento di polizia - fatta eccezione, ovviamente, per il tenente Jim Gordon (un Jeffrey Wright remissivo) -, dietro la cui maschera si cela nientemeno che un rinato Robert Pattinson nel ruolo di un Bruce Wayne più fragile, incurvato, ancora afflitto dalla morte e dal ricordo dei genitori, introverso, più dimesso e meno modaiolo, pallido, sbiadito, sudicio, grungy; una fusione di Kurt Cobain (non a caso ascolta proprio Something in the Way dei Nirvana), Brandon “Il Corvo” Lee e Rorschach di Watchmen, con tanto di diario e annessa voice-off (per fortuna, non così ingombrante). Un Batman insieme riflessivo, incerto ma indubbiamente brillante che, come i migliori detective noir, si ossessiona ad un caso a tal punto da camminare in bilico sul filo che separa giusto e sbagliato, luce ed ombra, giudizio assennato e cieca vendetta.
Il caso in questione ha a che fare con un serial killer soprannominato l’Enigmista (su Paul Dano sarà bene aprire un capitolo a parte) che, in nome di un non meglio precisato schema o connessione, inizia a far fuori, in maniera anche abbastanza sadica, efferata e cruenta, le persone più influenti di Gotham, legate tra di loro, oltre che da questa loro posizione sociale, anche dalla partecipazione, più o meno indiretta, ad una celebre retata anti droga ai danni del mafioso Sal Maroni.
Sgrovigliare il bandolo della matassa porterà il nostro Batman, aiutato dalla seducente e fatale Selina Kyle (una Zoë Kravitz “bella che non balla”, tutt’altro che pruriginosa nell’inevitabile attrazione fatale col Pipistrello), a scontrarsi con le più alte cariche criminali della città, tra cui il Pinguino (un Colin Farrell irriconoscibile, strepitoso ed assurdamente entusiasmante) e Carmine Falcone (un John Turturro in gran spolvero, subdolo ed enigmatico). Ciò nonostante, il neo-detective in calzamaglia non immagina nemmeno quanto oscura, recondita ed estremamente personale sia la verità alla base del caso, capace, se rivelata, di distruggere del tutto il buon nome e l’imperitura devozione che gli abitanti della mesta metropoli hanno sempre dimostrato nei confronti dei Wayne, la sua famiglia…
Fenomenali, sconcertanti, stupefacenti: non esistono aggettivi migliori per definire i primi novanta minuti di The Batman di Matt Reeves, che, dopo averci immesso in un mondo in cui tutto sembra possibile, dove la tradizione e il matrimonio con altri reami cinematografici possono diventare lo strumento giusto per svecchiare la formula; sceglie di non raccontarci (bensì di farci intuire con acuti parallelismi e scambi di sguardi) le origini - ormai trite e ritrite - del supereroe, concentrandosi piuttosto sulla costruzione di Gotham, delle sue atmosfere, della sua fauna umana e del suo ecosistema sociale.
In questo, gioca un ruolo di prim’ordine il penetrante lavoro fotografico di uso di tonalità e colori, come anche di buio e oscurità da parte di un Greig Fraser in gran sintonia creativa con il regista, che, dopo Dune, riesce nuovamente a conferire sostanziosità e spessore alle proprie immagini, andando al di là di un mero, ma ineccepibile istinto iconico. Batman viene concepito pertanto come un prodotto della stessa Gotham, in particolar modo, dei suoi angoli d’ombra, della sua cattiveria e meschinità, della sua criminalità e crudeltà, insomma del suo peggio. Egli quindi si staglia sull’oscurità, prende forma da quel nero indistinto ed impreciso. Al contempo però, Gotham gli appare come una bestia strana ed inafferrabile che non riesce a mettere a fuoco facilmente (non a caso lo stesso Fraser usa spesso e bene la sfocatura).
La città è, per Batman, una massa informe e mutevole di cui sembra sempre mancare quel pezzo mancante, quel collegamento enigmatico per comprenderla appieno, per completarne il dipinto, e che egli tenta a tutti i costi di afferrare, magari potenziando ed ampliando pure la propria visione, il proprio sguardo(!) attraverso lenti capaci di leggere la realtà più chiaramente, riproducendola pure in tempo reale. Lenti bioniche che rimandano inevitabilmente ad un immaginario cyberpunk (ritrovabile nella sua veste più nota ed eccezionale, Blade Runner, anche nell’aspetto umidiccio, turpe e degradato della stessa Gotham), che, insieme ai già citati noir e hard-boiled, compongono parte del retroterra della visione batmaniana di Matt Reeves.
