TITOLO ORIGINALE: Perfect Days
USCITA ITALIA: 4 gennaio 2024
REGIA: Wim Wenders
SCENEGGIATURA: Wim Wenders, Takuma Takasaki
CON: Kōji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano
GENERE: drammatico
DURATA: 123 min
Prix d'interprétation masculine al Festival di Cannes 2023
Quasi quarant'anni dopo il documentario Tokyo-Ga, Wim Wenders torna tra le freeway, all'ombra dei grattacieli e degli alberi di Tokyo con Perfect Days, un film che nasce come un documentario su una serie di bagni pubblici e che il regista ha plasmato fino a costruirvi attorno una storia semplice, spontanea e, forse proprio per questo, spiccatamente seducente. Un Kōji Yakusho giustamente da premio è il protagonista assoluto della sintesi radiosa e magistrale di una vita, di un mondo (di ombre) e di un modo, che spazia da Ozu ad Antonioni.
Nasce come un documentario, Perfect Days di Wim Wenders; uno fortemente voluto dall’amministrazione dello speciale quartiere Shibuya ed incentrato sul Tokyo Toilet Project, un’iniziativa volta ad elidere lo stereotipo che i bagni pubblici siano luoghi sporchi e pericolosi, incentivandone l'uso grazie ad una serie di bagni pubblici realizzati ad hoc da celebri architetti, simili a piccoli templi o provvisti di tecnologia all’avanguardia. Insomma, uno di quei film su commissione, che, come spesso sanno fare registi e autori del calibro di Wenders, vengono tramutati in qualcosa di più, di meglio, diventano scrigni di una cifra particolare e specifica, ben mimetizzata negli intenti originari e funzionali della produzione. Ecco: Perfect Days è proprio qualcos’altro; una bestia del tutto diversa.
Mosso invero dalla semplice ammirazione per la città di Tokyo (più precisamente, per una Tokyo post-pandemica), dai confronti spontanei con quella che è la propria quotidianità e il proprio paese, e quindi dalla forte attrazione che accomuna e può sperimentare qualsiasi straniero nell'approcciarsi, nello scorgere, nel toccare con mano la realtà del paese del Sol Levante, Wim Wenders (che torna tra le freeway e all'ombra dei palazzi della capitale a circa 40 anni di distanza da Tokyo-Ga e Appunti di viaggio su moda e città, altri due documentari) ha ampliato gli orizzonti del progetto. Ha plasmato questa idea fino a farla propria e partendo proprio da quelle 17 nuove toilette vi ha costruito attorno un personaggio ed una storia altrettanto semplici, spontanei e, forse per questo, spiccatamente seducenti.
Protagonista di questa vicenda è Hirayama, un anziano addetto alle pulizie dei bagni pubblici che trascorre le sue giornate secondo una routine invariabile, impeccabile, una ritualità di mo(vi)menti, una filosofia che trattiene in sé quella eccezionale di calma, serenità, gentilezza, equilibrio, pace, da sempre valori fondativi della cultura nipponica. Egli allora è una sorta di tutore, di cavaliere, di paladino umano, concreto, prosaico ed insieme curioso, favoloso, finanche mitico, che sembra custodire un qualche arcano segreto od essere entrato in possesso di una ricetta del savoir-vivre. O forse, è solo un uomo che semplicemente, placidamente, meravigliosamente (apparentemente?), è in pace col mondo e con sé stesso. Che si accontenta di ciò che ha, si sente realizzato così, ha capito che vivere e quindi essere significa seguire, al pari di un metronomo, il ritmo del proprio corpo, del proprio sentire qui e ora. “Un’altra volta è un’altra volta. Adesso è adesso” dirà.L’altro ritmo a cui presta attenzione è quello libero, imprevisto, confortevole, dunque complementare, di quel mondo e della sua città nel loro manifestarsi. Non a caso, la sua sveglia mattutina è il suono di una scopa sul selciato, alla quale segue il rassetto della propria stanza, la ripiegatura del futon, l’orecchia al libro abbandonato aperto giusto prima di addormentarsi, una premurosa annaffiata alla proprie piantine, la meticolosa preparazione di tutto ciò che gli servirà durante questa nuova, perfetta giornata - riposto in maniera parimenti meticolosa nei posti di sempre -, lo sguardo e il sorriso grati al cielo albeggiante sopra Tokyo, sempre uguale e sempre nuovo; il caffè in lattina al distributore, la scelta della colonna sonora per il viaggio in furgone, il turno di lavoro con tutti gli incontri, le bizzarrie, le piccole epifanie del caso; il pranzo al parco con l’usuale fotografia komorebi (da far sviluppare a fine settimana), la visita al bagno pubblico per una sciacquata ed un bagno nell'idromassaggio, e, di sera, una veloce cena al bar della metropolitana e la lettura di qualche pagina di Faulkner. Fino all’incombere del sonno, reame formalista, dissolvente, un caos calmo delle immagini e delle impressioni quotidiane, che è a sua volta l’anticamera di un altro giorno. Sempre uguale, sempre nuovo.
