TITOLO ORIGINALE: Last Night in Soho
USCITA ITALIA: 2021
REGIA: Edgar Wright
SCENEGGIATURA: Edgar Wright, Krysty Wilson-Cairns
GENERE: drammatico, orrore, thriller
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Reduce da quella piccola perla che risponde al titolo di Baby Driver, Edgar Wright firma un horror thriller psicologico che, nell’intreccio, ricorda alla lontana lo stile e i modi tensivi di Alfred Hitchcock, e, tanto nella messa in scena quanto nelle intuizioni visive, correnti come il giallo all’italiana e film del calibro di Repulsione e A Venezia… un dicembre rosso shocking. Da vedere anche solo per l’esercizio cinematografico pulito e sintetico di Wright e per lo scontro attoriale tra le sue due attrici protagoniste.
Mettiamola così. Guardare Last Night in Soho di Edgar Wright è come scegliere di mangiare un cornetto di un qualsiasi sottomarca, piuttosto che uno “griffato”. Gli ingredienti sono sempre quelli, ma il sapore manca di quel quid che porterebbe il gelato da “buono” ad “eccezionale”.
Chi conosce Wright e la sua filmografia avrà naturalmente capito la sottile ironia alla base del nostro parallelismo e della scelta specifica del cornetto come oggetto di similitudine. Per chi non avesse colto, vi basti sapere che questi altri non è che uno dei principali fautori (l’altro è l’attore comico britannico, suo connazionale, Simon Pegg) di quella trilogia di commedie brillanti ed irresistibili riunite sotto l’appellativo, appunto, di Trilogia del Cornetto.
Regista e (soprattutto) sceneggiatore dinamico ed estroso, dotato inoltre di un grande senso del ritmo - che sfrutta per confezionare film in cui la sua firma e la sua mano sono immediatamente riconoscibili -, Wright è anche creatore di pellicole del tutto imperdibili quali l’adattamento (del fumetto Bryan Lee O'Malley) Scott Pilgrim vs. the World e di quello che chi scrive ritiene la sua più grande chicca, dicasi anche il suo film più riuscito, ovvero Baby Driver: un calderone spettacolare che ricorda Walter Hill e, in alcune sue sequenze, Sergio Leone, pieno zeppo di citazioni, richiami e riferimenti al musical, all’heist movie e ai film sentimentali della Hollywood classica. Il tutto sostenuto, in ultima istanza, da un comparto tecnico clinico, persistente e solido e da un cast in assoluto stato di grazia.
Come forse avrete già intuito, Last Night in Soho è quindi tutto fuorché equiparabile al miracolo compiuto da Wright in Baby Driver. Ciò nonostante, ciò a cui ci troviamo di fronte è un racconto schiettamente cinematografico che regala due ore di giuste vibrazioni ed intrattenimento senza grandissime pretese, pur riuscendo a sorprendere in alcune delle sue intenzioni.
Il film segue le orme di Eloise (Thomasin McKenzie), ragazza originaria della Cornovaglia, introversa, timida, pudica (stimolante il discorso che Wright conduce sul suo primo approccio con la sessualità in tutte le sue possibili forme), d’altri tempi, diversa dai suoi coetanei poiché amante di tutto ciò che riguarda la cosiddetta Swinging London (un periodo di rivoluzione culturale compreso tra la metà e la fine degli anni '60, coincidente con nuove espressioni in campi come la musica, la moda, il cinema e l’arte, e localizzato principalmente - manco a dirlo - nella città di Londra).
Afflitta dal suicidio della madre avvenuto anni prima e, da allora, visitata periodicamente dal suo fantasma, la nostra Eloise sogna di diventare una stilista e sfondare nel mondo della moda e decide così di trasferirsi a Londra ed iniziare a frequentare i corsi di una scuola apposita. Tuttavia, a seguito di un “primo contatto” con le compagne (troppo diverse da lei, da com’è e da ciò che ama, troppo mature, troppo spietate e “troppo nel presente”) non proprio entusiasmante, sceglie di cambiare alloggio e trovare riparo da una vecchia signora, tale Miss Collins, che affitta una camera (molto old school e quindi perfetta per Eloise) al secondo piano di una grande casa posta a debita distanza dal trambusto e dalla frenesia della City. Già dalla prima notte però, la ragazza inizia a fare degli strani sogni, nei quali si ritrova di colpo nella Londra della metà degli anni ‘60, vestendo i panni/assistendo alle peripezie di Sandie (Anya Taylor-Joy), una sua coetanea che, come lei, ha un sogno ed è disposta a tutto pur di realizzarlo. Inizia così un viaggio che, se inizialmente illude e acchiappa totalmente Eloise, finirà per trasformarsi e per coinvolgerla in un vero incubo.