A questo si aggiunge, in secundis, l’efferatezza viscerale, esplicita, conturbante, nonché timidamente voyeuristica della scena del crimine - tanto nella sua "apparecchiatura" quanto nell'analisi dettagliata e particolareggiata, condotta quasi sempre da un duo di detective -, tipica del cinema di David Fincher, in particolare, di pellicole come Se7en e Zodiac, alle quali sembra ispirarsi - nel look e non solo - pure lo stesso villain di Paul Dano. Oppure ancora l’invenzione di trappole sempre più folli, complesse ed ironicamente spietate, da sempre marchio di fabbrica di una saga come Saw - che, di secondo nome, non a caso fa l’Enigmista. Pratica, quest’ultima, che Reeves riadatta qui in una forma più morigerata, sobria e lineare.
Tutto ciò viene infine fatto confluire in un tipico racconto poliziesco procedurale simile, per certi versi, a quanto già fatto da Telltale nelle due avventure grafiche a scelta multipla incentrate - quantomeno la prima - proprio su un Batman alle prime armi, a cui la pellicola si ispira pure nel suo riorganizzare, rimescolare e reinventare luoghi comuni e topoi della mitologia e del mondo del personaggio, secondo coordinate “tradizionalmente nuove”.
Giunti a questo punto però, una precisazione è d’uopo. Difatti, elencando le varie fonti di ispirazione di The Batman, è lecito che alcuni di voi possano pensare a questi primi novanta minuti alla stregua di un plagio malcelato. Ebbene, la realtà è che sì, Matt Reeves prende largo spunto da tutta una serie di prodotti già affermati e familiari (chi più, chi meno) al grande pubblico, facendo dunque della propria visione un qualcosa di epidermicamente troppo sottomesso e dipendente da modelli ed iconografie precedenti e precostituite.
Ciò nonostante, la vera nota di freschezza e novità - se così la vogliamo definire - di quest’ultimo Uomo Pipistrello sta proprio nel modo in cui il regista riesce a far confluire tutti questi stimoli, all’apparenza inconciliabili, in un pastiche abile, coinvolgente ed equilibrato, il cui più grande vanto è forse proprio il non voler celare a tutti i costi questo rifarsi e riferirsi continuamente a qualcos’altro (d’altronde, lo stesso Reeves non ha mai fatto mistero delle sue matrici a fumetti, da Anno Uno a Il lungo Halloween, fino a Vittoria oscura).
Di fatto i primi novanta minuti di The Batman sono un esempio eccellente di come raccontare un mondo nuovo (circa), con le sue simmetrie e spigolosità, attraverso un giallo meno ingarbugliato di quanto possiate pensare, ma - perlomeno in questa sua prima porzione - incredibilmente appassionante. Un giallo dove tutto - incluse le fasi di detection, la tensione del mistero, unitamente alle (poche) sequenze puramente action - è centellinato al millimetro, montato a regola d’arte da William Hoy, posto nell’attimo, a sé e per sé, più esatto e funzionale, e soprattutto ben amalgamato all’interno di un intreccio che, oltre ad apparire al limite dell’incorruttibile, dona al pubblico probabilmente una delle sequenze d’inseguimento migliori degli ultimi anni.
Poi... il crollo. D’altronde, sembrava troppo bello per essere vero.
Superata infatti la prima ora e mezza, man mano che il cerchio si stringe attorno all’eredità della dinastia Wayne e al suo unico superstite, The Batman - e lo diciamo con tutta l’amarezza possibile - si sgonfia, allenta e allunga il racconto a dismisura, sembra indeciso su quale finale darsi, arrivando a sfiorare le tre ore di durata (troppe, per chi vi scrive) ed interrompendo, a tal proposito, l'eccellente fluire dell’investigazione.
