TITOLO ORIGINALE: Favolacce
USCITA ITALIA: 11 maggio 2020
REGIA: Damiano e Fabio D'Innocenzo
SCENEGGIATURA: Damiano e Fabio D'Innocenzo
GENERE: drammatico
PREMI: ORSO D'ARGENTO al FESTIVAL di BERLINO per la MIGLIORE SCENEGGIATURA; DAVID DI DONATELLO al MIGLIOR MONTAGGIO
La storia di una piccola comunità situata nella periferia meridionale di Roma e abitata perlopiù da famiglie che, dietro un'apparente normalità e monotonia, nascondono realtà sadiche, disfunzionali ed ipocrite. Damiano e Fabio D’Innocenzo firmano un dramma che, per situazione e modalità di trattazione, si converte ben presto in un film dell’orrore dalle radici quotidiane. Una regia dinamica e dalle forti e coerenti iniziative segue di pari passo la linea imposta da una sceneggiatura che fa di conflitto, ambiguità, non detto e vedo/non vedo i propri pilastri costitutivi. A completare il mosaico, interpretazioni meravigliose, ambientazioni spaesanti ed una fotografia patinata, per un film che rappresenta, in tutto e per tutto, una rinascita della figura dell’autore all’interno del panorama cinematografico italiano.
Alzi la mano chi di voi, negli ultimi anni, ha detto almeno una volta: “Prodotti e idee nuove vengono soltanto dall’estero. In Italia, produciamo solo commediole romantiche monotone e mielose”. Questo pensiero non nasce a caso, ma è dettato - purtroppo - da una falsa percezione fornita da pubblicità e programmazioni che favoriscono il film di richiamo con volti attoriali blasonati e riconoscibilissimi, piuttosto che la pellicola indipendente ed impegnata. Per fortuna, negli ultimi anni, la tendenza si è invertita e il cinema italiano che conta, pur navigando tra cinepanettoni e rom-com tutt’altro che brillanti, sta tornando a dimostrare il proprio valore - basti pensare a prodotti come Dogman, The Nest, Il traditore, Lazzaro felice, Ricordi?, Martin Eden, Il primo re e Pinocchio, definitiva crasi tra cinema d’autore e cinema commerciale. In questo clima di rinascita dell’autorialità e della qualità, una menzione d’onore è da riservare agli emergenti fratelli D’Innocenzo che, già con la loro opera prima - La terra dell’abbastanza -, avevano saputo dar prova delle proprie potenzialità e lasciato intravedere uno scorcio del futuro che, proprio con il successivo Favolacce, è finalmente divenuto realtà.
Come nelle migliori storie, tutto inizia con “C’era una volta…” e, sempre come nelle migliori storie, è d’obbligo una morale che educhi ed impartisca una lezione. Dimenticatevi però principi ranocchi, principesse sul pisello o creature fatate: Favolacce è un racconto duro e crudo, spigoloso e scioccante. Facciamo dunque la conoscenza di una piccola comunità, situata nella periferia meridionale di Roma e composta perlopiù da famiglie, che, almeno all'apparenza, sembrano condurre una vita ordinaria e monotona, fatta di lavoro, scuola, corsi pomeridiani e cene con gli amici. Tuttavia, dietro questa maschera di normalità, ognuna di esse nasconde anomalie, disfunzioni e crepe che, con la giusta pressione, potrebbero far crollare l’intero e finto castello di carte.
Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata.
Narratore (Max Tortora)
I fratelli D’Innocenzo tornano pertanto dietro la macchina da presa con un film che, nella sua italianità, è forse uno dei più internazionali della nostra attualità cinematografica. Lasciandosi influenzare, in particolare, dalla poetica del turbamento del quotidiano del Michael Haneke de Il nastro bianco e, in linea di massima, dall’idea dei fratelli Coen per Suburbicon di George Clooney, i due cineasti capitolini firmano un’opera nera, anticonvenzionale, fresca ed intensamente umana. Attraverso la propria mano e visione registica, questi accompagnano lo spettatore in una realtà ideale e idealizzata - da favola, per l’appunto -, in cui pare vigere la perfezione assoluta. Ciò nonostante, il duo non perde tempo e, fin da subito, inizia a delineare e far emergere tutte le varie incrinature cancerogene e spiragli difettosi di questo misterioso e perfetto mondo, riportando il pubblico, di conseguenza, ad una dimensione più terrena e tangibile (come sottolineato dall’inflessione dialettale degli attori). Suddetta dimensione favolistica è inquadrata perfettamente nell’incontaminata ed impeccabile ambientazione, che, apparendo molto più vicina e simile ad una cittadina americana di periferia che ad un sobborgo della Capitale, è causa principale di un iniziale smarrimento da parte del pubblico; e in una fotografia solare, brillante ed accesissima che cozza prepotentemente con la graduale esposizione dei differenti scheletri nell’armadio.
