TITOLO ORIGINALE: America Latina
USCITA ITALIA: 2021
REGIA: Damiano e Fabio D'Innocenzo
SCENEGGIATURA: Damiano e Fabio D'Innocenzo
GENERE: thriller
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del cinema di Venezia
A solo un anno di distanza da quel film clamoroso che era ed è Favolacce, i D’Innocenzo tornano a far parlare di sé e della loro visione cinematografica unica ed irripetibile con America Latina, un horror domestico che si converte poi in un thriller della mente, dei vuoti di memoria, degli scatti schizofrenici e di una claustrofobia che i D’Innocenzo trasmettono bene attraverso una messa in scena che predilige il contatto stretto con i propri interpreti, tra cui un sorprendente Elio Germano. L’ennesimo racconto di messa in crisi dell’uomo medio, raccontato e messo in scena però con una maturità ed una lucidità che fanno ben sperare per il futuro.
È sul dislocamento nostro(?), del protagonista(?), di entrambi(?) che si compone e fonda tutto l’impianto cinematografico di America Latina, terzo film scritto e diretto dai fratelli D’Innocenzo, che, l’anno scorso, con Favolacce (vincitore dell’Orso d’argento per la sceneggiatura a Berlino) hanno permesso al cinema italiano e al suo pubblico di dare un’occhiata ad una visione del racconto per immagini che, seppur di matrice indubbiamente italiana, è riuscita a portarci lontano con la mente, attraverso i suoi richiami ad un cinema alieno ai canoni nazionali, le sue atmosfere stralunate ed angoscianti, ed una peculiarità più consona ad autori affermati e navigati, che non a due neofiti della regia.
Disorientante ed emblematico è già il titolo, America Latina, perfettamente inquadrato dalla sequenza d’apertura del film. Qui, riprese che sembrerebbero essere state realizzate da qualcuno che, in viaggio su una macchina o su un qualsiasi altro mezzo, si sta divertendo a riprendere, con il cellulare, il paesaggio che sta attraversando e gli elementi che lo compongono, rimandano subito, per costruzione e per oggetto di rappresentazione, all’idea e all’iconografia di un racconto on the road attraverso e sullo sfondo dell’entroterra deserto e secco di quegli Stati Uniti, di quell’America contenuta nel titolo.
Questo pensiero sembra poi essere confermato dalla villetta in cui abita il protagonista del film, Massimo, un dentista che conduce una vita medio-borghese ridondante ed ordinaria. Una costruzione, casa sua, così singolare, bizzarra, quasi anomala e dunque più consona ad un ambiente e ad un habitat statunitensi, che non a quell’italianità, a quel Latina a cui rimandano, al contrario, il nome del nostro e la cadenza romana che ne caratterizza la parlata, o l’abile inserimento (in questo ecosistema iconograficamente d’oltreoceano) di un elemento (a noi italiani) vicino e (da noi) riconoscibile, come l’entrata di una Coop.
Viene quindi naturale chiedersi quale sia il luogo in cui si ambienta la pellicola. L’America? (Il comune di) Latina? Oppure, nel caso, un’America Latina?
Su questo interrogativo - che si rifà molto al lavoro compiuto dai Coen [il cui Fargo viene citato evidentemente dal poster della pellicola] sulla confusione spazio-temporale, già sfruttato dal duo nel lavoro precedente - ruota dunque il senso e il divertito esercizio cinematografico dell’ultima opera dei cineasti capitolini.
Una specie (concedetecelo) di lato C di un album che ha iniziato a far risuonare le note di un sorprendente ingegno e di una inimmaginabile lucidità registico-narrativa ne La terra dell’abbastanza - loro primo film - e che sembra non aver ancora finito le tracce.
La musica suonata da questo disco è naturalmente quella che ormai abbiamo imparato ad amare. Una melodia agrodolce che parla di morte dei valori e della morale, della crisi di una società ed una collettività corrotta e dissonante (torna il telegiornale che, pur raccontando di altre vite, sembra descrivere la nostra), e della messa in crisi dell’uomo medio, il quale si converte in una creatura alienata, ripugnante e semplicemente insopportabile.
