TITOLO ORIGINALE: Guy Ritchie's The Covenant
USCITA ITALIA: 27 luglio 2023
USCITA USA: 21 aprile 2023
REGIA: Guy Ritchie
SCENEGGIATURA: Guy Ritchie, Ivan Atkinson, Marn Davies
CON: Jake Gyllenhaal, Alexander Ludwig, Antony Starr, Emily Beecham
GENERE: guerra, azione, thriller
DURATA: 123 min
L'instancabile e prolifico Guy Ritchie torna dietro la macchina da presa con (Guy Ritchie's) The Covenant, un war movie che è innanzitutto un palese e neanche troppo celato tentativo Oscar. Jake Gyllehaal e il danese Dar Salim interpretano rispettivamente un sergente dell'esercito degli Stati Uniti impegnato in Afghanistan ed un interprete locale ex-collaborazionista dei jihadisti in una pellicola perfettamente divisa e caratterizzata a metà, ma non del tutto compiuta, che racconta la storia di due umanità spezzate, tradite, rinnegate, ma anche, loro malgrado, pericolosamente mitizzate dal conflitto.
The Covenant è il nuovo film di Guy Ritchie. O, meglio, The Covenant è un film di Guy Ritchie. O, ancora meglio, è Guy Ritchie’s The Covenant. C’è il genitivo sassone, quasi fosse una director’s cut oppure una summa dell’opera di uno dei registi più versatili e prolifici che il cinema abbia mai incrociato, quasi un figlio putativo di John Carpenter. C’è il genitivo sassone, anche se, ad una prima e superficiale occhiata, The Covenant sembrerebbe tutto tranne che un film di Guy Ritchie. Magari l’esordio di un nuovo regista che, in Guy Ritchie, ha trovato una principale fonte di ispirazione.
Il mistero di questa apparente anonimia, dell’assenza di quasi tutti i marchi di fabbrica ritchieani (eccezion fatta per l’ironia pungente che funge da contrappunto alla violenza, alla morte e, in questo caso specifico, anche del dramma e della tragedia, così come l’uso accentuato ed accentuante dello slow-motion), è presto svelato. Forse.
Al di là di tutti i discorsi e il lavoro più sotterraneo e sofisticato di cui andremo a scrivere tra poche righe, iniziamo col riconoscere quanto The Covenant sia, in primis, un palese tentativo Oscar da parte sia dello stesso regista, sia dei due attori principali (Jake Gyllenhaal e il danese Dar Salim). Ma si potrebbe anche ipotizzare che a nomination possa andare la, a tratti brillante ed acuta, sceneggiatura, scritta a sei mani da Ritchie, Ivan Atkinson e Marn Davies a partire da un altrettanto brillante soggetto sempre a firma loro.
Tale, lo è e lo diviene poi pensando alla retorica e ai cartelli(!) che ci introducono alla vicenda, per non parlare di quelli sui quali si sceglie di chiudere il tutto. Testi che ripercorrono le “gesta” degli americani in Afghanistan, a seguito e come rappresaglia per gli attentati dell’11 settembre, e il ruolo e il sacrificio che gli interpreti - in gran parte locali, spesso ex-collaborazionisti pentiti degli jihadisti - hanno rivestito nei magri e deludenti esiti di questo conflitto, che, lo ricordiamo, è durato ben vent’anni (le truppe statunitensi si sono infatti ritirate soltanto nel 2021, ndr).
Ciò detto, all’interno di questa cornice sistemica e sistematica, dagli scopi ben precisi ed innegabili, Guy Ritchie si muove per dar vita ad un racconto e ad una pellicola che, in fin dei conti, giustifichino quel genitivo sassone tanto importante. La mimetizzazione del cineasta e la sottrazione della sua cifra riconoscibilissima diventano dunque parte di un discorso ordinato e di una relazione che, attraverso questo film, egli vuole intrattenere col genere war movie.
Ecco allora che tutta la prima ora di The Covenant si configura come un’opera di sintesi e di stilizzazione delle più recenti incarnazioni del filone. Si va quindi dall’occhio solido ed imperturbabile di Clint Eastwood in Lettere da Iwo Jima ed American Sniper al realismo frenetico ed eccitabile di Ridley Scott in Black Hawk Down o di Sam Mendes in Jarhead, passando per l’approccio solido, impegnato, tinto di un'inconfondibile e sottile intelligenza femminile, di Kathryn Bigelow e del suo Hurt Locker, fino ad arrivare agli affreschi soffusi, poetici ed elegiaci de La sottile linea rossa di Terrence Malick e al cinema di sacrificio cristologico di We Were Soldiers e La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson.
