TITOLO ORIGINALE: Giù la testa
USCITA ITALIA: 29 ottobre 1971
REGIA: Sergio Leone
SCENEGGIATURA: Sergio Leone, Sergio Donati, Luciano Vincenzoni
GENERE: drammatico, azione, guerra, western
PREMI: DAVID DI DONATELLO per il MIGLIOR REGISTA
Un peone rozzo ed ingenuo ed un intellettuale egoista diventano, loro malgrado e per una serie di eventi fortuiti, eroi della rivoluzione messicana. Al suo sesto film da regista, Sergio Leone firma un’opera di profonda riflessione su concetti generali come quello di rivoluzione, guerra e violenza e sull’attuale status del western, seguendo i principi e gli assiomi inaugurati ed imposti dal precedente C'era una volta il West. Caratterizzato da una produzione travagliata e sofferta, Giù la testa si presenta come l’opera meno riuscita e più debole del cineasta capitolino, pur conservando e presentando i tratti tipici del suo stile e della sua poetica. Una regia focalizzata su distensione e primi piani espressivi e loquaci e su un action rocambolesco e rumoroso bilancia un restante comparto tecnico non sempre eccelso ed una sceneggiatura, nonostante la profonda riflessione argomentativo-tematica, drammaturgicamente squilibrata.
La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo; non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanto grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza.
Mao Zedong
Sulla scia di queste emblematiche e sintetiche parole prende il via Giù la testa, sesto film da regista di Sergio Leone, nonché secondo venuto della trilogia del tempo iniziata nel 1968 con l’epopeico ed epocale C'era una volta il West. Se la pellicola precedente aveva consentito al pioniere dello spaghetti western di abbozzare e dar vita ad un immortale mosaico di uomini in un’inutile e distruttiva lotta contro il tempo; di rappresentare “la nascita del matriarcato e l’avvento di un mondo senza palle” [Leone, Simsolo; 2018]; tre anni più tardi, con Giù la testa, ci spostiamo nel Messico rivoluzionario del 1913, nel periodo successivo all'assassinio del presidente Madero da parte di Huerta.
Un Messico dunque percorso da tensioni politico-sociali; di aggressività, soprusi, governi dispotici che hanno vita breve e scontri armati sanguinosi. Il Messico di Pancho Villa ed Emiliano Zapata; di pellicole come Viva Zapata! (1952) di Kazan, Quién sabe? (1966) di Damiani o Viva! Viva Villa! (1968) con Robert Mitchum e Charles Bronson. Non lasciatevi però fuorviare completamente da questi rimandi cinematografici e dalle immagini ideali che suddetti potrebbero stimolare. Difatti, pur rifacendosi a questo preciso immaginario e a questa ancor più precisa mitologia, l’ambientazione di Giù la testa è totalmente e profondamente leoniana (e quindi personale ed autoriale). Semplificando, l’opera è tutto questo, ma anche tanto altro.
Definire travagliata la produzione di questo sesto addendo dell’odissea leoniana sarebbe un eufemismo. Inizialmente infatti, il film, prodotto dalla statunitense United Artists, non doveva essere nemmeno diretto da Leone - autore del soggetto insieme a Sergio Donati -, bensì da Peter Bogdanovich, allora celebre per Bersagli (1968) - thriller che omaggia la stella del cinema horror statunitense Boris Karloff ed “un cinema ormai reso anacronistico dagli orrori veri, ma che alla fine si prende una rivincita sulla realtà” [Mereghetti; 2017] -, il quale, tuttavia, per divergenze con il capitolino, venne ben presto allontanato dal progetto. Leone pensò quindi di affidare la regia del soggetto all’amico Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio, 1969) - tra i principali innovatori del western americano -, che non si sarebbe fatto pregare due volte pur di firmarlo.
