TITOLO ORIGINALE: Killers of the Flower Moon
USCITA ITALIA: 19 ottobre 2023
USCITA USA: 20 ottobre 2023
REGIA: Martin Scorsese
SCENEGGIATURA: Martin Scorsese, Eric Roth
CON: Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, Brendan Fraser
GENERE: poliziesco, drammatico, storico, giallo, thriller, western
DURATA: 206 min
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2023
A quattro anni dal suo film-testamento The Irishman, Martin Scorsese torna sul grande schermo con Killers of the Flower Moon, il racconto dell'infame storia della nazione Osage e del branco di lupi bianchi che li uccise per azzannarne il loro patrimonio ottenuto grazie alla fortuita scoperta del petrolio sotto le loro terre. Una pellicola in cui il cineasta sveste e disallestisce il proprio cinema di tutte le forme tipiche per smascherare (un'altra volta) lo spirito di una nazione e la banalità del Male. Nel bene (della coerenza) e nel male (dell'esperienza).
È una storia che Martin Scorsese ha già raccontato tante volte, quella di Killers of the Flower Moon. Una storia che forse ha sempre raccontato, solo con attori diversi, sotto forme diverse, senza dubbio in periodi diversi. È la moderna epica americana, l’anti-epica per eccellenza. La storia della faccia più immorale, corrotta, inguaribilmente maligna degli Stati Uniti (e non solo), che non deve più nascondersi nell’ombra, dietro la maschera dei falsi valori, o strutture di pensiero (anche le più bieche e torbide) ed istituzioni secolari come la religione o chi per lei. Che non è più, probabilmente non è mai stata soggiogata alle cieche stanze degli intrighi, dei giochi di potere, delle cospirazioni. Che serpeggia liberamente nel mondo, mischiandosi e mimetizzandosi, mutando oggetti, scopi e modalità, ma rimanendo, in fondo, sempre la stessa. È la storia della nascita (di griffithiana memoria) o del crollo di una nazione - dipende, come sempre d’altronde, dai punti di vista. La prova che questa nazione, una vera innocenza, non l’ha mai avuta. Anzi, è nata, cresciuta e continua ad esistere nel segno del peccato originale di un’umanità divisa, ferita, capace di coltivare soltanto la cultura del sangue, della violenza, della sopraffazione, del conflitto.
È un altro capitolo di quella stessa inestirpabile, maledetta storia, quella che affronta il cineasta newyorkese in questa sua ultima fatica, che arriva sugli schermi a quattro anni da quello che molti avevano considerato il suo film-testamento, il dolente, interessante e dibattuto The Irishman, e dopo una trionfale première all’ultimo Festival di Cannes. Una vicenda non così conosciuta, passata alle cronache come Regno del Terrore, di cui ancora oggi non conosciamo e forse non sapremo mai la reale portata. Una vicenda che si dipana nel corso di più di vent’anni, tra i ‘10 e i '30 del secolo scorso, e che ha per protagonisti la fu popolazione più ricca d’America: gli indiani Osage dell’Oklahoma; una compagine, se non proprio un’associazione criminale mai interamente identificata di bianchi, e, neanche a dirlo, il caso.
È infatti per caso, o per divina volontà, che dopo essere stati rimbalzati di stato in stato, di riserva in riserva, dal governo statunitense, gli indiani Osage finiscano in una terra che scopriranno poco dopo celare nelle sue viscere un tesoro miliardario. Il cosiddetto oro nero di cui il mondo ha necessità, è ingordo, e che li renderà, come sopra, la popolazione più benestante di tutto il suolo americano. Tuttavia, con la fortuna arrivano anche le complicazioni, i problemi ed, immancabili, gli avvoltoi. Nelle fattezze di lupi (gli stessi che saranno poi di Wall Street, il medesimo Male) travestiti da uomini, che prima sanciscono che gli Osage non sono in grado di gestire le proprie ricchezze e il proprio capitale, e che pertanto dovranno essere affidati alla cautela e alla guida di tutori (bianchi), i quali diventano a tutti gli effetti i padroni dei loro soldi. Gli stessi che, in un secondo momento, architetteranno un modo per ottenere le concessioni dei nativi. Il modo - va da sé - è quello più feroce, avido, efferato: uccisi a colpi di pistola, accoltellati alla schiena, avvelenati, vittime di agguati e imboscate, ma sempre e comunque in circostanze misteriose. Chiaramente, in questo strascico, in questa rivitalizzazione di Far West - che si verifica guarda caso a ridosso della nascita del Klu Klux Klan e del massacro di Tulsa - chiunque osi investigare e fare luce sul caso finisce anch’egli sottoterra.
