TITOLO ORIGINALE: C'era una volta il West
USCITA ITALIA: 21 dicembre 1968
REGIA: Sergio Leone
SCENEGGIATURA: Sergio Leone, Sergio Donati
GENERE: western, avventura
Un pistolero misterioso e solitario soprannominato Armonica, alla ricerca di un tal Frank, si ritrova invischiato, suo malgrado, in una faida territoriale tra un manipolo di malviventi e una giovane vedova. Un paio d’anni dopo aver diretto l’apoteosi dello spaghetti western con Il buono, il brutto, il cattivo, Sergio Leone firma la quintessenza della sua intera filmografia. Contraddistinta da un’evidente inversione di rotta rispetto alla trilogia del dollaro, la pellicola è fondata su una regia ed un montaggio che fanno di tempo e distensione i propri pilastri costitutivi, un racconto molto più intimo e riflessivo, grandissime interpretazioni ed una colonna sonora tra le migliori di Ennio Morricone.
Il tempo. Il tempo di attesa di un treno. Il tempo che rimane ad una persona prima di morire. Il tempo del cambiamento. Il tempo come gioia e come tedio. Il tempo prima di una sparatoria. Il tempo come inquietudine aggressiva e travolgente. Il tempo come trilogia. Un paio d’anni dopo aver diretto quello che, per molti, è, ad oggi, il suo capolavoro più grande e memorabile -Il buono, il brutto, il cattivo -, Sergio Leone sforna un’altra perla, forse la più splendente della sua “collana” filmica. Pur avendo la vaga ed iniziale idea di staccarsi da atmosfere e tematiche western, pensando di non aver più nulla da aggiungere, con C’era una volta il West, Sergio Leone continua a bazzicare il filone che, proprio per mano sua, ha visto la luce, quello dello spaghetti western. Tuttavia, anche se appartenente al genere in questione, C’era una volta il West impone un emblematico e riconoscibilissimo cambio di rotta. Abbandoniamo dunque le lande nervose e frenetiche della trilogia del dollaro, per abbracciare quelle riflessive e allentate della trilogia del tempo - che continuerà con Giù la testa (1971) e si concluderà con C’era una volta in America (1984).
Il tema del tempo - presente a partire dal titolo - si concretizza e palesa già dalla prima sequenza che, se confrontata con quelle di apertura della trilogia del dollaro, sembra diretta da un regista totalmente opposto. Nessuna intro musicale tuonante, nessuno sparo, nessuna azione irruente, soltanto silenzio, al di fuori di qualche suono diegetico ed un paio di linee di dialogo. La preparazione alla svolta violenta e tipicamente western è lacerante con rumori ambientali persistenti che, dopo qualche minuto, diventano assordanti ed una tensione viva e inarrestabile. Quando però questa svolta - sobillata e prevedibile - arriva, la sparatoria infuria tanto rapida quanto violenta. A scamparla, in un duello 3 contro 1, un misterioso pistolero soprannominato Armonica perché, prima di agire, si diletta nel suonare una piccola armonica a bocca - ricordo di un passato oscuro e tragico. Questi, alla ricerca di un certo Frank - pistolero spietato a capo d'una banda di farabutti del suo calibro - si ritroverà invischiato, suo malgrado, in una lotta per l’acquisizione di un pezzo di terra che, secondo i piani, dovrà ospitare un tratto dell'irrefrenabile e sempre più importante via ferroviaria.
Come già accennato, il tempo e la dilatazione temporale che ne consegue sono i due crismi fondanti la visione registica di Leone nella produzione del film. Il cineasta dice quindi addio a sequenze nervose ed agili per lasciare il posto ad una costruzione filmica di ampio respiro che sa e vuole prendersi i suoi tempi. Nonostante questo totale cambiamento ritmico nella produzione della scena, sono ugualmente ravvisabili molti dei marchi di fabbrica della poetica di Leone: la tensione graffiante ed equilibrata che pervade ogni singolo frammento, il mantenimento di una curiosità sempre alta nei confronti dei vari personaggi, del loro background ed intenzioni, il costante gioco di vedo-non vedo imposto tra gli elementi in campo e quelli fuori campo, uno sfruttamento abile del silenzio così come della musica ed una simmetria disarmante nella realizzazione e studio dell’inquadratura.