Poco tempo dopo però, Leone venne a scoprire di esser stato vittima di un vero complotto. "Erano tutti coinvolti in una congiura per costringermi a dirigere il film. Persino la mia famiglia! Ero io l’unico a non esserne al corrente”. A quanto pare, Rod Steiger, reduce dalla vittoria di un Oscar per La calda notte dell’ispettore Tibbs (1967), aveva un cachet di 750.000 dollari e, per questo film, aveva accettato di farsi pagare un terzo di quella somma, solo se fosse stato Sergio Leone a dirigerlo. James Coburn seguì a ruota e la United Artists, ovviamente, non ebbe nulla di ridire a riguardo.
Al capitolino rimanevano dunque due possibili opzioni: dirigere il film o annullare tutto. Il resto è Giù la testa, una pellicola che Leone diresse "navigando a vista", arrivando ad inventarsi di sana pianta intere scene, al fine di avvicinare quanto più possibile il risultato finale alla sua poetica e alla sua concezione di cinema. Un’opera che egli definì “il film più difficile del mondo”.
Poste le giuste premesse, non vi addolciamo ulteriormente la pillola. Giù la testa è, a mani basse, il peggior film di Sergio Leone. Così affermando, non vogliamo però intendere quel “peggiore” con senso e significato sminuente, stroncante o semplicemente negativo. Bisogna innanzitutto considerare i termini di paragone che ci portano a codesta definizione. Difatti, qualunque opera leggermente al di sotto degli standard sarebbe considerata inferiore, se messa a paragone con veri e propri pilastri del cinema di genere italiano (e non solo) come Il buono, il brutto, il cattivo, C'era una volta il West o C’era una volta in America.
Questo non si traduce però in una completa negativizzazione del film in essere, giacché stiamo comunque parlando di un maestro del calibro di Leone e di uno, se non l’unico suo film meno riuscito. Difatti, come spesso accade, l’opera minore di un grande autore equivale comunque all’ottimo film di un qualsiasi mestierante. E, in Giù la testa, la mano e l’impronta di Leone sono tutt’altro che annichilite o imperscrutabili.
Seguendo la linea narrativo-epicizzante inaugurata e tracciata con il primo capitolo della trilogia del tempo, il cineasta - assistito al tavolo della sceneggiatura dal già citato Donati e dal sodale Luciano Vincenzoni - alza ancor più la posta in gioco ed espande a dismisura i confini spazio-temporali del suo racconto e del suo universo narrativo. Sempre sullo sfondo della rivoluzione messicana, la pellicola prende quindi il via dalla storia di una combriccola familiare di ladruncoli scaltri ma sgangherati, per poi arrivare a lambire le acque della lontana Irlanda, tracciare un parallelismo anacronistico tra l’opposizione di Villa e Zapata al governo messicano e quella dei ribelli dell’IRA contro il dominio britannico dell’Irlanda e così formulare una riflessione su concetti ben più generali come quelli di rivoluzione (il film doveva intitolarsi originariamente C’era una volta la rivoluzione), guerra - già introdotto ne Il buono, il brutto, il cattivo - e violenza.
Il contesto messicano si trasforma dunque in un mero pretesto, in un simbolo, che racchiude al suo interno e permette l’inclusione di influenze, derive e modelli di varia natura, origine e caratura. Leone condensa in un unico nucleo narrativo e in un’unica messa in scena mille e più stimoli, risultato di un’astrazione spazio-temporale dello stesso cineasta nel suo retaggio e patrimonio storico, politico e culturale e di un conseguente recupero e rielaborazione di questi ultimi. La fuga del re, l’armistizio, le fosse di Dachau e di Mauthausen, una comparsa simile ad un giovane Mussolini vestita con uniforme tedesca, l’IRA: anche solo questi pochi elementi sono sufficienti al consolidamento di una visione di Giù la testa molto più simile all’idea di collage e rimpasto funzionali alla trasmissione e propugnazione di un concetto, rispetto a quella di “semplice” rivisitazione elegiaca, fanciullesca, divertita e personale del genere western.