La guerra, nel 2018 (anno diegetico in cui facciamo la conoscenza dei nostri protagonisti), non è più un fatto patriottico, una risposta accompagnata da un grosso peso emotivo, etico, morale e civile, ma “è solo un lavoro”. È una routine mortale, un conflitto logorante di logoramento reciproco, sulla cui profanità Ritchie insiste nella seconda mezz’ora, dopo qualche primo passo, appunto, estremamente manierato, formale e formulaico - aspetto, quest'ultimo, che viene lasciato volontariamente trasparire dalla scrittura artificiosa dei dialoghi e, nello specifico, degli scambi tra il sergente interpretato da Gyllenhaal e il suo superiore.
Dopo una sequenza d’azione corale estremamente ben diretta e con una costruzione tensiva davvero ineccepibile, The Covenant immerge infatti i suoi due protagonisti in una guerra individuale, terrena e terrigna, dove e proprio perché i metri e chilometri di territorio diventano il vero oggetto del contendere. Uno scontro fatto di gole, dirupi, depistaggi ed imboscate - a cui poi seguirà il momento “gibsoniano” -, che è solo una riduzione rappresentativa dello scontro più grande di tutta la regione, il quale è sempre sullo sfondo.
È però giunti alla fine di questo segmento che si comprendono quali sono i reali intenti di Guy Ritchie e qual è, del resto, la vera storia di The Covenant. Come molti hanno già fatto notare, nell’era dello streaming, un prodotto simile avrebbe potuto essere comodamente pensato come una miniserie in due parti, in quanto la seconda ora compie una cesura netta, in termini di tono, stile, estetica e reale soggetto ed oggetto dell’azione, rispetto a tutto ciò che è venuto prima.
Di conseguenza, il fulcro della vicenda diventa il debito che il sergente John Kinley (Gyllenhaal appunto) matura nei confronti del commilitone ed interprete afghano che lo ha salvato (portato su schermo da un interessante Dar Salim), e la pellicola si trasforma nel racconto di due umanità spezzate, tradite, rinnegate, ma anche - loro malgrado - pericolosamente mitizzate dal conflitto. Un frammento, questa seconda metà, nel quale il regista applica il tocco caratteristico dei suoi gangster movies (nella scrittura, nella recitazione, nel ritmo, pure nelle didascalie a schermo) alla descrizione, viceversa, di una conseguenza inevitabile per quasi tutte le storie di guerra.
E quindi: lo stress post-traumatico, qui inteso come tormento, rimorso, che confluiscono, a loro volta, in episodi di nevrosi, visioni semi-oniriche e schizofrenia. Tutti stadi e stati d’animo ben interpretati da un Jake Gyllenhaal sempre preciso ed attento nel graduare e sfumare l’intensità della propria performance. Ancor più perspicace è però la scelta - circoscritta sempre a quel muoversi ludicamente e liberamente nei confini e contorni di un’operazione metodica e funzionale - di sostituire alla minaccia di tutta la prima parte, ossia i talebani, un nemico ed un ostacolo forse ancor più difficile da estirpare: la burocrazia.
Peccato soltanto che questa intrigante intuizione - che, se perseguita fino in fondo, avrebbe non solo accentuato ancor più decisamente la frammentazione netta della storia di The Covenant, ma reso quest’ultimo uno dei più originali e freschi (e in parte lo è pure) war movies in circolazione - venga abbandonata a favore di una risoluzione che serve a farci ritrovare il sempre notevole Antony Starr da The Boys, ma soprattutto è necessaria per assicurarsi un posto (non si sa quanto d’onore) per l’imminente stagione dei premi.
La resa dei conti sulla diga o sul ponte alla Tyler Rake sembra inevitabile, ai danni della trattazione più peculiare ed intimamente inedita della guerra (che - ci viene suggerito qui - è fatta dai burocrati, più che dai soldati), così come inevitabili sono quei cartelli ruffiani di cui sopra, che celebrano la vita e piangono la morte dei migliaia di collaborazionisti, in e per un finale raramente anticlimatico e cerchiobottista. Deludente, sia verso tutto quello che lo ha preceduto, sia, in particolare modo, rispetto alla promessa di quel genitivo sassone, scontentato proprio all’ultimo.
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