È una storia, quella degli Osage e del loro infame destino, che è divenuta veramente di dominio pubblico soltanto di recente. Di preciso, nel 2017, quando il saggista e giornalista David Grann (già noto per Civiltà perduta) pubblica Gli assassini della terra rossa - in originale, proprio Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI -, un libro avvincente e dettagliato su quei fatti, di cui colpisce soprattutto lo stile di scrittura e la prosa asciutta dell’autore, già pronti a diventare immagine, quasi si trattasse di un trattamento esteso. Un testo che ricostruisce, evento dopo evento, prova dopo prova, dichiarazione dopo dichiarazione, storia dopo storia, un ritratto esauriente (per quanto sia possibile riesumare una storia quasi un secolo dopo) di questo Regno del Terrore, schiudendo pian piano di fronte ai nostri occhi - al pari, per dirla con Scorsese, dei fiori che fanno da sfondo a L’età dell’innocenza - le porte di un mondo, con il suo effimero equilibrio tra tradizione e modernità, tra un contatto e rapporto singolare con l’alterità e la natura ed uno stile di vita introiettato e, ad una prima occhiata, disorientante; ma soprattutto con le dinamiche di forza e di potere, le vittime e i carnefici, la luce, l’ombra e l’ambigua zona grigia che vi si pone perfettamente a metà.
Lo stesso procedimento è quello che guida ed informa l’approccio di Martin Scorsese alla materia, che egli osserva, ripercorre, ridistribuisce e mette in scena da un’altra prospettiva. Non quella cronachistica e differenziata adottata da Grann, bensì posizionando idealmente il cuore del proprio adattamento, co-firmato insieme allo sceneggiatore (di Forrest Gump, Insider, Munich, A Star is Born, Dune) Eric Roth, internamente, nel punto nevralgico e teoricamente più interessante di tutta la faccenda. Ossia nel rapporto tra la nativa Mollie e il marito Ernest Burkhart, reduce di guerra, tra i principali indiziati e responsabili dei delitti, nipote del mammasantissima William K. Hale, autodefinitosi Re delle Osage Hills e perseguito, condannato e riconosciuto giuridicamente come capo del branco di lupi famelici e senza scrupoli che hanno azzannato, ucciso e tentato per decenni al capitale dei ricchi indiani.
Inutile dire che - lo si scopre fin dai primissimi momenti e movimenti della pellicola - ciò che interessa più di tutto e di tutti a Scorsese siano proprio Ernest Burkhart e i due rapporti che, in qualche maniera, lo descrivono e definiscono in quanto uomo, ben prima che come personaggio. Uno è lo stesso, sempiterno, che già innumerevoli volte abbiamo visto nell’opera del regista: il rapporto mafioso, di soggezione, ubbidienza e fedeltà incondizionata nei confronti del già citato, luciferino e mellifluo zio, il quale lo manipola neanche troppo sottilmente, facendo leva sulla palese stupidità ed ingenuità del nostro, fin dal loro primo incontro. L’altro, se non è inedito nel concetto, lo è nei modi, nelle sfumature e nell’intensità ed è quello, estremamente ambiguo, sfuggente, decisamente più interessante, con la moglie, nel cui tratteggio il cineasta pare tornare all’ispirazione dostoevskijana di colpa già presente in molte sue pellicole.