La sceneggiatura dello stesso Reeves e di Peter Craig sposta perciò la propria attenzione sulla costruzione di una via più propriamente drammatica, tuttavia non tenendo conto di evidenti carenza di scrittura e dando fin troppa fiducia ad un Andy Serkis praticamente assente, defilato, per non dire inutile, nel ruolo del maggiordomo Alfred. Quello che fa la coppia di sceneggiatori è allora portare al peggior estremo quell’idea che “il rinnovamento è una bugia”, scadendo, come non bastasse, nella proverbialità di messa in scena, nei simbolismi facili, nella semplificazione e banalizzazione di psicologie e risvolti, nel sacrificio di quegli sprazzi di Cinema puro (lo sguardo, il lavoro sull’ombra), stressando più del dovuto la gravitas narrativa, perdendo il controllo razionale e ragionato di tutti quei piccoli “furti a fin di bene” che tanto abbiamo elogiato sopra, compiendo vere e proprie incursioni in altri prodotti e smarrendo, di conseguenza, la salda identità mantenuta fino a quel momento.
Ecco allora che una scena madre come quella dell'inesorabile confronto tra Batman e l’Enigmista non solo si rifà, ma sembra proprio estrapolata da una serie come Mindhunter (sempre di FIncher, ndr), con Batman al posto degli agenti dell’FBI e l’omicida nei panni dell’ultima incarnazione di un Ed Kemper, piuttosto che di un BTK. Lo stesso si può dire anche di un risvolto di trama in particolare, ripreso di sana pianta dal mitico finale del già citato Se7en, con Paul Dano al posto del serial killer interpretato da Kevin Spacey.
In effetti, una delle più grandi note dolenti della seconda porzione di The Batman si rivela essere proprio lui, Paul Dano, ridotto, da figuro ambiguo, subdolo ed incomprensibile, a puro, se non ridicolo calco dell’inscalfibile e sempiterno Joker di Heath Ledger ed incarnazione del discorso sociale alla base della trilogia nolaniana; terrorista (da community online) schizofrenico, esaltato, imprevedibile, animato da un odio profondo nei confronti delle famiglie più abbienti ed influenti di Gotham, di cui punta a smascherare ipocrisia, corruzione e giochetti di potere, capace inoltre di centralizzare su di sé le attenzioni dei media e dell’opinione pubblica attraverso dirette (questa volta) sui social media, appelli in pubblica piazza, invocazioni alla lotta sociale, alla ribellione degli ultimi, ad un anarchico sovvertimento della scala sociale. Vi ricorda nulla?
Dunque, non solo The Batman finisce per celarsi dietro la maschera del thriller più convenzionale e disinteressato, ma ci ricorda pure, per l’ennesima volta, quale sia stato e sia ancora l’impatto che la trilogia nolaniana ha avuto e ha sulla figura e sul mondo del Crociato incappucciato, nel bene e nel male (vedasi Zack Snyder e il suo decadentismo patinato). E va bene che, come ci viene detto nel finale, “a Gotham piacciono le storie dei ritorni”, ma da ritorno a ridondanza ipertrofica e stucchevole il passo è più breve di quanto si possa immaginare. Non che il ruvido, materico e concreto film di Matt Reeves sia del tutto ascrivibile ad una dipendenza insopprimibile o alle regioni e ragioni di un brutto film.
Ma, di questo, più che la pellicola in sé e per sé - che, a nostro avviso, mal sopporterà lo scorrere del tempo -, dobbiamo ringraziare la disarmante ed imperiosa colonna sonora di Michael Giacchino, l’ottimo sonoro, ma soprattutto un Robert Pattinson ineccepibile nell’interpretazione che riuscirà finalmente a sottrarlo dall’onta di Twilight e a consacrarne la singolare bravura agli occhi del grande pubblico.
E per fare ciò, come è regola per i grandi attori, gli è sufficiente cambiare giusto un elemento dell’equazione attoriale interpretazione-di-Batman. Laddove infatti tutti i suoi predecessori mascherati, seguendo poi la lezione del beccuto Michael Keaton delle pellicole di Burton, hanno sempre lavorato utilizzando soprattutto la bocca (per Val Kilmer è stata una maledizione, per Bale un modo per farsi temere, per Clooney e Affleck la riprova della loro inadeguatezza), Pattinson lavora per lo più con gli occhi, riuscendo - un po’ come fa Pedro Pascal in The Mandalorian - a rimandare sempre ad un’espressione, ad un volto, ad una fisionomia chiara, intuibile, trasparente, anche e soprattutto quando filtrata dalla maschera.
La sua prova e credibilità nei panni del Pipistrello rappresentano insomma l’unico, vero e proprio attentato all’immaginario collettivo e all’impronta lasciata negli anni da alcuni suoi colleghi, all'interno della cornice di un film viceversa non del tutto memorabile.
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