Nonostante e complementarmente a ciò, lo scopo narrativo principale della pellicola, per stessa ammissione di Leone, è il racconto dell’amicizia, con l’aggiunta di una parabola simile al mito di Pigmalione - ma al contrario - tra Juan Miranda (Rod Steiger), un peone ottuso ed ingenuo, ma abile e scaltro nell’inganno, nel furto e nell’uso delle armi (simile, per certi versi, al Tuco de Il buono, il brutto, il cattivo), e John H. "Sean" Mallory (James Coburn), esperto dinamitardo ed ex rivoluzionario dell’IRA. Prima rivali, poi alleati ed infine eroi della ribellione, Juan e John sono catalizzatori non soltanto dell’attenzione del pubblico e dell’affabulazione narrativa, ma anche dei due contraltari e modelli ideologici della pellicola e del suo spirito avventuroso, iperbolico ed epico-cavalleresco.
Da un lato abbiamo quindi un uomo del popolo (Juan) rozzo, ingenuo ed estraneo al contesto socio-politico del proprio paese, che pensa soltanto al proprio orticello; un uomo ormai abituato a togliere la vita - viene introdotto infatti mentre annega un formicaio con la propria urina - e ad assecondare le parole di una classe aristocratico-borghese avida, affamata ed ingorda [non a caso, Leone la incarna in una comitiva di nobili, imprenditori e uomini di chiesa che si abbuffano, lanciando nel mentre insinuazioni, insulti ed irrisioni nei confronti dei peones] per proprio tornaconto personale e criminale.
Dall’altro invece vi è un uomo colto (John), un intellettuale egoista che, come rappresentato nel flashback finale, in passato intratteneva un ménage a trois - simbolico e metaforico - con un suo amico e compagno di movimento ed una donna (personificazione della rivoluzione, che tutti vogliono abbracciare). Presumibilmente, il tradimento e la disillusione nei confronti degli ideali rivoluzionari del primo lo portano ad emigrare in Messico, dove si unirà ad una sommossa di tutt’altro tipo.
Juan è dunque una figura sognatrice (il suo più grande desiderio è svaligiare la banca di Mesa Verde), d’altri tempi, molto più legata all’ideale leoniano di antieroe, che agisce per vantaggio, usufrutto e convenienza: si alleerà e stringerà amicizia con l’irlandese solo per l’abilità di quest’ultimo con gli esplosivi. Anche John sembra agire per interessi propri, sfruttando invece Juan - in cui ritrova un’energia, uno spirito ed un’ostinazione perduti - e il suo sogno di svaligiare la banca di Mesa Verde, per liberare alcuni prigionieri di guerra e così renderlo, suo malgrado, un coraggioso eroe della rivoluzione. Questi è un personaggio estremamente vicino e connesso con la realtà socio-politica, forse fin troppo, ma che, ciò nonostante, crede ancora nel modello rivoluzionario.
Nelle loro peripezie tra le lande messicane, il primo verrà a contatto con la realtà - il tempo del western (anche dello spaghetti western) è ormai finito, così come il tempo delle banche con dentro soldi e ricchezze -, il secondo, viceversa, con il vero volto di ribellione e sovversione. Con riferimento alla citazione di Zedong in apertura, “un atto di violenza” che non porta a nulla, oppure alle parole che rivolge lo stesso Juan (il povero) a John (il tizio intelligente):
Un tizio intelligente va da un povero e gli dice che bisogna ribellarsi. E il povero gli crede. E la fa, la rivoluzione. E quando, alla fine, l’intelligente ha vinto la sua rivoluzione, il povero è morto! E bisogna fare di nuovo una rivoluzione, il povero è morto! E bisogna fare di nuovo una rivoluzione. E così via.
Purtroppo per lui e a differenza del compagno, il peone, col proseguire delle avventure del duo, inizierà a credere negli ideali rivoluzionari proposti da una personalità di spicco - ma che custodisce un terribile ed infame segreto - come il dottor Villega. Al contrario, l’irlandese, una volta compresa la vera natura del segreto del dottore, sceglierà la via più semplice: la morte. Egli si fa esplodere, sottraendosi così alla realtà; “lascia la merda e la disperazione a Juan, rifilandogli il suo sogno”, riprendendo le parole del regista.