Con l’avanzare della narrazione, il legame tra spettatore e racconto arriva sempre più ad interfacciarsi, soprattutto dal punto di vista della messa in scena. Difatti, secondo questa logica e in base alla posizione del punto di macchina all'interno della determinata inquadratura/sequenza, i registi impostano il ruolo del pubblico: da semplice osservatore esterno intento a spiare vicissitudini e sfortune dei personaggi a figura attiva, inclusa e coinvolta, in prima persona, nello svolgersi della vicenda. Nella creazione di questo semplice, ma efficace, gioco di osservazione, una funzione centrale è riservata al frequente e scopico uso del grandangolo e all'alternanza di piani ravvicinati ed interni a campi lunghi caratterizzati da un totale distacco rispetto a ciò che sta avvenendo su schermo. Malgrado questa distinzione, ogni singolo frammento di Favolacce è però accomunato da un perenne e lacerante senso di inquietudine e tensione che, in un certo senso, anticipa la prevedibilmente oscura e violenta piega che prenderanno gli eventi da un certo punto in poi. Tale percezione è ulteriormente accentuata dall'ellissi di alcuni eventi nell'economia del racconto, in un continuo artificio di vedo/non vedo.
Tecnicamente parlando, Favolacce è dunque una pellicola che vive di contrasti, il cui unico scopo è l’evidenziazione dell’amara realtà dei fatti. Tuttavia, questa contrapposizione di elementi è frutto, ancor prima che di una regia dinamica e dalle forti intenzioni, di una sceneggiatura che fa della conflittualità, il suo leitmotiv principale. Tra i tanti presenti, sicuramente il conflitto più importante è quello che si viene a creare tra il precoce ed enigmatico mondo pre-adolescenziale (a cui si ricollega la sfera favolistica del racconto) e quello sadico e paradossalmente infantile dei genitori, contraddistinto dalla stessa ipocrisia, finzione e frustrazione che, più o meno involontariamente, viene scaricata e trasferita ai figli - a cui è richiesto di crescere velocemente, anche se in modo lacunoso e manchevole. Il risultato di questo processo accelerato e falsato di maturazione è rappresentato dal personaggio di Vilma (Ileana D’Ambra), giovane ragazza-madre che non riesce a sostenere e prendere con serietà la difficile situazione che sta vivendo. A lei nello specifico, si ricollega il secondo grande contrasto della pellicola, quello tra favola e realtà. Infatti, pur ribadendo spesso, attraverso le parole di un narratore esterno (Max Tortora), che tutto ciò che si sta vedendo sia frutto di un'immaginazione che, solo in certi punti, si rifà ad un qualcosa di realmente accaduto, i fratelli D’Innocenzo decidono di chiudere il film con una scena cruda e severa (con reminiscenze al cinema neo-realista) che, assestando un difficile ed amaro pugno allo stomaco dello spettatore, elimina istantaneamente qualsiasi dubbio sull'entità e sulla morale del racconto.
Altre due grandi costanti della sceneggiatura di Favolacce sono, senza ombra di dubbio, il non detto e l’ambiguità fondante la propria componente dialogica. Difatti, analogamente all'ellissi riservata ad alcuni eventi, si registra un’evidente discontinuità tra ciò che viene espresso verbalmente e ciò che viene trasmesso fisicamente e visivamente dai personaggi (e quindi dagli attori). Dialoghi che si aprono a molteplici sfumature di significato ed interpretazione - che, con l’approssimarsi dell’epilogo, vengono lentamente ricondotti ad un’unica, chiara e netta morale - sono la base di una scrittura che fa della bravura degli interpreti, la propria chiave di svolta. Un Elio Germano nevrotico e perennemente sul punto di esplodere guida infatti un cast equilibrato, immedesimato e dalle grandi abilità espressive - successivamente indebolito da un audio in presa diretta qualitativamente povero e mal equalizzato che rende intere linee di dialogo praticamente incomprensibili.
Con Favolacce, i fratelli D’Innocenzo accolgono lo spettatore in un mondo ed un racconto che presentano i nuclei tematici e narrativi tipici della fiaba, ma che, allo stesso tempo, si configurano come una critica e denuncia sociale lucida che, per situazioni presentate e modalità di trattazione, si converte ben presto in un film dell’orrore dalle radici quotidiane e ordinarie. Una creatura oscura, ambigua, sfuggente e pessimistica, sintomo sia di una crescita artistica e tecnica da parte del duo, sia di una vera e propria rivitalizzazione, nel panorama cinematografico italiano, della figura dell’autore, che (forse) vedrà proprio nei fratelli D’Innocenzo due nuove e fondamentali figure di riferimento.