TITOLO ORIGINALE: Texas Chainsaw Massacre
USCITA ITALIA: 18 febbraio 2022
USCITA USA: 18 febbraio 2022
REGIA: David Blue Garcia
SCENEGGIATURA: Chris Thomas Devlin
GENERE: horror, thriller
PIATTAFORMA: Netflix
Su soggetto di Fede Álvarez e Rodo Sayagues, David Blue Garcia trasla il mito di Faccia di cuoio in un’America post-trumpiana nel sequel diretto del rivoluzionario film di Tobe Hooper del 1974. Una comunità retrograda nel Texas, ancora colpita dal ricordo della strage che Leatherface e la sua famiglia di cannibali commisero cinquant'anni prima, diventa l’arena perfetta per dar vita e mettere in scena lo scontro tra le ombre passatiste e gli incubi di ieri ed un presente idealista che tenta di riqualificare e modificare gli spazi rovinati da quelle stesse spinte vetuste ma non per questo sopite. Peccato che, ad un'idea di partenza neanche troppo malvagia, corrisponda uno sviluppo che, al di là di un’anima splatter particolarmente creativa ma alla lunga stucchevole, non presenta alcun guizzo degno di nota, dimostrandosi svogliato, stanco e puerilmente citazionista. Un film non propriamente brutto, ma abbastanza insapore. Fin troppo per intitolarsi Non aprite quella porta.
Objects in the mirror are closer than they appear si legge su uno specchietto retrovisore in uno dei primi segmenti propriamente horror di Non aprite quella porta di David Blue Garcia, sequel diretto del leggendario cult movie del 1974 diretto da Tobe Hooper e nona iterazione della saga che, da quel film rivoluzionario, ha poi avuto origine. Gli oggetti nello specchietto sono più vicini di quanto sembrino: un comune e banale avvertimento che diventa la metafora forse più emblematica e rappresentativa delle intenzioni di questo nuovo inserto della storia di Leatherface.
Su soggetto di Fede Álvarez e Rodo Sayagues, duo creativo che ha dato vita ai due Man in the Dark e firmato il remake de La casa, il film di David Blue Garcia trasla infatti il mito di Faccia di cuoio in un’America, quella post-trumpiana, il cui passato retrogrado, razzista e nostalgico lasciatosi alle spalle, nello specchietto retrovisore, è più vicino, vivo e (per forza di cose) attuale di quanto non sembri.
Abbracciamo allora il punto di vista di un quartetto di ragazzi in viaggio verso la cittadina fantasma di Harlow, in Texas. Due di loro, Dante e Melody, sono imprenditori digitali, o più comunemente influencer, impegnati nel mondo della cucina e si stanno addentrando nel profondo e dimenticato Sud per fare di questa cittadina abbandonata - in cui non è poi così impensabile trovare una bandiera confederata, un meccanico con un fucile d’assalto ed un pistola alla cintura o poliziotti e benzinai guardinghi - un'area alla moda e fortemente gentrificata.
Tuttavia, come appena detto (lo leggiamo pure su un cartello lungo la strada), Harlow è rimasta ferma al 1974.
Da un lato infatti, è ancora indelebile il ricordo di quei quattro collegiali - figli, come molti protagonisti di slasher anni ‘70-’80, della controcultura e della liberazione sessuale - uccisi già cinquant’anni or sono da Faccia di cuoio e dalla sua famiglia di cannibali. E, indelebile, lo è soprattutto per la final girl (del film originale di Hooper) Sally Hardesty, ora una ranger cazzuta bianco crinita, tutt’oggi perseguitata dalle reminiscenze di quella tragedia immonda.
Dall’altro lato invece, questa comunità persa nelle sabbie del tempo diventa l’arena perfetta per dar vita e mettere in scena lo scontro tra le ombre passatiste e gli incubi di ieri ed un presente idealista che tenta di riqualificare e modificare gli spazi rovinati da quelle stesse spinte vetuste ma non per questo sopite.
Due visioni che Blue Garcia - assistito da Chris Thomas Devlin in sceneggiatura -, inquadra e legge in maniera ambigua, duplice e, perciò, abbastanza audace. Ne consegue che, nonostante ne affermino la più sincera e profonda malvagità, gli autori tengono a mostrarci ciò che è stato (ed è ancora) e, quindi, Leatherface in una veste anche patetica e pietistica.
Viceversa, pur sottolineandone la lodevole missione progressista, gli stessi non si esimono anche dal considerare il presente - e, con esso, una realtà significativa come quella degli imprenditori digitali, che pian piano è sempre più oggetto delle attenzioni del grande schermo - nelle sue forme usurpatrici, di spietato e noncurante approfittatore dell’impopolarità e dell’innata scorrettezza delle spoglie passate.
Tutto questo, unito ad un’espansione al binomio armi-scuola, avrebbe potuto fare di questo sequel diretto di Non aprite quella porta (in potenza) un film rilevante, considerevole e, se non del tutto originale [l’horror moderno, da Romero in giù, è sempre stato infatti una rielaborazione degli orrori della contemporaneità], almeno sostanzioso.
Peccato che Blue Garcia non sia né Romero, né Carpenter, né tantomeno Jordan Peele (per citare un nome più recente) e che questa apparente complessità argomentativa si riduca ad un sotto-testo dalla superficialità ed evidenza talmente ingombranti da diventare niente più che un pretenzioso ripiego, utile soltanto a giustificare una composizione horror che - al di là di un’anima splatter particolarmente creativa ma alla lunga stucchevole ed una(!) scelta azzeccata - non presenta alcun guizzo degno di nota, dimostrandosi svogliata, stanca e puerilmente citazionista.
Dunque: i rapporti tra i personaggi sono fastidiosi al limite della sgradevolezza; la scelta di riportare sugli schermi il personaggio di Sally Hardesty - sulla falsariga di quanto fatto con Laurie Strode nell’ultima trilogia di Halloween - viene penalizzata dalla poca credibilità interpretativa e dal pietoso fisic du role di Olwen Fouéré (che non è certo Jamie Lee Curtis, diciamolo); la tensione è praticamente assente, così come non pervenuti sono il brivido e la vertigine; la fotografia - l’ennesima e proverbiale riproposizione dei toni umidicci e aridi - riserva ben poche sorprese o momenti davvero ispirati (ad eccezione forse della sequenza dell’autobus, divenuta già scult); più si prosegue, più il racconto sembra venir meno ad una parvenza di equilibrio e sfaldarsi, culminando in un finale ridicolo ed eccessivamente iperbolico; non regge neanche lo stesso Leatherface, più simile ad una marionetta imprigionata nello stereotipo di sé e nei luoghi comuni dei suoi giorni di gloria, che ad un feroce segugio del Male da temere e attendere col fiato sospeso.
In tal senso, mai scelta fu più esatta che quella (apparentemente raffinata) di ambientare l’ultimo confronto tra sopravvissuti e horror maniac in un cinema fatiscente e devastato, che, a sua volta, diventa inavvertitamente la perfetta rappresentazione di un’industria che, a forza di sfornare prodotti del genere, finisce solo per farci apprezzare e rimpiangere ancor di più quello stesso passato che tenta così ardentemente di problematizzare.
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