Da un punto di vista narratologico invece, i due possono essere visti come una sorta di Don Chisciotte e Sancho Panza che indomiti (anche se controvoglia) si battono, a suon di mitragliatrici, dinamite e pistole, contro mulini a vento purtroppo vivi e vegeti e dai metodi disumani e feroci. In tal senso, oltre al loro duro, difficile ed alterno rapporto dei personaggi con la rivoluzione, la sceneggiatura di Giù la testa presenta tutti i crismi narrativi tipici del cinema leoniano: i dialoghi incisivi e di carattere, le caratterizzazioni intriganti e carismatiche mediante l'uso di segni distintivi e particolari insoliti, un flashback (in questo caso, una serie di flashback) che arriva ad intrecciarsi saldamente con il racconto principale e ne rivela senso e dettagli fondamentali e l’ironia talvolta nera e amara, ma sempre sottile e sagace.
Il tutto si fonde, solo in un secondo momento, con un’esagerazione di dinamiche ed elementi e dettagli della messa in scena e con una linea comica esasperata, presa a piene mani dal nuovo fortunato filone dei fagioli western (avviato l’anno prima con Lo chiamavano Trinità di Barboni) ed incorporata nel personaggio di Juan, che domina tutto il blocco narrativo iniziale, mal integrandosi con un secondo e terzo atto, per contro, introspettivi e con finalità drammaturgiche ben più elevate. Malgrado queste minime cadute di stile, la scrittura conferma, comunque ed ancora una volta - seppur in forma meno intensa rispetto alla pellicola precedente -, le capacità costruttive, immaginative e epicizzanti del Leone sceneggiatore.
Ancor prima di ciò, l’impronta e l’ingegno di Leone sono però ben evidenti nella gestione e controllo dei mestieri e dei comparti produttivi, nell’uso della macchina da presa e nella concretizzazione visiva di suddetto collage di influenze, riflessioni ed elementi propri e personali. A livello tecnico-estetico, oltre alla solita ed usuale poetica dei primi e primissimi piani e ad una serie di brevi piani sequenza che favoriscono l’ingresso nell’universo narrativo, Giù la testa segue (ed esaspera) gli assiomi e principi rappresentativi e ritmici di distensione avanzati ed abbracciati in C'era una volta il West.
Il cineasta intavola dunque una serie di dialoghi e monologhi silenti che, attraverso semplici zoom e primi piani o grazie ad un incontro di sguardi loquaci ed incisivi, aprono allo spettatore le porte dell’interiorità, dei pensieri, delle sensazioni e delle emozioni dei suoi personaggi. A seconda del tono della scena, un muoversi nervoso o una fissità glaciale delle pupille possono quindi esprimere una reazione ad un evento tragico, un gioco invisibile e privato di insinuazione e rivelazione tra due figure (che vengono registicamente isolate), il ricordo di un passato lontano ed inutilmente ripudiato, lo spaesamento successivo alla morte in battaglia di un compagno, il legame di vita e morte tra due personaggi, la rappresentazione di una premonizione fatale (oltre ad essere visivamente ingegnoso, un cartellone a cui vengono strappati gli occhi potrebbe dunque essere più importante di ciò che sembra).
Tuttavia, a differenza dei celebri e frequenti (quasi abusati) “scontri di sguardi”, varati in Per un pugno di dollari - che quasi sempre svolgono una funzione tensiva e preliminare per una sparatoria tanto rapida quanto spietata - e marchio di fabbrica tanto della trilogia del dollaro quanto del summenzionato C'era una volta il West, quelli di Giù la testa, se da un lato adempiono alla propria funzione opprimente, angosciante ed interiorizzante, dall’altro si rivelano insufficienti dal punto di vista del montaggio e del ritmo della sequenza e tutt’altro che incisivi (complice anche una minor abilità espressiva degli interpreti ed una staticità molto più pronunciata della macchina da presa).