Last Night in Soho sarebbe piaciuto molto ad Alfred Hitchcock. Su questo non abbiamo alcun tipo di dubbio. E sarebbe piaciuto e piacerebbe (forse) anche ad altri maestri del giallo, del thriller e dell’horror come Mario Bava, Dario Argento e Roman Polanski. Il film infatti può contare su un soggetto (di Edgar Wright) ed una sceneggiatura (co-scritta dallo stesso Wright insieme a Krysty Wilson-Cairns) che presentano tutti i crismi del modo di scrivere, di intrecciare le trame e di costruire (progressivamente e abilmente) la tensione e il mistero da parte del maestro della suspense per antonomasia (Hitchcock, per l’appunto), ricordando, in modo epidermico e purtroppo derivativo, assoluti cult del suo cinema quali, ad esempio, Il delitto perfetto, La donna che visse due volte e L’ombra del dubbio.
Dal punto di vista tecnico-estetico, abbondano invece parallelismi con tutta la corrente del giallo/horror all’italiana e film come l’espressionista Repulsione del già citato Polanski o l’innovativo A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg, specie nell’uso che fa del rosso e del blu, colori comprimari che rivestivano già un ruolo di prim’ordine nel creare inquietanti e potenti suggestioni nel visionario Suspiria di Dario Argento. Ma anche nel modo in cui sfrutta porte e specchi per condurre un interessante discorso sul ruolo di attore/spettatore (caratteristico proprio di generi come l’horror e il thriller sin dalla notte dei tempi) e collegare porzioni di una Londra sì riconoscibile nelle architetture, nei veicoli, nella sua fauna umana e nei monumenti, ma che Wright rimodula a suo piacimento, dando vita e facendo respirare allo spettatore quella che è, in tutto e per tutto, la sua, di Londra.
Ciò che ne consegue pertanto è un’immedesimazione precisa ed inscindibile tra noi pubblico ed Eloise. Nello specifico, con la condizione di disallineamento ed alienazione allucinata e allucinante che la coglie da metà del racconto in poi, quando questi portali del sogno e dell’immaginazione diventano cancelli infernali da cui potrebbe entrare ed uscire qualsiasi cosa.
Altro punto di contatto con il giallo all’italiana è infine il divertimento e il gioco beffardo che Wright prova ed imposta, scegliendo di anticipare lo scioglimento sommessamente, tra le pieghe della messa in scena (più precisamente, attraverso un nome sull’intestazione di una lettera). Una decisione indubbiamente memore della lezione di Argento in Profondo rosso, in cui però questo gioco era ben più stratificato e meglio contestualizzato all’interno del racconto, riprendendo direttamente quel concetto di falso ricordo di cui la pellicola è infarcita fino al midollo.
In conclusione, seppur forse proverbiale e prevedibile in molte delle sue soluzioni visive e compositive e nei pochi (anche se messi in scena molto bene) risvolti di trama, nonostante un finale fin troppo semplice e pur essendo meno a fuoco ed appassionato rispetto a ciò a cui ci ha abituati Wright fin dai suoi primi lavori, Last Night in Soho sarebbe da vedere solo per l’esercizio pulito e sintetico, nonché puramente e specialmente cinematografico, imbastito dal cineasta, per la colonna sonora - che è senz’altro l’anima più curata e convincente della produzione -, per la naturale competizione e “contesa del palcoscenico” che si impone tra una neonata diva: una Anya Taylor-Joy semplicemente incantevole; ed un’attrice prossima a diventarlo: una Thomasin McKenzie intensa ed espressiva, qui al suo primo, vero ruolo da protagonista; per la ricostruzione dettagliata ed elegiaca della Londra anni ‘60, tra costumi (altro grande successo del film), locandine di film, brani più o meno iconici e via discorrendo; oppure ancora per una fotografia che alterna toni dorati a toni freddi e taglienti come il coltello che Jack lo Squartatore - della cui vicenda, la pellicola di Wright, ne è una rilettura ed un ribaltamento tutto al femminile, a sua volta vicino ma superiore ad Una donna promettente - infilzava nelle carni delle sue vittime (quasi tutte prostitute, ricordiamo).
In effetti, ci sono numerosi motivi per cui non dovreste assolutamente perdervi Last Night in Soho...
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