Tale declino ed un simile clima di incertezza ed ambiguità, nel primo film, i D’Innocenzo l’avevano affrontato in chiave gangster. Con Favolacce, avevano deciso invece di spararla ancora più grossa, arrivando ad attaccare direttamente il contesto familiare di una comunità, da favola (americana), sul punto di esplodere ed avanzando, sul finale, il sospetto che tutto ciò che abbiamo appena visto non sia altro che la fantasia di un pedofilo. Nel caso di America Latina, si decide allora di raccontare la storia di un borghesuccio - il dentista Massimo - che vive in una villetta di periferia e conduce, con moglie e figlie, un’esistenza apparentemente perfetta. Questa normalità e perfezione vengono però messe in serio dubbio quando questi fa un’inquietante scoperta nel suo scantinato. Qui, la società non è presente materialmente, ma sembra esserlo, presente e giudicante, dietro la macchina da presa, dietro le quinte e nei molteplici angoli di oscurità della vita del protagonista.
Pertanto, come il grande Parasite di Bong Joon-ho, abbiamo quindi l’idea di un scantinato (o, più generalmente, di una casa) che custodisce dei segreti indicibili e, al contempo, la figura (reale o allegorica) di un parassita che si annida nel luogo che tutti noi riteniamo essere il più sicuro ed inizia a minare la serenità del nido familiare e dei suoi componenti.
Ciò nonostante, a differenza di quello sud-coreano (che fa della casa una pedina imprescindibile ed attiva del proprio racconto), il testo dei D’Innocenzo preferisce focalizzarsi sul solo protagonista, su una silenziosa ed impercettibile analisi dei suoi processi mentali e psicologici, su una progressiva discesa agli inferi, sullo spettro del dubbio, dell’incertezza e della paranoia di sé stesso e di tutto ciò e tutti coloro che lo circondano, e quindi sugli spazi del suo cervello, della sua interiorità e della sua lenta trasformazione in quella decadenza perversa dell’uomo medio proposta sopra.
Come affermano gli stessi cineasti, “abbiamo scelto di raccontare questa storia perché, semplicemente, era quella che ci metteva più in crisi. [...] Una storia che sollevava in noi domande alle quali non avevamo (e non abbiamo, nemmeno a film ultimato) risposte che non si contraddicessero l’una con l’altra. Interrogarci su noi stessi è la missione più preziosa che il cinema ci permette e America Latina prende alla lettera questa possibilità, raccontando un uomo costretto a rimettere in discussione la propria identità”.
L’aspetto più sorprendente ed affascinante di questo “lato C” è però la disarmante consapevolezza del mezzo cinematografico dimostrata dal duo, la sintesi visiva, la composizione funzionale e l’immediatezza semantica delle loro immagini, così come la capacità di coniugare all’interno dello stesso film, in maniera originale e personale, non solo rimandi ai loro tanto amati Lanthimos e Haneke, ma anche suggestioni ed intuizioni visive perturbanti ed impreviste (merito di uno strepitoso lavoro fotografico di Paolo Carnera) che rimandano chiaramente al cinema thriller/horror anni ‘60/’70 di nomi come Argento, Bava e Roman Polanski. (Cosa non da poco, soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di un capitolo tre.)
In effetti, a ben pensarci, America Latina è un film che si muove inizialmente nei lidi dell’horror, quello domestico, quello di invasione del proprio Lebensraum; ma che ben presto giunge al thriller psicologico, delle visioni che potrebbero o non potrebbero corrispondere alla realtà, dei vuoti di memoria, degli scatti schizofrenici e di una claustrofobia che i D’Innocenzo (e Carnera) trasmettono bene attraverso una messa in scena che predilige il contatto stretto con i propri interpreti (specie con un Elio Germano che riesce, ancora una volta, a reinventarsi e a rimettersi in discussione) e che, di conseguenza, non lascia alcuna via di fuga, evasione o boccata di aria fresca allo spettatore, che uscirà dalla sala quasi asfissiato da un viaggio alla ricerca della luce attraverso l’oscurità, nel delirio di un uomo, nella speranza giornaliera di una rinascita e nei corridoi angusti ed incomprensibili (tanto quanto l’architettura della sua casa) della sua mente, ben tratteggiati dalla colonna sonora sinistra e minimale dei Verdena.
Un viaggio, America Latina, non certo di facile lettura, inferiore a Favolacce (ma anche parzialmente opposto), che molti probabilmente non comprenderanno o apprezzeranno particolarmente, che farà discutere (il che è forse un pregio acquisito), ma di cui non si può non riconoscere la maturità e l’identità. Valori, questi ultimi, di un cinema, quello dei D’Innocenzo, che, ora come ora, costituisce di fatto un unicum; un esempio autoriale a sé stante ed irripetibile all’interno dell’attuale panorama italiano.
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N. B. Questa recensione si riferisce alla versione proiettata al Lido di Venezia nel settembre 2021, dunque non alla versione rilasciata in sala.