Discorso opposto è invece quello riguardante le scene più prettamente d’azione e di spettacolo, su cui la pellicola - unitamente ad una riflessione generale e plenaria su rivoluzione, guerra e violenza - fonda gran parte delle proprie speranze di riuscita. Tolto forse il frammento del ponte (in cui si cerca di rendere la sorpresa dell’attacco attraverso inquadrature sgraziate ed un montaggio confusionario), Leone dà vita ad una lunga sequela di momenti di sana e rumorosa affabulazione, ma anche di grandissima tecnica e di effetti speciali strabilianti, in cui la messa in scena si subordina volentieri all’azione al fine di rendere il tutto più immersivo ed avvincente.
In tal senso, è ravvisabile un cosciente e lucido ritorno alle origini e ad una dimensione più prettamente western. Il cineasta riprende infatti alcuni stilemi appartenenti al periodo d’oro e alla tradizione del genere: l’assalto al treno e la rapina in banca; e li ribalta completamente, adattandoli al tono esagerato della messa in scena (le dinamiche iniziali d’assalto al treno sono abbastanza inconsuete) e trapiantandoli nel contesto rivoluzionario, quindi ad un discorso socio-politico di fondo (all’interno della banca non si trovano gioielli o ricchezze, ma prigionieri di guerra).
Chiudono la fila, una fotografia che fa il suo dovere, ma che non raggiunge certo i livelli qualitativi del lavoro di Tonino Delli Colli (che tornerà nel successivo C’era una volta in America) ne Il buono, il brutto, il cattivo e C'era una volta il West e la (come sempre) meravigliosa colonna sonora di Ennio Morricone che irrompe, in molti momenti di silenzio e nei frangenti più alti, emotivamente parlando, con melodie ed arrangiamenti espressivi e suggestivi, che si sostituiscono alle parole, riuscendo a pizzicare l’anima dei personaggi e a delinearne i ritmi vitali.
Un processo creativo e realizzativo che Leone probabilmente non avrebbe augurato neanche al suo peggior nemico - tra giochi di forza e diatribe con un presuntuoso ed arrogante Rod Steiger, cambi ed invenzioni narrative dell’ultimo minuto ed un perenne senso di slealtà e falsità - non ha comunque impedito a quest’ultimo di dirigere il suo film, di rispettare la sua visione e il suo stile, firmando un definitivo addio al western, ma non al continente americano - in cui tornerà per il canto del cigno della propria filmografia una decina di anni più tardi.
A giudicare dalla profondità del ragionamento su rivoluzione e sua rappresentazione ed incarnazione da parte di Juan e John formulato poco sopra, qualcuno potrebbe avanzare l’ipotesi che Giù la testa proprio “il peggior film” di Leone non sia. Tuttavia, secondo il nostro parere, giacché a quella profondità tematico-concettuale non corrisponde un’attuazione tecnica pari o simile agli standard imposti dai grandi capolavori del regista, la pellicola, pur con cotanta profondità, rimane comunque la meno riuscita del maestro. Possiamo concordare però sul fatto che Giù la testa sia, a mani basse, il film più sottovalutato di Leone; un film che tutti dovrebbero riscoprire, poiché, malgrado il caos produttivo e qualche peccato di forma, presenta tutti gli elementi caratteristici e le peculiarità dello stile e dell’ingegno del cineasta.
Dopo aver reinventato il western due volte (la prima con Per un pugno di dollari, la seconda con C'era una volta il West), Sergio Leone si scontra nuovamente - e in maniera più marcata de Il buono, il brutto, il cattivo - con la realtà; con un mondo in cui pistoleri solitari, assalti al treno, stalli alla messicana e rapine in banca non riescono più a trovare una loro dimensione e devono perciò reinterpretarsi ed essere reinterpretati secondo nuovi canoni, nuovi stilemi e nuovi modelli. Il pistolero solitario diventa quindi un capace dinamitardo, dai forti sentimenti rivoluzionari, con un passato (e dei flashback) oppure un ladruncolo che viene a contatto con un qualcosa di ben più grande di lui, mentre gli assalti, gli stalli e le rapine si tingono di quella politicità e di quel livore melodrammatico che li fanno diventare parte integrante di un contesto ancor più violento e tragico. E’ dunque tempo di rivoluzione. Fuori dallo e sullo schermo cinematografico.
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