È un haiku ripetuto come fosse un mantra, Perfect Days. Un nastro costantemente spiegato e riavvolto. Un ostinato socio-realista, elegiaco, poetico, silenzioso, di una vita straordinaria poiché ordinaria. Di un esistere splendido in quanto all’apparenza inconsistente, oggi quasi impossibile poiché in realtà ascetico e totalizzante. L’elegante e quieta risposta, il discorso, la reazione, che solo un regista-viaggiatore ed un vecchio del cinema quale Wim Wenders avrebbe potuto opporre e proporre rispetto ai tumulti, al fragore, all’ipervelocità, all’imprendibilità e alla superficialità del tempo e dello spazio che gli è e ci è dato da vivere ed abitare. Una storia, quella di Hirayama, che, come solito coi maestri, è sempre la stessa storia, solo abbigliata diversamente. La stessa in cui è facile immergersi e a cui è altrettanto facile aggrapparsi per non sprofondare nel vuoto desolante, vago, algoritmico e post-tutto che circonda lei e noi che ne seguiamo il fluire preciso e programmatico, eppure estremamente svincolato.
E ancora, l’ennesimo, atipico road movie di una lunga filmografia, giacché il viaggio e il suo movimento non si danno per il lungo, ma per il largo, non orizzontalmente, bensì verticalmente. Sono, in altre parole, centripeti ed interni al tempo, a tutti quei momenti di cui interiorizziamo a tal punto le cadenze, le invariate variabili e il protagonista, ché anche solo la minima alterazione diventa motivo, indizio, preludio di un risvolto drammatico. L’assoluta leggibilità, appunto: grazie ad un’esplorazione pura ed incondizionata delle potenzialità eloquenti delle sole immagini, ad una parola ridotta davvero ai minimi termini, e all’invisibile lavoro recitativo (che si disfa dei riconoscibili panni dell’attore, abbandonandosi ad un catalogo variopinto, smisurato, genuino di microespressioni) di un Kōji Yakusho giustamente da premio, Perfect Days si dà a tutti (quasi) allo stesso modo, con la medesima partitura, le medesime note, e le medesime emozioni.
Insieme a Kaurismäki e prima di Woody Allen, Wenders torna allora dietro la macchina da presa affidando non soltanto ad una dichiarazione di parentela, di appartenenza, ad un necessario rimpatrio, all’omaggio verso un immortale pezzo di cinema (nel suo caso, ad Ozu), quanto soprattutto alla semplicità e alla lucidità, alla cosiddetta essenzialità dell’essenza; la consacrazione del proprio, decennale rapporto col cinema. Cosa che porta di conseguenza la pellicola ad assumere la forma di un’ultima pacificazione con un mezzo espressivo che il cineasta tedesco ha percorso secondo direzioni sempre oltre. Che, per Wenders, è equivalso sempre ad un vedere attraverso, ad un falso e ad un doppio movimento, ad un sovrapporsi di ombre e di sguardi: il suo e quello di un altro da sé, sia esso un soggetto, un personaggio o un regista. Fu così per Michelangelo Antonioni, ché lo sguardo o, meglio, la vista, addirittura gli vennero a mancare e venne da lui assistito durante le riprese di Al di là delle nuvole.
Quell’Antonioni, che, del resto, non poteva mancare all’appello in questa sintesi radiosa e magistrale di una vita, di un mondo (possibile tra i tanti sul grande schermo) e di un modo, in questa lezione di regia (che, in quanto tale, è e non può che essere retorica), in questa mite e pacata resa al cambiamento. Difatti, subito dopo Ozu, il suo Viaggio a Tokyo e, soprattutto, il testamentario Il gusto del sakè, in Perfect Days riecheggia N.U.: un’opera di osservazione (politica, polemica, socio-realista) più unica che rara, il film con cui, nel 1948, Antonioni raccontò la vita dei netturbini durante e dopo le ore di lavoro, e l’importanza dei rifiuti nel definire l’identità di ognuno.
Una sinfonia urbana, una piccola, grande epica moderna, com’è questo canto ad occhi aperti di uno degli ultimi ed invisibili che credono nel valore della funzionalità ormai scontata degli oggetti, degli strumenti, degli utensili della propria esistenza, poiché essa è al contempo motivo di vanto nel proprio lavoro. Che credono quindi nell’impegno per un funzionamento quanto più salubre, corretto ed ordinato del nostro mondo ossimorico, irrefrenabile, impalpabile, delle nostre città convulse e scomposte. Di un oggi in cui tutto sembra già fatto, visto, raccontato, scoperto, consueto, banale, mediocre, ordinario, ma che il cinema riesce inspiegabilmente a rendere prodigioso, taumaturgico. Che autori come Wenders ci fanno ancora conoscere ed apprendere come fosse la prima volta, come fosse sempre qualcosa di nuovo. Per e in cui film come Perfect Days sono isole.
Perché, come direbbe l'autore francese Houellebecq, “divenuto totalmente dipendente, conosco il tremito dell’essere, l’esitazione a sparire, il sole che colpisce al limitare, e l’amore in cui tutto è facile, in cui tutto è dato nell’attimo; esiste in mezzo al tempo, la possibilità di un’isola".
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