E Frank? / Frank non è venuto… / C'è un cavallo per me? / Ehi ragazzi, è vero… ci siamo proprio dimenticati un cavallo! / Ce ne sono due di troppo…
Armonica (Charles Bronson) e i tre scagnozzi di Frank
Se la regia di Leone fa di una dilatazione e decostruzione - che, a differenza di ciò che alcuni potrebbero pensare, non sfocia in noia e tedio - il suo pilastro costitutivo, lo stesso si può dire del montaggio di Nino Baragli che, allontanandosi ancor più dagli standard della trilogia del dollaro, lascia respirare ed esprimere al meglio la macchina da presa di Leone. Tutto ciò non risulta però in una sua subordinazione alla visione del regista: infatti, il lavoro di Baragli collabora con Leone in sostegno di un’inquietudine che, invasiva e silenziosa, caratterizza la pellicola dal primo all’ultimo minuto. Agli ideali di temporalità e superamento (come suggeriti dal titolo) si rifanno anche la fotografia polverosa e livida di Tonino Delli Colli, le ambientazioni desolate e desertiche della Monument Valley e dalla colonna sonora di Ennio Morricone - forse, tra le composizioni migliori del maestro.
Pur muovendosi nell’ambito del filone spaghetti western, da un punto di vista narrativo, C’era una volta il West rappresenta una sorta di ritorno, da parte di Leone, alle origini del western classico, come confermato dal cast - ancor più internazionale di quello della trilogia del dollaro -, composto da grandi nomi del genere come Henry Fonda e Charles Bronson. Con, al soggetto, grandi personalità creative - allora emergenti - come Dario Argento e Bernardo Bertolucci (che, successivamente, abbandoneranno il progetto per dedicarsi alle proprie carriere individuali), il cineasta, insieme a Sergio Donati, firma un racconto molto più intimo, introspettivo e personale sul tramonto del west - legato ormai ad una dimensione tra il fiabesco e il reale, come sottolineato dal titolo - e la nascita di una nazione, con il lento incedere del progresso rappresentato dalla locomotiva e dagli uomini d’affari. Leone dà quindi origine ad una trattazione lucida e post-moderna dello status del western, con citazioni a numerosi esponenti del genere, che, pur discostandosi parzialmente dalle pellicole precedenti, ne recupera e conferma i chiari ingegni narrativi.
Una costruzione meticolosa e ragionata dell’intreccio - che riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo nell’intento di scoprire dove il cineasta voglia andare a parare e come tutto venga a collidere -, composta da dialoghi mai scontati e sempre utili nell’economia del racconto alla base di sequenze istantaneamente iconiche, accompagna una gestione dei personaggi a dir poco inaspettata. Tra le innovazioni più tangibili si registrano certamente la presenza di un personaggio femminile - forte e fuori dal comune - tra i protagonisti della pellicola, il fatto che un villain duro e puro sia, a tutti gli effetti, la figura principale e che il vero eroe della pellicola - caratterizzato, così come Indio in Per qualche dollaro in più, mediante la tecnica del McGuffin - sia sempre visto di sbieco, mai in modo chiaro e plateale. Questa gestione rinnovata dei personaggi è accompagnata, in ultima battuta, da una decostruzione e sviluppo caratteriale palpabile degli stessi.
Se, con Il buono, il brutto, il cattivo, Sergio Leone aveva dato vita all’apoteosi dello spaghetti western, per C’era una volta il West è giusto parlare di quintessenza leoniana. Un film che, nonostante una prima accoglienza fredda - se comparata a quella del suo predecessore -, segna un punto di svolta nella carriera e filmografia del regista capitolino. Con C’era una volta il West, Leone firma un immortale mosaico di uomini in un’inutile e distruttiva lotta contro il tempo, in un mondo in cui l’uomo comune - razza antica - è stato annientato da quello d’affari.