Del resto, dostoevskijano è forse l’aggettivo che meglio di tanti altri rende la scrittura del personaggio di Burkhart, quest’ultimo perfetta sintesi della rappresentazione scorsesiana del connubio abissale tra uomo e Male, qui inteso nelle nostre parole d’apertura, nel senso di un idiota che trova nell’intesa e nell’assecondare le melliflue promesse e faustiane proposte, nell’esercizio banale e primitivo del Male la via più semplice e conveniente per diventare qualcuno, per dare un senso a ciò che non è, per non accettare la propria natura di inetto.
Un Male che è banale proprio perché è inevitabile, e viceversa. Che può nascondersi in piena vista appunto in nome di questa sua mediocrità. E che Scorsese rappresenta ed inquadra di conseguenza, quasi depauperando Killers of the Flower Moon di tutte le forme proverbiali del proprio cinema, abbracciando uno stile più composto, distante, posato, informativo se preferite. Così facendo, svestendo e disallestendo la propria firma, egli punta a smascherare e a puntare dritto al cuore del soggetto-oggetto di questa sua ricostruzione ed interrogazione dello spirito di una nazione. Naturalmente nel bene, per quel che riguarda l’indubbia coerenza interna del testo, e nel male, per quel che, viceversa, concerne l’esperienza.
Ergo: dilungandosi indolente e stiracchiandosi con passo pachidermico, assecondato dal montaggio della sodale Thelma Schoonmaker e dalle musiche (fin troppo) minimaliste del compianto Robbie Robertson, imprigionato nelle scenografie, fino a raggiungere i 206 minuti di durata, in un racconto che sembra più che altro la dimostrazione scientifica, empirica di un Teorema, di un discorso, e, in secondo luogo, di un’urgenza tutta creativa. Al di là di quel che riguarda la dimensione testuale, Killers of the Flower Moon è infatti assimilabile ad un ultimo e disperato tentativo di affermazione di prestigio, grandezza, dignità del cinema in quanto pratica artistica, autoriale e theater-based, e - tramite il recupero e l’adozione dei ritmi e delle forme narrative e narratologiche della serialità, a partire dalla scansione procedural - di messa alla prova dello spettatore contemporaneo, del cosiddetto binge-watcher.
Ma anche tornando irrimediabilmente a quei soliti, vecchissimi e non più tanto bravi ragazzi - interpretati dalle due maschere per eccellenza del cinema scorsesiano, Leonardo DiCaprio e Robert De Niro, la cui immagine viene deformata e la mitologia distrutta del tutto per renderli niente più che maschere, simulacri grotteschi di tutto quel Male -, alla violenza che irrompe incontrollata in scena, all’arrampicata di soldi e potere ormai priva del fervore, dell’ebbrezza di un tempo.
Tutto questo, a discapito e a sacrificio di quello che si è rivelato il nostro colpo di fulmine. Che è la Mollie Burkhart di una Lily Gladstone impegnata in una prova “fatta di microespressioni calibrate con una parsimonia incredibile”, sofisticatissima, già espressivamente matura, nel proverbiale ruolo della vita, purtroppo non sempre ben valorizzato dall’istanza narrante. È senz’altro lei l’elemento più affascinante e (siamo sicuri) indelebile di Killers of the Flower Moon.
Uno sguardo, un’anima ed un segreto impenetrabili, i suoi, che non fanno che amplificare, mettere in risalto il contrasto del gran finale, del vero colpo da Maestro (un ritorno ai tempi di New York, New York o un omaggio a L'uomo che uccise Liberty Valance, che però, per chi scrive, arriva troppo tardi), rispetto cui si pone inevitabilmente in diretta antinomia, insieme spiegando le intenzioni di Scorsese (il quale non a caso si fa personaggio) e rendendo giustizia, emancipando la Storia che ella rappresenta ed incarna da uno degli imprescindibili e più diffusi rituali: il racconto, la narrazione; e dalle maglie parziali, frivole, un po’ posticce, banali (giustappunto) di una drammatizzazione crime. Renderla viva, come dimostra la meravigliosa inquadratura finale. Ridarle vita, nonostante Killers of the Flower Moon.
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